nel recinto dell’esistenza
nel recinto dell’esperienza
nel recinto dei sensi dei piaceri
dei dolori dell’inesprimibile noia
nel recinto dell’io del mondo del cosmo
nell’infinito recinto
il sole è arrossato
la luna è impallidita
il mare si è sciacquato le ascelle
io sto nutrendo un pianto secco asciutto
continuo…
In questi recinti, che significa in queste reclusioni, in questa sorta di carcere, nel quale anche il cielo sembra essere un grande recinto, ad ogni passo noi rischiamo di essere rinchiusi o di autorinchiuderci, per inerzia, per acquiescenza, per paura, per incapacità di immaginare un diverso futuro possibile. Tra gli interstizi di questi recinti nasce la poesia di Martines, il suo “pianto secco asciutto continuo…”, com’egli dice, con toni talvolta accesamente polemici, che toccano il sarcasmo e l’invettiva, come per esempio nel San Giorgio e il Dragone:
che schifo: amici!
Che schifo: sentimenti!
Che schifo: parenti!
Che schifo di anatemi!
Che schifo di poeti, di artisti, di minuetti, lor signori, signore e signorini!
Del resto anche i potenti, i paperoni, le papesse e le stiliste!
Che schifo!
Ma la molla segreta di questa poesia credo che stia altrove; non tanto nel conflitto di cui si è detto, che è piuttosto un passaggio obbligato per chi viva e faccia poesia nella nostra società, quanto nella tensione, nel desiderio, che anima le parole di Martines, di un mondo diverso, di un mondo, magari molto dubbio o negato, dell’innocenza, della purezza, dell’incontaminato, dell’autentico, della Bellezza (“la Bellezza è finita male come l’Innocenza”, scrive Martines a p. 27). Difatti, la poesia su citata continua così:
ora ho bisogno di un ambiente pulito
d’una casa lucidata, ben disinfettata
bianca come
la cocaina che il piccolo uomo rigettava
sul pavimento…
E così pure, come un desiderio di trovare un mondo diverso, leggo le interrogazioni di un’altra poesia senza titolo (pp. 39-40):
il tumultuoso senso del mondo
si inscrive ancora nelle pagine dei diari dei
beati adolescenti?
bei quaderni di poesia?
beati davvero dannati
idealisti diciassettenni
beato caustico desìo
di vero amor
Laddove per “vero amor” Martines vuole indicare, come dice nella poesia dal titolo Bomboniere, un amore purissimo, quello che nega l’idea del possesso:
io non capisco più l’amore che vuole stare nel possesso.
Lo scontro col mondo disumano riporta a una sorta di regressione, nella quale la condizione adolescenziale è detta “beata”, pur nella sua dannazione, che poi è il destino di tutti gli adolescenti, quello di diventare adulti e, quindi, di dannarsi. Ma qui la regressione rivela quella molla segreta di cui dicevo prima, cioè la cifra distintiva della poesia di Martines, che a mio avviso è nella sua ricerca spasmodica, il cui esito appare molto dubbio, di qualche forma di purezza, precedente ad ogni recinto, come mi sembra di leggere in Dal fiume:
vi pare ch’io abbia un’anima
contadina? operaia? impiegatizia?
la mia anima viene prima di tutti
i parti e le partenze
prima dei verbi e dei proverbi
prima dei pre e dei pro
degli economisti e degli ecologisti
L’anima di cui parla Martines è per me l’anima poetica, quella stessa che conduce il poeta a confrontarsi con una Mucca, simbolo, a mio avviso, di questa ricercata purezza, come nella poesia La Mucca:
darti un bacio una carezza un po’ del mio amore
chi più di noi è spaventato?!
per puro caso ho visto la Mucca: mi sono invaghito…
E più avanti:
… la Mucca non fa altro che fissare
con amore
così io mi perdo nel suo occhio devoto
poi spaventato rintano, rinculo nel mio zero
zero sentire – zero ascoltare – zero essere lì…
Ritorna, accanto alla simbologia della purezza, il termine spavento, che fa rinculare il poeta, lo fa rintanare (in qualche recinto?) come se il “vero amor” fosse davvero spaventoso, pericoloso, tanto da ricacciarci indietro, verso dove non si sa. Ma intanto l’incontro è avvenuto, l’anima poetica ha scoperto la sua strada, l’ha percorsa, almeno un tratto, prima di rinculare. Ora occorre andare avanti, io dico, andare avanti senza timore.
Coerentemente con quanto si è detto, la lingua di Martines è chiamata a conseguire questo fine, la ricerca di una purezza originaria. C’è un passo della prosa Sarajevo salentina nel quale Martines dice: “Se io parlassi la lingua di questo mondo esattamente direi il contrario e strazierei le carni dei bambini, delle donne, del prossimo…”. La lingua di Martines non è di questo mondo. Che cosa vuol dire? Per parafrasare Martines, dirò che la lingua di Martines è una lingua che questo mondo non avrà mai!, perché la lingua poetica non è la lingua esatta, la lingua della comunicazione, ma è la lingua del desiderio di ciò che in questo mondo non c’è. La lingua della poesia non è quella che si legge sui giornali, che usano i politici, che la televisione adopera, la lingua che strazia “le carni dei bambini, delle donne, del prossimo”, che noi stessi utilizziamo nei nostri scambi utilitaristici, nei quali spesso ci facciamo solo del male. La lingua della poesia non è di questo mondo. Essa però ci parla di tutto ciò che noi siamo veramente, autenticamente, scoprendolo sotto la crosta spessa che il mondo, con tutte le sue brutture, vi ha sovrapposto. Per questo la poesia, quando non è negletta, fa paura, se non altro come se fosse l’opera di un pazzo, e dei pazzi, si sa, quando non si ride, bisogna aver paura. La poesia opera tra i recinti e contro di essi. Tu studente, io professore, tu avvocato, io imprenditore, tu ancora medico, io paziente, ecc. No! La poesia dice che noi non siamo nulla di tutto questo, ci riporta alla nostra umanità o, se vogliamo, alla nostra animalità, nel senso più nobile della parola, animale come creatura vivente. Questo io ho letto in Martines, che l’anima poetica può ancora insegnarci la nostra umanità, purificata d’ogni incrostazione, liberata da ogni recinto, dai ruoli, dalle funzioni, dalle competenze, dalle professioni che ammorbano il mondo.
[“Ho scritto ti amo sullo specchio” (recensione a Massimiliano Martines, Ho scritto ti amo sullo specchio, Pendragon, Bologna, 2006), “Il Galatino” di venerdì 26 gennaio 2007, p. 4.]