Rina Durante è stata un’intellettuale poliedrica: ha esordito giovanissima con una raccolta di poesie di impianto neo-ermetico dal titolo Il tempo non trascorre invano (Bergamo, Misura, 1951), si è formata nella palestra del «Critone», autorevole rivista letteraria diretta dal poeta leccese Vittorio Pagano, la cui amicizia fu determinante per la sua definitiva maturazione artistica, e, dopo la pubblicazione della Malapianta, ha collaborato con varie testate locali e nazionali, dimostrandosi attenta osservatrice, oltre che della vita culturale e letteraria, anche della tradizione popolare salentina: decisivo il suo contributo per la valorizzazione della minoranza linguistica grika e per lo studio e la raccolta, sulla scorta di Ernesto De Martino, dei materiali etno-folclorici legati al fenomeno del tarantismo (fu lei a ispirare e promuovere il pionieristico lavoro discografico del Canzoniere Grecanico Salentino, I canti di Terra d’Otranto e della Grecìa salentina, Fonit Cetra, 1977). L’interesse per la cultura eno-gastronomica locale l’ha poi portata a scrivere libri come Cerere e Bacco a piene mani. Una civiltà da salvare, Fasano, Schena, 2001 e il postumo L’oro del Salento. Per una storia sociale dell’olio di oliva in Terra d’Otranto, Nardò, Besa, 2005. Nonostante questa sua versatilità, che la portò a interessarsi anche di cinema, teatro e radiofonia, la Durante diceva di sé:
Io non sono una ricercatrice. Io sono moderatamente antropologa, al servizio di qualcosa che non ha niente a che vedere con l’antropologia. Tutte queste ricerche mi servivano per arricchire il mio repertorio di storie, di immagini, di fatti, di personaggi di cui mi sarei servita come narratrice; io sono una scrittrice, una raccontatrice.[2]
In questo intervento mi soffermerò, in particolare, sui racconti di Rina Durante apparsi su giornali e riviste fra il 1963 e il 2002, censiti e ordinati da Maria Teresa Pano (Università del Salento) e da chi scrive.[3] La maggior parte di questo materiale si colloca, però, in un periodo ben più limitato, e cioè fra il 1963, all’altezza della stesura e della pubblicazione della Malapianta e il 1970. Da allora in avanti si assiste, infatti, a un progressivo allontanamento della scrittrice dalla narrativa, cui ritornerà – se si eccettua la parentesi di Tutto il teatro a Malandrino (Roma, Bulzoni, 1977), che peraltro recupera, rimaneggiandoli, gran parte dei racconti pubblicati nella seconda metà degli anni Sessanta – solo molto più tardi, con la raccolta Gli amorosi sensi (Lecce, Manni, 1996).
Le ragioni di questa interruzione, più che nella scelta di perlustrare nuovi mezzi espressivi o di dedicarsi con maggiore costanza all’attività giornalistica, coltivando interessi eterogenei che spaziano dalla cultura locale all’enogastronomia, dalla sanità all’istruzione, dai reportage alle note di costume ecc., vanno individuate in una almeno temporanea sfiducia nella letteratura che ha delle motivazioni di ordine essenzialmente politico e sociale. Ciò che alla Durante appare ormai inattuale è il ruolo stesso dello scrittore in una società che, archiviata la stagione rivoluzionaria del Sessantotto, ritornava a un modello economico capitalista. Le ragioni di un’intera generazione di intellettuali, maturati negli anni delle grandi aspettative democratiche sorte all’indomani della Liberazione e che si proponevano di cambiare il mondo attraverso la letteratura, si stavano rivelando inefficaci di fronte all’aridità e al cinismo della società dello spettacolo, che semmai derubrica le grandi tematiche affrontate da quegli scrittori (riscoperta delle tradizioni popolari, recupero in chiave gramsciana della cultura subalterna, ecc.) ad attrazione turistica, ad effimero entertainment organizzato per lo svago dei nuovi consumatori di cultura, e cioè per le curiosità intellettuali, ritenute spesso grossolane e occasionali, della classe media in espansione.
