Salvatore Quasimodo e il Sud

Aspro è l’esilio,

e la ricerca che chiudevo in te

d’armonia oggi si muta

in ansia precoce di morire;

e ogni amore è schermo alla tristezza,

tacito passo nel buio

dove mi hai posto

amaro pane a rompere 

(p.11)[2].

Qui compare anche, per la prima volta, quella evocazione in chiave mitica della Sicilia e delle sue origini greche (le “isole dolci del dio” con cui l’autore allude alle isole Eolie, sacre, un tempo, a Eolo, il mitologico dio dei venti), che sarà un altro tratto caratterizzante della poesia di Quasimodo.

In Vicolo, compresa nella stessa raccolta, emerge invece un altro aspetto della realtà siciliana, rivissuto nel ricordo dal poeta, quello più dimesso e quotidiano della vita in uno dei tanti paesini dell’isola, con le sue “botteghe tarde”, le donne intente al lavoro dei telai, il “pianto di cuccioli e di bambini” nella notte, i rumori dei cortili e dei vicoli. Ma qui c’è soprattutto il rimpianto (“Altro tempo…”) della piccola patria lontana, dove l’affettuosa coralità del vivere costituisce un antidoto alla solitudine e al malessere esistenziale:

Vicolo: una croce di case

che si chiamano piano,

e non sanno ch’è paura

di restare sole nel buio

(p.29).

Anche in un’altra poesia di  Acque e terre, intitolata proprio Terra, è evocata con pungente nostalgia l’isola perduta, della quale sono messi in rilievo alcuni tratti tipicamente mediterranei, come il vento (“mi giunge il vento se in te mi spazio”, p. 17), il mare con i suoi odori, le vele, le reti dei pescatori, la laboriosità e i canti della “sua gente”, i bambini “anzi l’alba desti”, e poi ancora l’aridità dei monti, le pianure erbose, le mandrie e le greggi.

Nelle raccolte successive, Oboe sommerso (1932) e Erato e Apòllion (1936), improntate alla cosiddetta “poetica della parola” tipica della fase ermetica, a prevalere è sempre una immagine della Sicilia come rifugio, come àncora di salvezza nella dispersione del vivere quotidiano, come  luogo di beatitudine celestiale. Non a caso, la lirica Alla mia terra, che fa parte di Oboe sommerso, termina con un paragone ultraterreno:

In te mi getto: un fresco

di navate posa nel cuore;

passi ignudi d’angeli

vi s’ascoltano, al buio

(p. 41).

In Isola, compresa sempre in questa raccolta, la “dolce voce” della sua terra è un richiamo irresistibile che gli permette di sfuggire, sia pure per un attimo, all’“ansia d’altri cieli”, cioè agli affanni dell’esistenza in luoghi forestieri,  e nascondersi “nelle perdute cose” (p. 60), cioè nel passato, in quei beni persi per sempre. Ma ora la Sicilia è vista in una dimensione metatemporale e astorica, evocata nei suoi elementi paesaggistici dal sapore primordiale, come in Isola di Ulisse, che fa parte di Erato e Apòllion:

Dal fuoco celeste  

nasce l’isola di Ulisse.  

Fiumi lenti portano alberi e cieli  

nel rombo di rive lunari  

(p. 89).

Qualche novità è dato cogliere in Nuove poesie, scritte tra il 1936 e il 1942, poi entrate a far parte del volume Ed è subito sera (1942), che preannunciano il cosiddetto “secondo tempo” di Quasimodo, stabilitosi ormai definitivamente a Milano. Qui quel paesaggio allucinato, cosmico, immerso in un silenzio astrale, al centro delle due raccolte precedenti, incomincia a rianimarsi, si popola di presenze concrete, di voci, gesti, suoni, odori. Ritornano così, nella memoria del poeta, immagini umane e animali, segni della storia remota e della realtà attuale: i fanciulli che “con leggeri / moti del capo danzano in un gioco / di cadenze e di voci lungo il prato / della chiesa” (Ride la gazza, nera sugli aranci, p. 101); l’odore acuto di zagare portato dal “vento del sud” (ivi); la visione di resti di civiltà antichissime, come i templi greci con le statue dei telamoni “lugubri, riversi / sopra l’erba”, (Strada di Agrigentum, p. 102); il suono del marranzano che “tristemente vibra / nella gola al carraio che risale / il colle nitido di luna” (ivi); il bestiario favoloso (i puledri, gli aironi, le gazze, le gru, le colombe, i cavalli).

