Scritti scolastici e sociali – Anno 2017

Il conformista non ha età. E’ sempre esistito. Esisterà sempre. Quello che pensa come pensano gli altri, che segue le mode soprattutto culturali o pseudo tali, che si adegua, si adatta, quello che ritiene che abbia sempre ragione la maggioranza ma che la minoranza non ha tutti i torti, quello che considera che sia bene fare in un modo ma che fare al contrario non sia proprio male, è sempre esistito, esisterà sempre.

Ma a volte il conformismo è inconsapevole, in quanto determinato da una serie di condizioni e di espressioni sociali e culturali che si costituiscono come modelli di riferimento fondamentale.

Probabilmente il tempo che viviamo agevola il conformismo inconsapevole, che ci porta per le strade che percorrono tutti, che ci fa pensare quello che pensano tutti, adottare i comportamenti di tutti, fare le scelte che fa la maggioranza, decidere quello che decide la maggioranza. Certo, si può anche sbagliare; ma l’importante è che si sbagli tutti insieme. Se si sbaglia tutti insieme, non si sbaglia, si fa bene. Si affonda, ma se si affonda tutti insieme, affondare e una bella impresa.

Esistono, dunque, modelli culturali, sociali, esistenziali, ai quali si fa riferimento inconsapevole. Ma la circostanza che si abbia consapevolezza dell’inconsapevolezza costituisce un’opportunità nel caso in cui si intenda cercare degli antidoti al conformismo, nel caso in cui si voglia lasciarsi un varco aperto dal quale scappar via smettendo di seguire quelle che Francesco Guccini chiamava le tante stanche pecore bianche, con l’accortezza, però, di non lasciarsi intrappolare dal conformismo dell’anticonformismo anche ideologico di cui si è fatta esperienza nei decenni passati. Almeno per qualche ora durante la giornata, per qualche giorno nel corso della settimana, del mese, dell’anno. Di tutta la vita.

Così, nella consapevolezza dell’inconsapevolezza forse conviene mettere le mani avanti e preparare da se stessi una pozione, un intruglio che consenta di sottrarsi per un poco alla seduzione subdola del conformismo, di elaborare un’opinione personale, di pensare in modo non confacente, di ragionare senza schemi e senza griglie.

A pensarci, poi, non ci vuole molto. Basta soltanto una poesia, la pagina di un romanzo. Un classico. Per dire il motivo per cui è opportuno leggere i classici come contrasto al conformismo del pensiero, dal quale dipende quello del comportamento quotidiano, potrei citare tranquillamente Italo Calvino, ma probabilmente sarei conformista, in quanto tutti citano questo e altri libri di Calvino anche se non tutti quelli che li citano li hanno letti per davvero.

Per cui non lo cito e azzardo semplicemente un’impressione assolutamente personale.

Quando il sistema simbolico- culturale propone modelli, espressioni, significati che sono tutti uguali, allora risulta conveniente cercare situazioni che propongono modelli con una loro originalità, che sono unici, irripetibili, inimitabili, o di cui si rivela abbastanza facile riconoscere le imitazioni.

Quando qualcosa è identico a tutto il resto, non si può fare altro che cercare il diverso dal resto. Quando tutto risponde ad una concordanza, ad una conformità, ad una convergenza, non si può fare altro che cercare una discordanza, una difformità, una divergenza. Quando tutti i personaggi e i luoghi e i discorsi si rassomigliano non si può fare altro che cercare personaggi e luoghi e discorsi caratterizzati dalla dissomiglianza.

I classici mostrano il pensiero diverso, personalità diverse, una molteplicità di situazioni e condizioni, una pluralità di esperienze. Omero, Shakespeare, Cervantes, Dante, Goethe, Proust, Tolstoj, Dostoevskij, Beckett, Hemingway, Buzzati, rappresentano esistenze e destini imparagonabili, assoluti. Il confronto con quelle esistenze, con quei destini pretende la condizione della profondità. D’altra parte, come si fa a stabilire un rapporto con l’Ulisse di Dante se non guardando il personaggio negli occhi, se non scavando dentro quegli occhi per rivelare la bellezza e la disperazione dell’avventura. Come si fa a reggere la follia di Don Chisciotte se non attraverso un processo di individuazione e comprensione della radice di quella follia.