Nasce da qui la consapevole inadempienza della scrittrice nei confronti della letteratura: parallelamente all’abbandono della narrativa escono con sempre maggiore frequenza articoli che si soffermano nostalgicamente sui tempi d’oro delle lettere salentine (l’Accademia di Lucugnano e «L’Albero» di Girolamo Comi, «L’esperienza poetica» di Vittorio Bodini, «Il Critone» di Vittorio Pagano) che la scrittrice ripercorre avvolgendoli in un’aurea mitica; né mancano aspre tirate contro gli operatori culturali e i rappresentanti delle istituzioni locali ritenuti corresponsabili della svendita di una tradizione folclorica che se un tempo veniva studiata con precisi intenti politici, ormai era diventata semplicemente, come recita il testo di una canzone composta dalla Durante, La quistione meridionale, «un buon affare». Se le pionieristiche ricerche sul folclore salentino condotte dalla scrittrice erano alimentate dalla volontà di affrancare la cultura delle classi subalterne dagli schemi imposti dalla cultura egemone, all’interno di un progetto che ambiva all’emancipazione anche politica delle grandi masse popolari, ora, invece, la restaurazione capitalistica aveva ‘normalizzato’, colonizzandola in maniera anche piratesca, quella ricca e affascinante tradizione, facendone una specie di riserva etnologica per turisti attratti dalla ‘pizzica’.
La narrativa della Durante è caratterizzata da una spiccata vocazione antropologica che si risolve nella rielaborazione letteraria del materiale attinto dal ricco serbatoio della cultura popolare. I protagonisti di questi racconti sono personaggi abitualmente tenuti ai margini della storia letteraria italiana; sono contadini del sud che si presentano ai lettori col loro bagaglio di speranze e di umiliazioni, con una vitalità ‘animalesca’, istintiva e quasi inconsapevole, e soprattutto con una connaturata e immedicabile solitudine, che non è attenuata nemmeno dal senso di appartenenza a una comunità che li cementa, preservandoli dalle contaminazioni con ciò che proviene dall’esterno (il progresso scientifico e tecnologico, le mode, l’avvento dei mass-media; ma anche gli spettri del fascismo, gli orrori della guerra…). La profilassi completa, tuttavia, oltre che impossibile, non è quasi mai efficace: la gente di Schifano, il paesino immaginario che fa da teatro alle avventure di questi personaggi e a quelle autobiografiche dell’autrice adolescente, non è immune dalle lusinghe che l’incipiente sviluppo economico e industriale esercita su un numero sempre maggiore di persone. Perciò la riscoperta della propria identità culturale e territoriale contrasta con le forze centrifughe rappresentate dalla società capitalista, creando una frizione arcaicità/progresso che è il vero nucleo tematico della narrativa durantiana.
La scrittrice, insomma, ci descrive la condizione di spaesamento di un’intera comunità di fronte allo spartiacque fra due epoche e fra due civiltà, quella contadina e quella industriale, fra gli anni della ricostruzione e delle tensioni della guerra fredda, e quelli dello sviluppo industriale e dell’affermazione della nuova società globalizzata. La gente di Schifano, già duramente fiaccata dalla fame e dal lavoro nei campi, si misura, allora, anche con queste forze disgregatrici che minacciano la coesione e la sopravvivenza della comunità cui appartiene. Emigrati nel Settentrione o all’estero, assoldati per difendere un concetto nebuloso di patria in Africa o dovunque li comandasse la millantatrice propaganda del regime, o piuttosto assunti per rigovernare le ville della buona borghesia del capoluogo o le dimore di un’aristocrazia in lenta e irreversibile decadenza, questi personaggi conservano, sia pure nel fondo della loro monadica solitudine, un irresistibile istinto di salvaguardia della propria identità, un richiamo ctonio che si manifesta, a volte, come nostalgia indefinita di un eden perduto per sempre e forse mai esistito. Si vedano, per esempio, le leggende su Roca, l’antica località costiera salentina descritta come una terra ricca e felice prima dell’assedio turco, esperienza che sancisce, nella memoria collettiva dei suoi abitanti, il passaggio traumatico dal tempo del mito al tempo della storia.
Ed è, appunto, sulla ‘resistenza’ del Blut und Boden (cioè i legami del sangue e del suolo)che indugia la scrittrice, il cui orizzonte rigidamente classista – «Da una parte c’erano i padroni (due o tre), dall’altra i poveri. I primi comandavano, i secondi obbedivano»[4] – generato da una profonda insofferenza per le discriminazioni sociali, soggiace alla rappresentazione della propria comunità, abitualmente ritratta con affetto e partecipazione anche nei momenti in cui la contaminazione con la modernità o con tutto ciò che è estraneo al suo ambiente o alla sua cultura, sembra imbastardirla in maniera irreversibile.