Ma una vera e propria svolta nell’attività letteraria di Quasimodo si ha soltanto, com’è noto, negli anni dell’immediato dopoguerra con la raccolta Giorno dopo giorno (1947), allorché matura, nel poeta siciliano e in genere negli ermetici meridionali, l’esigenza di una maggiore apertura comunicativa e, al tempo stesso, un’attenzione ai dati umani  e sociali della realtà. La sua poesia allora da lirica si fa corale ed epica e non disdegna di affrontare temi tratti dalla storia e finanche dalla cronaca, con un totale impegno etico e civile. Anche l’immagine della Sicilia cambia e un duro senso del reale prende il posto degli elementi favolosi e mitici, della trasfigurazione fantastica a cui il poeta aveva sottoposto la sua terra. L’“isola di Ulisse” diventa ora il simbolo dell’intero “Sud”, e, non a caso, questo termine, più ampio e generale, balza in primo piano e prende il posto dell’altro. Si legga, ad esempio, la strofa finale di A me pellegrino, dove, accanto al motivo della “lontananza”, geografica e ideale, della sua terra, c’è l’allusione alla lunga storia di lutti e di dolore del Sud:

La nostra terra è lontana, nel sud,

calda di lacrime e di lutti. Donne,

laggiù, nei neri scialli

parlano a mezza voce della morte,

sugli usci delle case

(p. 136).

Ancora più chiaramente questa nuova immagine della Sicilia emerge in una composizione compresa nella raccolta La vita non è sogno (1949), dal titolo Lamento per il Sud, dove il ritorno consueto, col pensiero, alla terra d’origine non è solo ormai la proiezione della propria vicenda interiore ma si carica di una riflessione sulla storia del Mezzogiorno, sul passato di miserie e di sopraffazioni, di sofferenze e di dolori della gente del Sud, espressa, sia pure, con una certa dose di enfasi e di oratoria:

Oh il Sud è stanco di trascinare morti

in riva alle paludi di malaria,

è stanco di solitudine, stanco di catene,

è stanco nella sua bocca

delle bestemmie di tutte le razze

che hanno urlato morte con l’eco dei suoi pozzi

che hanno bevuto il sangue del suo cuore.

Per questo i suoi fanciulli tornano sui monti,

costringono i cavalli sotto coltri di stelle,

mangiano fiori d’acacia lungo le piste

nuovamente rosse, ancora rosse, ancora rosse.

Più nessuno mi porterà nel Sud

(p. 147).

D’altra parte, Quasimodo, nel suo famoso Discorso sulla poesia, del 1953, aveva indicato proprio nel Sud, ma anche, più in generale, nella concretezza della propria terra, nel recupero delle proprie radici, della propria identità, una delle possibili fonti di ispirazione e di rinnovamento per la poesia nel secondo dopoguerra e negli anni Cinquanta:

 Sono uomini del Sud, spesso […] che, avuta una eredità terragna e feudale, aprono i loro dialoghi dritti e netti sulla loro sorte. Non hanno infanzia, né memoria di essa, ma catene ancora da rompere e concrete realtà per entrare nella vita culturale della nazione. Le muse dei boschi e delle valli tacciono in loro: rigurgitano invece i boati delle frane e delle alluvioni per le loro mitologie contadine. Faremo un giorno una carta poetica del Sud; e non importa se toccherà la Magna Grecia ancora, il suo cielo sopra immagini imperturbabili d’innocenza e di sensi accecanti. Là, forse, sta nascendo la “permanenza” della poesia (p. 290).

            Ma il tema della terra d’origine è presente anche nelle ultime raccolte di Quasimodo. In esse si attenua il tono polemico e di denuncia e compare invece una riflessione più serena e distaccata sul senso della storia e della vita dell’uomo. In Le morte chitarre, ad esempio, compresa nel volume Il falso e vero verde (1954), la storia millenaria della Sicilia che ha saputo affrontare tante traversie costituisce un esempio per il poeta che dichiara di ispirarsi alla sua “razza” aspra e fiera:

            Chi piange? Io no, credimi: sui fiumi

            corrono esasperati schiocchi d’una frusta,

            i cavalli cupi i lampi di zolfo.  