Nel tempo del conformismo inconsapevole, dell’impaludamento dei significati, dell’opacità delle espressioni, abbiamo bisogno di una autenticità da contrapporre all’inautentico, di una straordinarietà con cui contrastare l’uggia dell’ordinario. Per tentare di scampare all’assedio della banalità, del grigio conformismo. Forse, mentre tutti dicono di sì, mentre noi stessi diciamo a tutto e a tutti di sì, mentre chiediamo quello che chiedono tutti, mentre rispondiamo come rispondono tutti, potremmo cercare di imparare a domandare ed a rispondere, innanzitutto a noi stessi, confrontandoci a tu per tu con quel personaggio straordinario che è l’imperatore Adriano resuscitato da Marguerite Yourcenar.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di lunedì 9 gennaio 2017]

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Il dialetto come antidoto al crescente appiattimento del linguaggio

Qualche tempo fa un amico mi diceva che lui sognava soltanto in dialetto. Non ricordava di aver mai fatto un sogno in cui le parole fossero in una lingua diversa. Nella profondità dell’inconscio, nel mistero dei moventi del sogno, le figure parlanti si esprimevano soltanto con le parole del suo dialetto. Poi, nel fondo del sogno, gli ritornavano parole che lui aveva completamente dimenticato, che forse aveva ascoltato da bambino, che forse aveva anche pronunciato qualche volta, da bambino, e poi mai più. Una, in particolare, se la ricordava perché ricorreva con frequenza: currutu. Spesso, nel sogno, c’era qualcuno che gli diceva cu tte m’aggiu currutu: con te mi sono offeso, con te sono risentito. Lui avrebbe voluto sapere chi fosse colui che si era currutu, per quale ragione era accaduto, avrebbe voluto anche chiedergli scusa, o dirgli che non aveva motivo di offendersi, di risentirsi, ma l’ombra del sogno scappava via e andava a nascondersi in una grotta di una montagna di sabbia che esisteva soltanto nel sogno. Allora si parlò di questa storia, di come fosse possibile che accadesse questo fenomeno; se ne parlò senza alcuna intenzione e senza alcuna competenza di natura linguistica o psicanalitica. Se ne parlò e basta. Lui aveva studiato ingegneria, si era specializzato all’estero, conosceva l’inglese, il tedesco, lo spagnolo, lavorava per una multinazionale, se ne andava in giro per il mondo, ma la notte, quale che fosse la parte del mondo in cui sognava, lui parlava in dialetto, sentiva parlare soltanto in dialetto, e spesso c’era qualcuno che gli diceva cu tte m’aggiu currutu, che gli ripeteva cu tte m’aggiu currutu, e poi scappava via e poi si nascondeva nella grotta di una montagna di sabbia che non esisteva.

A un certo punto l’amico disse che sua madre e suo padre gli avevano parlato sempre ed esclusivamente in dialetto.

Ecco. Forse era questa la spiegazione del sogno; era la sua radice linguistica.

Poi il parlare si ramificò, le considerazioni si sovrapposero, si aggregarono frammenti, si associarono idee, il discorso prese quell’andamento di cui dice Roland Barthes al principio dei suoi “Frammenti di un discorso amoroso” (dis-cursus indica, in origine, il correre qua e là), andò in questo modo fino a lambire la riflessione sulla motivazione per la quale oggi si possa parlare ancora il dialetto.

Lui diceva che cominciava a parlare in dialetto appena con la macchina prendeva lo svincolo per il paese. Parlava in dialetto con i figli che non capivano una sola parola e si dicevano fra di loro ecco, adesso è ritornato terrone, parlava in dialetto con suo padre e sua madre, con gli amici in piazza, con chiunque; parlò in dialetto per tutto il discorso di ringraziamento che fece quella volta che gli consegnarono la targa dell’emigrato di eccellenza, che ce l’aveva fatta, e quella volta c’erano le autorità tutte in prima fila. Parlò in dialetto perché voleva che lo capissero anche sua madre e suo padre, soprattutto sua madre e suo padre, che non stavano in prima fila ma tra la gente nella grande sala. Li ringraziò in dialetto; in dialetto ringraziò tutto il paese perché in quel paese era nato, ringraziò tutti gli amici, chiese scusa nel caso avesse dimenticato qualcuno, perché, pensò, chissà se non è un amico quello che nel sogno mi dice cu tte m’aggiu currutu, se non è un compagno di scuola al quale non ho passato il compito di aritmetica, un compagno di strada al quale ho bucato il pallone. Allora mi venne da pensare a quello che Luigi Meneghello scrive nel suo sfavillante “Libera nos a malo”: “Ci sono due strati nella personalità di un uomo: sopra, le ferite superficiali, in italiano, in francese, in latino; sotto, le ferite antiche che rimarginandosi hanno fatto queste croste delle parole in dialetto. Quando se ne tocca una si sente sprigionarsi una reazione a catena, che è difficile spiegare a chi non ha il dialetto. C’è un nòcciolo indistruttibile di materia apprehended, presa coi tralci prensili dei sensi; la parola del dialetto è sempre incavicchiata alla realtà, per la ragione che è la cosa stessa, appercepita prima che imparassimo a ragionare”. Dice ancora Meneghello che questo nòcciolo di materia primordiale contiene forze incontrollabili proprio perché esiste una sfera prelogica.

