La poesia italiana del Novecento secondo Giacomo Debenedetti

            Ebbene, da quel corso universitario del 1958-59 deriva il libro Poesia italiana del Novecento, apparso nel 1974 presso l’editore Garzanti, con una introduzione di P.P. Pasolini, terzo della straordinaria serie di volumi apparsi postumi, dopo Il romanzo del Novecento (1971) e Niccolò Tommaseo (1973) e prima di Verga e il Naturalismo (1976), Vocazione di Vittorio Alfieri (1977), Pascoli: la rivoluzione inconsapevole (1979) e Quaderni di Montaigne (1986), volumi che fecero scoprire a un pubblico più ampio di lettori, e riscoprire agli stessi studiosi, le eccezionali qualità critiche di Debenedetti.

            Ma, dopo aver chiarito la genesi del libro, converrà chiedersi per quali motivi il suo autore avesse deciso di occuparsi per la prima volta, proprio in quegli anni, di poesia italiana del Novecento nel suo complesso,  anche per storicizzare in un certo senso questa  ricerca e valutarla, apprezzandola forse ancora di più, alla luce della situazione esistente allora negli studi riguardanti questo specifico argomento. Quasi sempre invece negli interventi sul libro si prescinde totalmente da questo aspetto e si tende, in un certo senso,  ad assolutizzare  la posizione del critico.

            Probabilmente Debenedetti, con quel corso di lezioni, voleva offrire ai suoi studenti una prima, essenziale mappa di orientamento nel variegato panorama della lirica novecentesca, anche col rischio di cadere in qualche schematismo, come ammette lui stesso, in qualche inevitabile approssimazione, come succede spesso quando si procede a una sintesi. E ciò risultava tanto più necessario in un periodo, quello appunto della fine degli anni Cinquanta, in cui non si era giunti ancora a una sistemazione teorica di questa  ribollente materia. Ad eccezione infatti dei saggi, peraltro parziali, dei vari Contini, Solmi, Macrì, Anceschi, tanto per citare i nomi di alcuni tra i maggiori critici del Novecento, che spesso avevano fiancheggiato le esperienze poetiche contemporanee, non esistevano studi organici sull’argomento.

            Da qui, fra l’altro, derivavano anche talune  incertezze nell’uso di certi termini, ancora non ben definiti criticamente, come quello di ermetismo, di cui restano tracce nel libro di Debenedetti. Nell’ambito dell’ermetismo tout court, ad esempio, egli colloca anche due poeti come l’Ungaretti del Sentimento del tempo e il Montale delle Occasioni, i quali semmai oggi sono considerati «i precursori della stagione ermetica vera e propria»[7], e anche il Luzi di Onore del vero , raccolta che rientra sicuramente in un’altra fase del poeta fiorentino.

            Forse gli strumenti più utili, a questo riguardo, ai fini cioè di una conoscenza sistematica della poesia italiana del Novecento, erano ancora le antologie di Luciano Anceschi, Lirici nuovi, del 1943, e Lirica del Novecento, del 1953, quest’ultima compilata insieme a Sergio Antonielli e citata infatti nel libro. Ma non si dimentichi che le analisi di Debenedetti, come diremo meglio in seguito, si spingono ancora più avanti rispetto a questi termini e arrivano fino al 1957, in cui esce il libro di Luzi Onore del vero, vale a dire appena un anno prima dell’inizio del corso. 

            Il tentativo di Debenedetti inoltre è tanto più apprezzabile in quanto quello non era certo un momento particolarmente felice per i poeti italiani che avevano operato nel periodo tra le due guerre, sottoposti spesso a una sorta di processo sommario e accusati di scarso impegno o addirittura di collusioni col regime fascista. In particolare, ad essere messo sotto accusa era stato proprio il cosiddetto ermetismo, contro il quale si era verificata una vivace reazione da parte di larghi strati della cultura italiana, soprattutto di sinistra.