Io no, la mia razza ha coltelli

che ardono e lune e ferite che bruciano

(p. 163).

Anche luoghi e personaggi mitici che ritornano costantemente non sono più il pretesto per  trasfigurazioni fantastiche ma costituiscono un motivo di meditazione per Quasimodo. Si veda l’intera sezione Dalla Sicilia di Il falso e vero verde e, in particolare, Tempio di Zeus ad Agrigento, dove il gigantesco telamone del tempio di Zeus Olimpico di Agrigento, roso dal vento e dagli agenti atmosferici, diventa ora il simbolo della precarietà della condizione umana: 

… Il telamone è qui, a due passi

dall’Ade (mormorio afoso, immobile),

disteso nel giardino di Zeus e sgretola

la sua pietra con pazienza di verme

dell’aria: è qui, giuntura su giuntura,

fra alberi eterni per un solo seme

(p. 175).

Così pure nella lirica Una risposta, che fa parte della raccolta La terra impareggiabile (1958), la rievocazione iniziale della figura di Ulisse navigante nel mare di Aci, dove accecò il mostro Polifemo (“Se arde alla mente l’ancora d’Ulisse…”, p. 226), è l’occasione per alcune considerazioni sul desiderio di sempre nuove conquiste da parte dell’uomo, sulla sua connaturata ansia di conoscenza emblematicamente rappresentata dall’eroe greco.

            Ma, per concludere questo rapido excursus sul tema del Sud nella poesia di Quasimodo, vorrei soffermarmi su una poesia compresa nel suo ultimo volume di versi, Dare e avere (1966), Nell’ isola, che si può considerare quasi una sintesi dell’atteggiamento quasimodiano nei confronti della sua terra. Qui infatti la riflessione sulla storia dell’isola e sulle condizioni del popolo siciliano, che caratterizza, come s’è visto, le raccolte del dopoguerra, si fonde con il ricordo degli anni d’infanzia e d’adolescenza, che invece è tipico della sua prima produzione poetica.

            Il poeta guarda ora alla vicenda millenaria della Sicilia, alla stratificazione di razze, di culture, di civiltà diverse (greci, svevi, spagnoli, arabi) che hanno contribuito al suo sviluppo e sembra  acquietarsi al pensiero della continuità della storia, del fluire inarrestabile delle vicende umane che trascende la vita dei singoli individui:

            Di tutte le mani che alzarono muri

            nell’isola, mani greche o sveve

            mani di Spagna mani saracene,

            muri del solleone e dell’autunno,

            di tutte le mani anonime e ornate

            di sigilli, vedo ora

            quelle che gettarono case

            sul mare di Trabia. Linee verticali,

            avvolgimenti dell’aria inclinati

            dalle foglie dell’acacia e dei mandorli

(p. 253).

            Così anche il ricordo dell’infanzia lontana si mescola col sentimento delle antiche civiltà sepolte, dando il senso della continuità della vita che sembra pullulare dalla morte:

Oltre le case, laggiù, fra i lentischi

            delle lepri, c’è Solunto morta.

            Salivo quella collina un mattino

            con altri ragazzi lungo

            interni silenzi. Dovevo

ancora inventare la vita

(p. 253).

Ora, insomma, la riflessione di Quasimodo sul Sud, partita dalla propria vicenda personale, assume un significato e un valore universale che riguarda il destino di tutti gli uomini.

[In A.L. Giannone, Tra Sud ed Europa. Studi sul Novecento letterario italiano, Lecce, Milella, 2013]


[1] V. Bodini, Quasimodo iniziatore della poesia meridionale. Le sue terre d’uomo, in “La Fiera letteraria”,  a. X, n. 29, 17 luglio 1955, p. 5. Sul rapporto tra il poeta siciliano e quello salentino ci sia permesso di rinviare a A.L. Giannone, Quasimodo, Bodini e l’ermetismo meridionale, in “Rivista di letteratura italiana”, a. XXI, n. 1-2, 2003, pp. 149-158.

[2] Tutte le nostre citazioni sono tratte da S. Quasimodo, Poesie e discorsi sulla poesia, a cura e con introduzione di G. Finzi, Prefazione di C. Bo, edizione riveduta e ampliata, Milano, Mondadori, 1996.

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