La narrativa di Vincenzo Consolo

            I primi due saggi si soffermano sul primo romanzo di Consolo, La ferita dell’aprile (Milano, Mondadori, 1963), che non riscosse grande successo, anche perché pubblicato in una collana di ricerca come “Il Tornasole”, ma che pure attirò l’attenzione di un lettore acuto come Leonardo Sciascia, uno dei punti di riferimento di Consolo per la passione, l’impegno civile che anima entrambi. Ebbene, da queste riletture, La ferita dell’aprile, che lo stesso autore ha definito un “romanzo di formazione”, viene fortemente rivalutato perché sembra preannunciare alcune caratteristiche della narrativa maggiore di Consolo, come l’impasto linguistico, la polifonia, la dimensione dell’oralità. A queste conclusioni arriva Daniela La Penna nel primo saggio intitolato, Enunciazione, simulazione di parlato e norma scritta. Ricognizioni tematiche e linguistico-stilistiche su “La ferita dell’aprile” di Vincenzo Consolo , in cui l’autrice colloca questa prima prova narrativa di Consolo nel contesto storico-letterario degli anni Sessanta. Nel 1963, l’anno in cui esce il romanzo d’esordio di Consolo,  si costituisce il Gruppo 63, ma escono anche ‒ osserva l’autrice ‒ romanzi che esplorano la dimensione orale come Libera nos a malo di Meneghello e Lessico familiare di Natalia Ginzburg. Il modello per la neoavanguardia diventa Gadda che conta molto ovviamente anche per Consolo per la scelta del pastiche  espressionistico, alla pari di Carlo Levi e della sua letteratura di denuncia e di Pasolini e della sua operazione filologico-antropologica. Ambientato in un piccolo paese della Sicilia, il libro narra della formazione di un ragazzo orfano di padre, che vede la madre sposare in seconde nozze lo zio. Ma accanto alla narrazione in prima persona di vicende personali del protagonista (le relazioni con gli amici, un amore adolescenziale, il difficile rapporto con lo zio-patrigno), vi sono pure accenni alle vicende storiche di quel tempo (la strage di Portella della Ginestra, le lotte politiche del secondo dopoguerra e le elezioni del ‘48). Nel romanzo  spicca già l’impasto linguistico ricco e vario, dove si nota la forte presenza del dialetto siciliano ma anche della parlata gallo-italica di certi centri della Sicilia, cari alla memoria di Consolo, come San Fratello, un paese vicino a Sant’Agata di Militello, dove Consolo è nato. Ma qui, osserva ancora la La Penna, “la lingua si poneva consapevolmente come l’espressione di un trauma personale che si fa storico, e del suo paradossale racconto”.

            Nel secondo saggio, dal titolo Le tre edizioni de “La ferita dell’aprile”: le varienti Miguel Angel Cuevas elenca le varianti delle tre edizioni a stampa del romanzo, aggiungendo gli ulteriori interventi che l’autore ha fatto successivamente. E anche esaminare le varianti di uno scrittore come Consolo è importante perché in effetti, come fa notare Cuevas, “nel suo idioletto  anche l’ubicazione di una virgola può obbedire a ragioni espressive, se non altro ritmiche”, proprio, potremmo osservare, come capita più frequentemente nella poesia a cui d’altra parte la prosa di Consolo sembra tendere in alcuni momenti e in alcune opere in modo particolare, data anche un’altra caratteristica della sua opera, cioè la commistione dei generi. Questo esame serve anche a capire le “tensioni che attraversano la scrittura di Consolo” e a individuare la tendenza che ispira il suo lavoro correttorio che va verso “l’eliminazione del bozzettismo”.