            Ecco, questi elementi ci sembrano importanti per capire la novità e lo sforzo compiuto da Debenedetti, il quale naturalmente si poneva di fronte a questo argomento con la sua storia personale, le sue convinzioni, le sue preferenze di critico e di lettore, i suoi tradizionali strumenti di analisi. Cioè non voleva, e non poteva, essere uno storico distaccato del fenomeno, anche se nei suoi  confronti assume un atteggiamento razionalistico, tipico di chi vuole cercare di capire e di fare capire:

   Insomma:  – scrive a un certo punto – siamo d’accordo che a cercare i “perché” razionali rischiamo di distruggere le ragioni, i motivi della poesia, siamo d’accordo che un confronto tra il “segno” e la “cosa rappresentata” può diventare addirittura impossibile; siamo d’accordo che a forzare quel confronto, a volerlo portare a tutti i costi fino a un risultato appagante e rassicurante, che ci dia la certezza di un significato, rischiamo una delusione. Ma possiamo e, credo, dobbiamo chiedere e riuscire a capire perché quella poesia è fatta così; perché quel mondo è un altro mondo, alieno [8].

            Un altro punto ancora ci sembra  necessario sottolineare prima di passare ad esaminare le principali tesi esposte nel libro. Il titolo, Poesia italiana del Novecento, scelto dall’editore per fare quasi da pendant rispetto all’altro sul romanzo, è un po’ troppo estensivo rispetto all’effettivo contenuto, che è invece rappresentato, per essere più precisi, dalla poesia italiana del periodo che va dalla fine degli anni Venti alla fine degli anni Cinquanta. Le prime poesie, in senso cronologico, che vengono prese in esame, quelle di Saba e di Ungaretti, risalgono infatti alla fine degli anni Venti e fanno parte rispettivamente delle raccolte Preludio e fughe  del 1929 e Sentimento del tempo  del 1933.

             E, a questo proposito, c’è da dire che un capitolo a parte  è costituito proprio dalle suggestive analisi dei componimenti scelti a campione da Debenedetti, veri e propri esempi di «racconto critico»[9], per usare la famosa formula di Sanguineti. In particolare, spiccano proprio le “letture” dei testi più oscuri, come l’Elegia di Pico Farnese di Montale,  Lago Luna Alba Notte di Ungaretti e Nell’imminenza dei quarant’anni di Luzi, oltre che del Canto a tre voci del congeniale Saba, testi che stimolavano ancora di più Debenedetti perché mettevano alla prova la sua fiducia in una interpretazione razionale della poesia, anche di quella ermetica, quasi in una sorta di sfida da parte del critico, il quale, è bene chiarirlo, non partiva da quella stessa poetica, da quegli stessi presupposti, orfici e irrazionali. Insomma, è come se egli fosse segretamente attratto da quel tipo di poesia, a cui pure mostrava apertamente di preferirne un altro.    

             Qual è allora l’immagine della poesia italiana di questi tre decenni che viene fuori dall’indagine di Debenedetti?  Ecco, si può dire già fin d’ora, anticipando in un certo senso le conclusioni, che mentre  oggi, per classificare la poesia di questo periodo, si è soliti ricorrere a certe etichette, come quelle di “poesia pura”, ermetismo, neorealismo, post-ermetismo, Debenedetti si serve invece di due sole illuminanti definizioni, quella di «poesia ontologica» e quella di «poesia relazionale», che poi possono essere utili, queste sì, per la lirica di tutto il secolo. Cioè distingue due linee fondamentali all’interno della poesia italiana del Novecento, due linee che si contrappongono tra di loro al punto che si può parlare di un Novecento poetico ma anche di un «Antinovecento», come è stato detto[10]. E proprio questa distinzione, questa tipologia in fondo è  la proposta più  originale, e per così dire più caratteristica, di  Debenedetti nel libro.