Probabilmente il sogno è una di quelle forze incontrollabili.

Forse qualche motivo per parlare il dialetto ancora c’è, per usarlo con una funzione che non sia quella del folclore o della poesia. Certo, rispetto a questo, ciascuno ha una propria opinione, un proprio sentimento, l’una e l’altro derivanti dalle circostanze, dalla formazione, dai contesti in cui vive, dalle ideologie, dalle scelte delle modalità di espressione con cui intende mettersi in relazione con l’altro, con gli altri, con se stesso. Dipende anche dalle individuali passioni per la lingua.

Una ragione, per esempio, potrebbe essere quella di una culturale opposizione all’appiattimento del linguaggio, al barbarismo, all’omologazione, a quella che Italo Calvino chiamava l’antilingua, al paludamento, al burocratese, allo standard che va sempre più in basso, alla massificazione, all’inespressività, al semplicismo, all’approssimazione, alla formattazione, al magma dei social.

Una culturale opposizione. Una resistenza. Una maniera per dire, per ribadire che il significato di una parola è qualcosa di assolutamente personale, di intimo, profondo, sostanziale, di unico qualche volta, qualche volta di insostituibile, irripetibile.

In un piccolo racconto intitolato “La tartaruga e il dialetto”, Giovanni Arpino dice: “Durante profonde commozioni mi son sempre trovato a pensare a esclamare addirittura a credere in dialetto”.

Per esempio: una preghiera. Forse quando una preghiera è viscerale, quando non è recitata nel corso di un rito, quando è un’invocazione, un colloquio a tu per tu con l’Infinito, un’implorazione, una supplica che riguarda il destino, si pronuncia soltanto con le parole di un dialetto, o si pensa silenziosamente in un dialetto: nella lingua delle ferite antiche.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di mercoledì 18 gennaio 2017]

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La memoria serve non solo per ricordare ma per guardare avanti

Probabilmente non c’è un solo accadimento, una sola condizione, una sola situazione di un giorno passato che non abbia una relazione con il giorno che si vive e con quello che si vivrà.

Probabilmente non c’è un solo significato delle storie che sono accadute che non proietti la sua ombra – chiara o scura- sulle storie che accadono.

Probabilmente non c’è pensiero che un uomo possa avere che non sia stato pensato da un altro uomo in un altro tempo, un altro luogo che conosciamo o non conosciamo; non c’è egoismo, altruismo, odio, amore, indifferenza, compassione, che non siano stati provati; non c’è verità o menzogna che non siano state pronunciate.

Quando si dice che la storia si ripete, forse, in fondo, significa questo: che nella profondità dell’istinto, nelle emozioni viscerali, l’uomo non ha mai mutato natura, per cui le sue manifestazioni, le sue espressioni, i suoi sentimenti, possono riproporsi continuamente.

Se poi nel loro riproporsi hanno la facoltà di distinguere il bene dal male, di adorare la civiltà e disprezzare la barbarie, se si rivelano utili o dannosi per un uomo solo o per l’intera umanità, dipende soltanto ed esclusivamente da quanto la ragione riesce a prevalere, e la ragione è determinata dalla comparazione degli effetti prodotti da comportamenti differenti, e la comparazione può avvenire soltanto sulla base della conoscenza di quei comportamenti.

Quindi è necessario conoscere quello che è stato. Conoscere quello che è stato significa avere memoria: personale, collettiva, diretta o mediata culturalmente. La memoria personale, diretta, ha una possibilità relativa. Un uomo, ogni uomo, ricorda per un certo tempo e poi non più; a volte ricorda in modo nitido, a volte in modo confuso. La memoria collettiva, mediata culturalmente, ha la possibilità di codificarsi, di stabilire punti di riferimento, di elaborare contesti di appartenenza.