            Il terzo e quarto dei saggi presenti nel volume sono incentrati sull’opera  più famosa di Consolo, considerata il suo capolavoro e uno dei romanzi più importanti della seconda metà del Novecento, Il sorriso dell’ignoto marinaio, pubblicato nel 1976 presso Einaudi, anzi, come ho già detto, su porzioni e aspetti particolari di esso. Infatti il denso contributo della curatrice del volume, Giuliana Adamo, dal titolo Sull’inizio del “Sorriso dell’ignoto marinaio”, prende in esame proprio l’incipit del romanzo, appena le prime tre pagine. Si tratta di un lettura “rallentata e come in filigrana dell’incipit”, come scrive la stessa autrice, la quale si propone di individuare le strategie narrative impiegate da Consolo in apertura della sua opera servendosi di strumenti critici estremamente raffinati e aggiornati che non trascurano davvero niente. E infatti, ancora prima dell’incipit vero e proprio, la Adamo esamina il cosiddetto paratesto, cioè il titolo, la copertina e le due epigrafi, dai quali il lettore ricava già indicazioni importanti sull’opera, come il rinvio alla tradizione siciliana e la dimensione poetica in cui il romanzo  si colloca. Poi passa all’Antefatto, aggiunto dall’autore nella rielaborazione del primo capitolo tra il 1969 e il ‘75, che viene sottoposto a un minuzioso esame a livello semantico, stilistico e linguistico-narratologico. Qui, in questa mezza paginetta, il lettore trova già le indicazioni sugli elementi essenziali del romanzo (il luogo dell’azione, il protagonista, il suo nome, la sua effettiva esistenza, la protagonista femminile, ecc). Si tratta insomma, per usare le parole della studiosa,  di un “locus  in cui l’autore, anticipando la vicenda narrativa, offre al suo lettore una dichiarazione di poetica e rivela l’intento del libro”.

            Molto accurata è anche l’analisi dell’inizio della storia, che, secondo l’autrice del saggio,  “sintatticamente sembra riprodurre il respiro del mare, catturandone il moto perpetuo nella fase del rilasciamento”. Qui sembra emergere già quello che sarà uno dei motivi di fondo del romanzo, la graduale presa di coscienza della realtà, e quindi la sua precisa presa di posizione, il suo impegno a favore dei più deboli, da parte del protagonista, il barone Enrico Pirajno di Mandralisca, fino ad allora chiuso nella sua torre d’avorio di raffinato collezionista e studioso di malacologia. Dall’incipit quindi “si ha la chiave per capire il tipo di aspettativa che il lettore comincia a formarsi sul Mandralisca”.

            L’altro saggio dedicato al Sorriso, quello di Nicolò Messina, Nello scriptorium di Vincenzo Consolo. Il caso di “Morti sacrata” , è invece incentrato su uno dei capitoli più suggestivi, e impervi stilisticamente, del romanzo, il terzo, intitolato appunto Morti sacrata.  Qui l’autore entra nel laboratorio di Consolo, esaminando la tradizione testuale di questo capitolo anche sulla base dei dattiloscritti e dei manoscritti, oltre che delle varie edizioni a stampa del romanzo. E, in effetti, quest’esame approfondito risulta quanto mai necessario perché si tratta di un capitolo paradigmatico, nel quale il plurilinguismo consoliano ‒ scrive Messina ‒ si rivela “non mero gioco formale, non gratuito sperimentalismo, bensì sperimentale epifania della molteplicità di voci narrative che interloquiscono e s’intrecciano sulla pagina, ingenerando la polifonia”. Qui infatti si intrecciano tre stili (indiretto, indiretto libero, diretto) e almeno tre voci principali (il narratore, frate Nunzio e il popolo). Dall’esame di Messina emergono peraltro gli obiettivi che Consolo si è prefisso nel lavoro correttorio: l’elusione del narrare “rotondo” di stampo ottocentesco; la struttura “spezzata”; l’oltranzismo stilistico e linguistico; la rivalutazione del ritmo e della parola caricata di tutte le possibili risonanze. E, a proposito di questo capitolo, vorrei riportare un’osservazione di Alfredo Giuliani, citata in una nota del suo saggio da Messina, nella sua recensione su “la Repubblica”, che forse vale ancora più per queste straordinarie pagine. Ebbene Giuliani affermò che il libro di Consolo “sembra ‘scritto’ in ogni riga e parola” e “tutto di testa”. 