            La prima di queste linee corrisponde appunto alla poesia post-simbolista o “pura” o ermetica, come la chiama il critico, che discende da Mallarmé, da cui ha inizio il suo discorso.

   La poesia per lui – scrive – è l’unico strumento per raggiungere l’Assoluto, il poema, come egli dice, è “l’explication orphique de la Terre”. Però questo strumento è gloriosamente, desolatamente fallimentare. Il fallimento è duplice: della lingua e della parola di fronte all’Assoluto e dell’Assoluto di fronte alla lingua e alla parola[11]

E il naufragio, che è uno dei temi fondamentali di Mallarmé, è l’immagine del «fallimento della poesia, solo organo per raggiungere l’Assoluto, che tuttavia non  lo afferra anche perché l’Assoluto è il Nulla, fallimento al tempo stesso dell’Assoluto che non si è consegnato alla parola»[12].

            Ma se  Mallarmé comunica l’incomunicabilità dell’Assoluto e della poesia, Montale, secondo Debenedetti, comunica un’altra incomunicabilità: quella dell’uomo-soggetto empirico, «dal destino personale, intraducibile»[13]. Nella poesia di Montale, dopo gli Ossi di seppia, scompare ogni riferimento alla storia privata, individuale del poeta, per cui non riusciamo più a cogliere i nessi tra quella storia e le figure, le situazioni in cui essa si esprime. Da qui l’oscurità, la non obligatorietà del senso complessivo delle sue poesie, a contrasto con «l’evidenza sensibile, percettibile delle singole notazioni»[14], un’altra caratteristica che si può rinvenire in generale  nella poesia ermetica.

            E qui siamo già a un momento cruciale del discorso di Debenedetti, perché a questo punto egli introduce una delle nozioni-chiave della sua riflessione, ripresa dallo studio del romanzo: la nozione di personaggio, che gli servirà per stabilire appunto una tipologia della poesia novecentesca (ed è noto quante volte egli sia ritornato sul tema del “personaggio-uomo”, che ha anzi un’assoluta centralità nella sua opera). A giusta ragione perciò Berardinelli  sostiene che la critica di Debenedetti «non solo è orientata in prevalenza sul romanzo […], ma deriva dal romanzo i criteri di lettura dei testi più diversi, anche poetici e  filosofici»[15].

            Proprio attraverso questo concetto, infatti, il critico individua uno dei caratteri, a suo giudizio, più tipici dell’ermetismo, inteso nell’accezione che abbiamo chiarito prima, cioè la scomparsa dell’io, del personaggio, dell’eroe, quello che nel romanzo, «con ciò che gli accade, ci fa afferrare un senso del destino […] si prende la responsabilità di garantirci quel senso» [16], quella entità particolare  che riesce a comunicare ai lettori tutta la particolare esperienza dell’autore, la sua visione del mondo, il suo universo.

            Di questa sparizione, che risale a Rimbaud, («Io è un altro», aveva scritto nella famosa lettera a Paul Demeny del 1871, citata nel libro), il critico dà un’ acuta spiegazione sia di tipo sociologico sia di tipo psicologico, con la sua consueta capacità di utilizzare strumenti critici di diversa provenienza. Essa infatti è messa in rapporto con la crisi della società borghese, in atto negli ultimi decenni del secolo diciannovesimo, cioè nel periodo che poi è stato chiamato decadentismo. E’ allora infatti che il poeta, il quale aveva ricevuto una sorta di delega dalla borghesia di esplorare ed esprimere raffinati stati d’animo nei quali la sua intera classe d’origine poteva riconoscersi,  si accorge di questa crisi e, pur continuando nella perlustrazione dell’Io, come aveva fatto nel periodo romantico,

   cessa di idoleggiare il proprio Io, di sottolineare i sentimenti che egli nutre nei confronti del suo Io: recide, per così dire, tutti i rapporti visibili, sensibili, riconoscibili, tra il suo Io e la sua persona storica, concreta, con tanto di nome e cognome. Dice Io, ma un Io che non somiglia più a lui. Chi è questo Io? Non è più il personaggio del poeta. E’ un certo luogo sensibile, un certo medium, una certa attività capace di testimoniare, di registrare un evento. E’ il pronome della prima persona adoperato come soggetto di una proposizione impersonale, di un verbo “accade” [17].

