Probabilmente viviamo un tempo in cui il bisogno di memoria è diventato più forte. Per i motivi di cui si diceva appena qualche riga sopra. Per i riferimenti che vacillano, i significati che si trasformano, le forme che trasmutano, i codici che si destrutturano e poi si strutturano in modo diverso, per i fenomeni sociali e culturali che si manifestano come mai si sono manifestati. Viviamo un tempo che ha più bisogno di memoria: di quella stratificazione di significati che è la memoria, della sua capacità di far transitare sul ponte del presente il passato che va verso il futuro. La memoria trova il suo senso in una relazione dinamica con il presente e con l’orizzonte di futuro. Ma è una relazione che risulta possibile solo se è in grado di rinnovarsi, di rigenerarsi costantemente, se riesce a tessere un sapere che abbia la forza di modificare positivamente il presente e di delineare scenari di sviluppo, di progresso.
Viviamo un tempo che ha un bisogno di memoria più forte. Per esempio: ha bisogno di tutta la memoria del Novecento. Perché quello che siamo, il modo in cui siamo, le ragioni e le passioni con cui ci confrontiamo, le nostre visioni del mondo, il nostro pensiero, provengono tutti da lì: da un secolo che è fatto di vittorie e di sconfitte dell’umano, di conquiste della scienza e di miserie quotidiane, di contraddizioni, di contrasti, di contrari; un secolo forse troppo lungo, forse troppo breve, forse non ancora terminato, i cui riverberi, probabilmente, si spanderanno ancora per anni e anni. “Giano bifronte, esso ci trattiene tra le sue spire col gioco delle sue ambivalenze radicali, dei paradossi che l’hanno attraversato spingendolo ad essere, in senso proprio, il secolo degli opposti, sempre estremi, sempre assoluti” scrive Marco Revelli in “Oltre il Novecento”. E’ stato tempo buono e tempo cattivo, tempo di virtù e di dissennatezza, tempo di bontà e di cattiveria, di tolleranza e intolleranza, di rispetto e di offesa, di solidarietà e di egoismo, di sapienza e d’insipienza, di dittatura e di democrazia, di barbarie e di progresso, di lucidità e di follia.
Questo tempo ha bisogno di tutta la memoria del Novecento e quindi ha bisogno della sua arte, della scienza, della filosofia, del diritto, dell’economia, ha bisogno dei fatti della storia che sono all’origine di tutti gli altri fatti. Ha bisogno della letteratura del Novecento. Qualche volta viene il sospetto che senza la letteratura, di quel secolo non si potrebbe comprendere niente, o si potrebbe comprendere assai poco.
La letteratura ha osservato, indagato, analizzato; si è assunta anche la responsabilità di giudicare, certe volte. Ha osato smentire quella sorta di sentenza pronunciata da Theodor Adorno secondo la quale dopo Auschwitz non sarebbe stata più possibile nessuna poesia. E’ andata oltre Auschwitz.
Ma un uomo ricorda finché può ricordare. Anche un popolo, una comunità, ricordano finche possono ricordare. Dopo quel punto, oltre quella soglia, una civiltà deve trovare i metodi e gli strumenti che servono non solo a conservare la memoria, ma a rigenerarla continuamente. Forse quei metodi e quegli strumenti si possono chiamare con il solo nome di formazione. Forse non esiste un altro modo di chiamarli.
La formazione rigenera la dimensione della memoria contemperandola con i contesti culturali e sociali continuamente cangianti, ci pone davanti allo specchio della memoria in modo da far vedere che in fondo quello che siamo non è altro che l’esito di quello che siamo stati. Qualche volta questo ci fa piacere. Qualche volta ci dispiace. Ma è così.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, domenica 14 novembre 2021]