            L’ultimo dei saggi presenti nel libro, Introduzione a “Lunaria”: Consolo  versus Calderòn, è dovuto a una studiosa spagnola, Irene Romera Pintor, che ha tradotto Lunaria di Consolo nella sua lingua e che  stabilisce un collegamento tra quest’altra  opera dello scrittore siciliano  e un auto sacramental  di Calderòn de la Barca, El Gran Teatro del mundo, sia per il loro emblematico significato, sia per l’analoga espressione formale. Lunaria, com’è noto, è una delle opere più originali di Consolo,  dove   la commistione di diversi generi letterari trova uno degli esiti più alti. Questa “favola teatrale”  narra la vicenda del viceré Casimiro che sogna la caduta della luna, cosa che poi avviene realmente in una contrada siciliana. Alla fine però tutto si rivela una finzione teatrale e Casimiro un attore. Ebbene l’autrice definisce quest’opera un “cuntu”, proprio alla maniera dei racconti dei cantastorie siciliani, in cui spicca “il linguaggio abbagliante per la sua bellezza verbale, la sua ricchezza poetica, le sue invenzioni linguistiche”.

            Dopo questi saggi, nel libro è compreso uno scritto di Consolo che risale al 1996, La metrica della memoria, apparso già in varie sedi ma che qui si pubblica nella versione definitiva secondo le intenzioni dell’autore. Di che si tratta? È una riflessione profonda sulla letteratura, sulla lingua italiana e sul rapporto tra testo letterario e contesto storico-sociale negli ultimi quarant’anni in Italia. E a questo proposito vorrei far rilevare l’importanza, l’alta qualità degli scritti critici e di poetica di Consolo. Vorrei citare soltanto la Nota dell’autore, vent’anni dopo, che Consolo scrisse come postfazione della ristampa del suo Sorriso nel 1997 presso  Mondadori  e gli scritti raccolti nel volume Di qua dal faro.  Qui Consolo compie un rapido excursus  sulla sua opera, partendo dal primo romanzo, La ferita dell’aprile, organizzato come un “poemetto narrativo”, nel quale emerge già la sua polemica sociale, la diffidenza nei confronti del contesto storico e della sua lingua. Tredici anni dopo arriva  il Sorriso, nel quale  Consolo mette in crisi il genere romanzesco, attraverso la sperimentazione linguistica, la plurivocità, gli inserti saggistici, in polemica nei confronti della società che mercifica e distrugge il romanzo. Poi via via le altre opere, Lunaria, Retablo, Nottetempo casa per casa, L’olivo e l’olivastro, fino ad arrivare  all’opera teatrale intitolata Catarsi, pubblicata nel vol. Oratorio  sempre con Manni nel 2002, insieme con un altro testo, L’ape iblea. Elegia per Noto.  Questa tragedia ‒ scrive lo scrittore ‒ rappresenta “l’esito ultimo di quella che posso chiamare la mia ideologia letteraria, l’espressione estrema della mia ricerca stilistica”. Venuto meno il dialogo tra autore e lettore, il romanzo nei nostri tempi, secondo lo scrittore, non ha ragion d’essere e deve essere sostituito da una forma monologante, una forma poetica alta, quale appunto una tragedia, in versi o in prosa, quasi per reazione alla piattezza, all’insignificanza della lingua della comunicazione, ormai definitivamente corrotta. E molto acute sono anche le osservazioni che fa Consolo sull’opposizione tra lingua della comunicazione e lingua dell’espressione, come pure tra la lingua rinascimentale e illuminista e la linea barocca e sperimentale che denotano due atteggiamenti diversi da parte degli scrittori nei confronti della società (fiducia da un lato e distacco e sfiducia dall’altro).

[Presentazione del volume La parola scritta e pronunciata. Nuovi saggi sulla narrativa di Vincenzo Consolo, a cura di G. Adamo, San Cesario di Lecce, Piero Manni, 2006, tenutasi a Lecce il 29 marzo 2007 con la presenza di Vincenzo Consolo. Testo inedito]

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