            Ma la crisi della società borghese ha come diretta conseguenza ( e questa è la spiegazione di tipo psicologico-psicanalitico) anche una crisi dell’autorità, incarnata emblematicamente nella figura del padre, cioè  di colui che possiede i criteri per capire e giudicare la vita. Venute meno allora alcune certezze, il poeta ermetico diventa un orfano,

il quale – scrive Debenedetti – cerca i nuovi runi, i nuovi geroglifici che possiedano e garantiscano la sapienza, il senso del destino. Ma in questa ansiosa esplorazione,  tentata attraverso nuovi congiungimenti delle parole, attraverso la ricerca di nuovi poteri significanti ed espressivi della parola, l’orfano è dubbioso, ha ancora il sentimento dell’orfano, la nostalgia di quelle che erano le garanzie paterne che egli non può più dare, e perciò si nasconde, non dice più “io” come il padre, lascia a quei nuovi segni, a quei tentativi di runi – che egli esplora – il compito di sperimentare la loro efficacia[18],

scivolando in tal modo verso lo spiritualismo.

            C’è da notare, a questo proposito, che anche la narrativa del Novecento, nel famoso saggio Personaggi e destino, compreso nella terza serie dei Saggi critici, viene definita dal critico una narrativa di orfani, perché perde i modelli, le guide tradizionali, con la conseguenza che il mondo diventa incomprensibile, un enigma assurdo. La differenza però tra narrativa e poesia sta nel fatto che  il romanzo del Novecento rappresenta questa condizione proprio con il “personaggio-uomo”, che è invece del tutto assente nella poesia ermetica.

            D’ora in avanti sarà questo il leit-motiv, per così dire, del discorso di Debenedetti, la discriminante che gli permetterà di distinguere, come s’è detto,  due linee all’interno della poesia novecentesca. La scomparsa dell’Io empirico, personale, biografico è infatti tipica anche della poesia di Ungaretti, dal Sentimento del tempo in avanti, dove, anche quando compare la figura umana, come nella poesia presa in esame dal critico, Lago Luna Alba Notte, essa è, più che altro, un emblema della estraneità, della solitudine, della incomunicabilità, al contrario di ciò che accade nella poesia di Saba, dove invece  il personaggio fa da mediatore tra il poeta e il lettore e «chiarisce il suo senso» [19].

            Nella poesia di Luzi la sparizione dell’Io assume poi una valenza mistica e religiosa, perché essa diventa «la parabola di un’esperienza trascendente»[20]. La poesia quindi «dichiara non so se l’incapacità o la ripugnanza […] di nominare e di narrare i fatti della biografia empirica»[21], perché l’esperienza mistica consiste appunto nel liberarsi dai propri connotati individuali e dal tempo cronologicamente inteso per porsi fuori dal tempo, per raggiungere l’eterno. Ecco perché anche quando il poeta dice “io”, questo io è incapace di raccontarsi, di dare un senso,  una ragione ai fatti, ai sentimenti. «Niente garantisce – scrive Debenedetti usando ancora una parola-chiave della sua riflessione – che [quei fatti, quei sentimenti] fossero necessari a un determinato, riconoscibile destino d’uomo» [22].

            A questo punto, il critico introduce il discorso su Saba, che considera  il capofila dell’altra linea della poesia novecentesca, una linea che si contrappone alla poesia ermetica. E di Saba rivendica la “modernità”, nonostante la sua collocazione «quasi completamente agli antipodi degli altri moderni»[23].