A pensarci: ci sentiamo più o meno appartenenti a qualcosa, a qualcuno, ad un luogo, alla sua gente, quanto più o meno con i luoghi, con la gente, abbiamo un vincolo di memoria.

Ci sentiamo più o meno appartenenti, quando per dire, per significare, possiamo anche scegliere l’implicito o il silenzio perché abbiamo consapevolezza del fatto che l’altro ha la stessa conoscenza che noi abbiamo, conferisce alle cose i significati che noi conferiamo, attribuisce ad esse lo stesso valore.

Allora non si ha necessità di cominciare a dire sempre tutto dal principio. Si può partire da un senso acquisito, da un punto condiviso, e andare avanti.

Avere memoria vuol dire avere l’opportunità di andare avanti: in un discorso, in un processo di sviluppo, in un percorso di progresso. Si può andare avanti perché si ha memoria, e dunque conoscenza, di quello che c’è dietro, di quello che è già avvenuto, di quello che è già stato raccontato. Così la memoria non è uno sguardo rivolto al passato: è piuttosto uno sguardo rivolto all’orizzonte con la consapevolezza della strada che si è fatta e di chi si è incontrato nel corso del viaggio, del tempo bello e del tempo brutto che è venuto, del pericolo che si nascondeva o si mostrava spavaldamente in qualche punto e del soccorso che si è manifestato. Diceva Paul Ricoeur che è nella misura in cui torniamo alle nostre origini e in cui ravviviamo il nostro passato che possiamo essere, senza scontentezza, gli uomini del progetto. Ma in questa tensione verso il progetto, il passato ci interpella continuamente.

La memoria non è mai indifferente. Non può esserlo, perché coinvolge idee, emozioni, esperienze; perché riapre ferite, o accende nostalgie. La memoria non può essere indifferente perché determina decisioni, orienta le scelte. Forse tutto quello che facciamo, dipende dalla memoria di quello che abbiamo fatto o dalla conoscenza di quello che altri hanno fatto, degli esiti che ogni circostanza ha prodotto. Non può essere indifferente perché richiede, o pretende, una sostanziale rielaborazione ed una interpretazione continua dei fatti, delle cause, degli effetti. In un saggio uscito su “La Repubblica” del 22 gennaio 2017, tredici giorni dopo la sua morte, Zigmunt Bauman sosteneva che la memoria seleziona e interpreta, e ciò che dev’essere selezionato e il modo in cui interpretarlo è una questione controversa e costantemente contestata. “La resurrezione del passato, tenere vivo il passato, è un obiettivo che può essere raggiunto solo mediante l’opera attiva della memoria, che sceglie, rielabora e ricicla. Ricordare è interpretare il passato”.

Dalla conoscenza e dall’interpretazione della memoria, deriva anche la dimensione dell’identità.

Probabilmente senza una consapevolezza ed una coscienza del passato che ha fondato culturalmente il presente, non si può formare nessuna identità, o se ne può formare una frammentata e indefinita. Il presente che viviamo è fondato culturalmente sul Novecento.

Forse secolo breve, come sosteneva Eric Hobsbawm. Forse secolo interminabile, come dicono altri. Comunque il secolo di due guerre mondiali, terribili. Della bomba atomica, dei Lager, dei Gulag, dell’uomo che arriva sulla luna, delle scoperte scientifiche formidabili e del progresso straordinario, dei conflitti tribali e della violenza cieca, della nascita e della fine delle grandi ideologie, dei contrasti che bruciano ancora. Cronologicamente concluso, culturalmente ancora aperto, discusso, oggetto di dialettiche forti.

Con il Novecento esiste anche una relazione emotiva, una ragione che si incontra e si intreccia con la passione.

Quelli che hanno più di sedici anni, sono tutti figli del Novecento. Quelli che ne hanno di meno sono comunque figli dei figli del Novecento. Ecco,dunque, che con la memoria si ritrovano, ogni istante, a fare i conti per tentare di capire qual è la radice degli accadimenti, delle storie, dei fenomeni. Per tentare di capire da dove proviene tutta quella incantevole bellezza e tutta quella tristissima bruttezza che si vedono in giro per il mondo.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di giovedì 26 gennaio 2017]

[I rimanenti articoli dell’annata 2017 (e le annate seguenti) si possono leggere in questo sito, effettuando una ricerca per autore].

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