            Il poeta triestino usa la lirica, i mezzi della lirica come strumenti, ma il suo fine, a giudizio di Debenedetti, è diverso. Egli «è principalmente un drammaturgo, nel quale tutto diventa scena, tutto diventa personaggio»[24]. E non si tratta solo del personaggio del poeta, ma anche dei personaggi esterni, «che il poeta coglie nella vita e nei quali vede una situazione atta a confessarlo per affinità o per contrasto»[25], e ancora degli stessi sentimenti del poeta, che «si raffigurano come esseri tangibili, come gesti, come movimenti, come voci: insomma prendono attributi da personaggi, da dramatis personae »[26]. Non a caso Saba è stato accostato al melodramma verdiano, dove la musica è uno strumento usato «per fissare certe situazioni drammatiche, non come fine a se stesso»[27], anche se quella musica vale poi anche per se stessa, proprio come musica.

            In Saba insomma, al contrario di quello che accade nell’opera di Montale, Ungaretti e Luzi, tutto diventa personaggio, come nel Canto a tre voci, un componimento tratto dalla raccolta Preludio e fughe del 1929, di cui Debenedetti fornisce una memorabile lettura, la quale è utile per capire un po’ tutta la poesia di Saba. Qui sono rappresentate, messe sulla scena quindi e rese personaggi, tre tendenze contrastanti dell’ anima del poeta, come l’estroversione, l’introversione e il narcisismo. Nella terza voce si può vedere in filigrana addirittura, secondo Debenedetti, l’immagine del poeta ermetico come personaggio estraneo, che però qui riesce a comunicare questa sua estraneità in termini umani, e contribuisce quindi in tal modo a distruggere uno dei tratti più tipici dell’ermetismo.

            Da qui deriva il carattere relazionale della poesia di Saba, che «stabilisce un rapporto con le cose e comunica tale rapporto agli altri uomini»[28]. In questa linea di poesia relazionale, alternativa a quella ermetica, pur essendo contemporanea ad essa, la quale cerca quindi una comunicazione attraverso una maggiore apertura di linguaggio, Debenedetti colloca anche Sandro Penna, Giacomo Noventa e Vittorio Sereni.

            Anche per questi tre poeti, come già aveva fatto con Saba, il critico mette in rilievo le differenze con l’ermetismo, che consistono essenzialmente nel fatto che la loro poesia è fondata  ancora su rapporti precisi tra l’uomo e il mondo, tra l’uomo e i suoi simili, che invece la poesia ermetica, “irrelativa”, aveva aboliti o non riusciva più a esprimere.  Allora l’assenza dalla storia di Penna non è un’assenza imposta come quella degli ermetici. Non è cioè «una sostanziale estraneità della vita e del mondo a imporgli quella assenza come una fatale, ontologica metafisica estraneità»[29]. Quell’assenza  è più che altro una «vacanza»[30], una  scelta, una maniera di adattarsi alla vita, in modo da goderne le gioie e di provarne la sofferenza, (quella “strana gioia di vivere”, appunto, come la chiamerà Penna stesso in una sua lirica). 

            La posizione antiermetica di Noventa si rivela poi anche nella scelta polemica del dialetto veneto che  è contrapposto alla lingua ufficiale, espressione della cultura di quel momento che era «inganno ed errore»[31].

            La poesia del primo Sereni di Frontiera  (1941) infine, nonostante il linguaggio che è quello della “poesia pura”, è già fuori dell’ermetismo per quella «contaminazione della narratività e della purezza» [32] e per la presenza della storia personale del poeta. In tal modo si rompe «l’angoscia metafisica dell’inspiegabilità vicendevole tra l’uomo e il mondo»[33] e vengono meno  «la molteplicità e la non garanzia dei significati tipica dell’ermetismo»[34]. Nel Diario di Algeria  poi, la raccolta del 1947, che rappresenta per Debenedetti il punto più alto della  poesia nuova del secondo dopoguerra, fa irruzione «la storia» che si intreccia all’ «esile mito»[35] del poeta.

            A proposito della scelta di questi tre ultimi poeti trattati, anche al di là delle più o meno condivisibili interpretazioni, bisogna osservare, per concludere, che qui Debenedetti sembra precorrere i tempi, in quanto attribuisce un notevole rilievo a  Penna e Sereni  che oggi sono considerati tra i poeti più significativi del secolo appena trascorso, e presta attenzione, attraverso Noventa, alla poesia in dialetto, che solo in questi ultimi decenni ha ricevuto una sua definitiva consacrazione e valorizzazione. E anche questo, in fondo, è un altro merito da assegnare a Debenedetti, studioso della poesia italiana del  Novecento.

[In A.L. Giannone, Tra Sud ed Europa. Studi sul Novecento letterario italiano, Lecce, Milella, 2013]


[1] G. DEBENEDETTI, La poesia di Saba, “Primo Tempo”, n. 9-10, s. d. [ma 1923], pp. 272-300.

[2] G. DEBENEDETTI, Per Saba, ancora, “Solaria”, a. III, n. 5, maggio 1928, pp. 37-59.

[3] E. MONTALE, Presentazione  a G. DEBENEDETTI, Il romanzo del Novecento , a c. di R. DEBENEDETTI, Milano, Garzanti, 1971,  p. XVII.

[4] A. BERARDINELLI, Giacomo Debenedetti il libertino devoto, Saggio introduttivo a G, DEBENEDETTI, Saggi, Milano, Mondadori (“I Meridiani”), 1999, p. XIV.

[5] G. DEBENEDETTI, Commento a un poema di Ungaretti, “Orizzonte italico”, a. III, n. 1-2, gennaio-febbraio 1924, pp. 20-25.

[6] Cfr. Bibliografia . Opere e scritti di Giacomo Debenedetti, a c. di A. BORGHESI, in G. DEBENEDETTI, Saggi  cit. , pp. 1625-1652.

[7] D. VALLI, Storia degli ermetici, Brescia, La Scuola, 1978, p. 44.

[8] G. DEBENEDETTI, Poesia italiana del Novecento , a c. di R. DEBENEDETTI, Milano, Garzanti, 1974,  p. 54.

[9] Cfr. E.SANGUINETI, Cauto omaggio a Debenedetti, in Tra Liberty e Crepuscolarismo, Milano, Mursia, 1977 (II ed.), pp. 183-193.

[10] Cfr. M. FORTI, Debenedetti, Saba e la poesia del Novecento, in Il Novecento di Debenedetti. Atti del Convegno. Roma 1-2-3 dicembre 1988, a c. di R. TORDI, Milano, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 1991, pp. 41-58.

[11] G. DEBENEDETTI, Poesia italiana del Novecento  cit.,  p. 19.

[12] Ivi, p. 26.

[13] Ivi, p. 38.

[14] Ivi, p. 54.

[15] A. BERARDINELLI, Debenedetti e il personaggio in poesia, in La poesia verso la prosa. Controversie sulla lirica moderna, Milano, Bollati Boringhieri, 1994, p. 216.

[16] G. DEBENEDETTI, Poesia italiana del Novecento  cit., p. 61.

[17] Ivi, p. 65.

[18] Ibid.

[19] Ivi, p. 76.

[20]Ivi, p. 121.

[21] Ibid.

[22] Ivi, p. 116.

[23] Ivi, p. 129.

[24] Ivi, p. 130.

[25] Ibid.

[26] Ibid.

[27]Ivi, p. 131.

[28] Ivi, p. 159.

[29] Ivi, p. 179.

[30] Ibid.

[31] Ivi, p. 189.

[32] Ivi, p. 226.

[33] Ivi, p. 227.

[34] Ibid.

[35] Ivi, p. 228.

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