La Durante racconta le quotidiane miserie di un sud tragico e remoto, condividendo ora il dolore di una sub-umanità esclusa dalla storia, ora la voglia di eluderlo affidandosi a una ritualità primitiva e irrazionale, oppure ricercando una temporanea evasione attraverso il gioco, il camuffamento o altre improbabili ed estemporanee imprese organizzate da quei personaggi per sbarcare in qualche modo il lunario. Se l’ambientazione storica e l’attenzione per le condizioni di vita delle classi subalterne sembrano iscrivere pienamente questi racconti nell’alveo della poetica neorealista, l’approfondimento di certi aspetti della vita interiore dei personaggi li orienta decisamente su traiettorie esistenzialiste. Come ha già chiarito Giannone nella sua “rilettura” della Malapianta,[5] nella narrativa della Durante il neorealismo rimane come sfondo, ma già si iniziano a intravedere nuove istanze sperimentali che indirizzano la scrittura ben oltre il populismo democratico e la letteratura di protesta o di denuncia, quindi nella direzione di un inevitabile affrancamento dalle tematiche proprie della meridionalistica.
Rina Durante, soprattutto nei racconti di più ampio respiro, cioè Tramontana, Serenata, e Una storia per Anna, riadatta il disagio esistenziale caratteristico delle classi medie (incomunicabilità, alienazione, solitudine) a un ceto, cioè il proletariato contadino del meridione, tradizionalmente escluso da questo tipo di analisi introspettive. In Tramontana, per esempio, è il dolore esistenziale del protagonista, più che la sua oggettiva indigenza, a determinarne da una parte la ‘cattiveria’ che lo spinge a comportamenti provocatori e violenti, e dall’altra la scelta di chiudersi al mondo, accettando di buon grado, quasi con sollievo, la decisione dei genitori di mandarlo in convento per rieducarlo. «Io non avevo niente e nessuno. Ero un poveraccio abbandonato da tutti e basta», dice di sé il Tramontana, e questa infelicità – acuita dalle difficoltà economiche che minacciano la coesione della sua famiglia, già segnata da continue liti e incomprensioni, fino alla drastica scelta dei suoi di emigrare in Svizzera in cerca di lavoro senza nemmeno avvertirlo – lo tormenta perfino nei sogni:
Una notte sognai d’essere in un posto di torri e castelli con grandi scalinate che arrivavano al cielo e scendevano a precipizio in fondo al mare: era la Svizzera. Io salivo quelle scale e incontravo mio padre e mia madre vestiti da operai. Allora dicevo: “Ciao, come state?” ed essi , senza guardarmi, si dicevano parole incomprensibili: era svizzero. Il sogno finiva che loro proseguivano il cammino in direzione opposta alla mia ed io continuavo a salire finché arrivato in cima, ridiscendevo la scala dall’altra parte e me ne andavo diritto in fondo al mare, ma così, quasi dolcemente, e senza gridare. [6]
Ma il Tramontana, sia pur nella sofferenza e nella solitudine, cova «un desiderio paziente di felicità» che coincide col miraggio di un ritorno alla terra, a una serena e lieta vita da contadino. All’incertezza della fede religiosa, da cui nascono alcune delle pagine più inquiete del racconto, si oppone la certezza di una felicità laica raggiungibile solo attraverso il ritorno alle proprie radici. Nel momento di maggiore crisi interiore, quando il Tramontana si rinchiude in una cella del convento per mettere alla prova la propria vocazione, attraverso una grata scorge una coppia di contadini che ritornano a casa dopo una giornata di lavoro nei campi, una scena che gli infonde serenità e allo stesso tempo una malinconica nostalgia di un avvenire che gli sembra irrimediabilmente precluso:
Ed ecco all’improvviso davanti ai miei occhi un campo di grano mezzo falciato, due contadini, un uomo e una donna, un cielo d’un azzurro pallido con qualche piumetta bianca e grigia, sulla destra un fornello colla cupola di terra rossa, un oliveto e, in fondo a tutto questo, una striscia di smeriglio azzurro: era il mare. […] Restava solo la campagna, immobile sotto la volta del cielo, piana, dolce, provocante. [7]
Il mito di una felicità raggiungibile attraverso il ritorno alle radici contadine ritorna anche in Una storia per Anna, racconto pubblicato nel 1983 ma che presenta evidenti analogie tematiche e stilistiche con i racconti lunghi pubblicati più di un ventennio prima, tanto che si potrebbe supporre che la Durante l’avesse pronto già da molto tempo. Anna è una sorta di alter-ego femminile del Tramontana, come lui è figlia di poveri contadini e si allontana da casa per fuggire dalla fame e dalla miseria; per entrambi lo spauracchio dell’emigrazione incombe sulle loro famiglie. Ma entrambi aspirano di poter tornare, un giorno, a una tranquilla vita di lavoro nei campi:
Sognavo che avrei fatto la contadina, come mio padre, mia madre e i nonni prima di loro. Avrei avuto un mio pezzo di terra […]. La mia casa sarebbe stata ai margini del campo, con una piccola pergola per fare ombra l’estate, e la cisterna per dare acqua alle piante. Così, assai semplicemente, mi configuravo il mio futuro in cui non entravano carestie, né grandini, né siccità.[8]
Questo progetto, nel caso di Anna, è connotato da una maggiore, seppur velleitaria, consapevolezza ideologica, che la protagonista mutua dalle teorie dell’anziano conte presso cui lavora dapprima come cameriera ma che di lì a poco finirà per sposare: «è di un nuovo umanesimo che abbiamo bisogno, Anna. Un umanesimo che parta dalla terra e arrivi in cielo […]. Sì, sui campi fratelli, perché è sui campi che si realizza il nostro umanesimo», proclami che il nobile decaduto rivolge tanto a lei quanto ai popolani, i quali, convocati per ascoltare il suo programma politico in vista delle imminenti elezioni, accolgono quelle parole con irriverente scetticismo: «Chiusi la porta su un coro di fischi e di risate» – ricorda un’affranta Anna – «Ma nessuno dei piccoli uomini neri l’aveva voluto ascoltare». I contadini, quei «piccoli uomini neri» che lo scherniscono, sono talmente provati dai continui soprusi e dalle promesse mai mantenute di una classe dirigente che si è rivelata da sempre incapace di ascoltare le loro richieste, da non accorgersi del sentimento di autentica commozione che animava le parole del vecchio conte, il quale non può fare a meno di prendere atto, con profonda amarezza, delle grandi trasformazioni sociali che rischiavano di annientare la «stirpe contadina»: «Sospirò profondamente e disse: “Dove finiscono i piccoli uomini neri di Castro, di Otranto, di Gagliano?…” “ In Germania, o in Francia, o in Svizzera” “Oh no! Nè in Germania, né in Francia, né in Svizzera. Nel nulla finiscono i piccoli uomini neri! Nel nulla finisce la stirpe contadina”».
Un cupo orizzonte nichilista ritorna anche in Serenata, racconto in cui la Durante imposta un delicato parallelismo fra destino del popolo e destino dell’intellettuale, insistendo sul senso di ineluttabile fine che incombe tanto sulla civiltà contadina quanto sulla possibilità di rappresentare quel mondo attraverso l’arte e la letteratura. C’è, infatti, un rapporto di complice solidarietà fra il poeta Cappuggi, morto in povertà e solitudine, e la povera e umile gente che gli organizza un fuci-fuci, cioè delle esequie in bilico fra sacro e profano che una caritatevole usanza popolare riservava a chi era talmente indigente da non potersi permettere nemmeno un funerale. La voce di quel poeta dimenticato che perseguiva, attraverso i suoi versi, una felicità che travalica i limiti della contingenza, oltre, cioè, le asprezze e gli stenti del vivere quotidiano, è simile al suono del violino strimpellato da Michelino, l’improvvisato musicista («come calzolaio non calzolaio avrei voluto essere ma violinista») che si accoda al corteo; ma quei suoni così simili sembrano modulare, per la Durante, l’estremo commiato da un’idea di società e da un’idea di letteratura; rappresentano il canto del cigno di un paese (e di una generazione di intellettuali) diventato improvvisamente «vecchio», «vuoto» e «silenzioso»:
Mi dice canta, canta, che l’aria era già piena di rosmarini, e le scaglie della cupola scintillavano al sole, e venivano folate di pane fresco dal forno della Tomasina […].
– E la sera? Ti ricordi la sera a Cocumola?
Mi sento cadere il sangue.
– Dalle parti del canalone, con tutti quei papaveri?
– Sì che mi ricordo – balbetto scadaverito.
– Le pagliare, i portogalli, le nunne che al buio aspettano il laurieddhu? –
– Non c’è più nessun laurieddhu a Cocumola
– Hai cercato bene? hai girato le campagne? Le masserie? I fondi della specchia?
– Ho girato: non c’è più.
– …Il fondo del barone Rampino? – geme il monsignore con un ultimo filo di speranza.
– Anche lì ho girato: non c’è più.
– è la Squizzera, – sentenzia la vecchia – tutto si sta perdendo.[9]
L’emigrazione («la Squizzera»), la guerra, la fame, insomma tutti gli oltraggi subiti dai contadini del sud, non cancellano, tuttavia, la consapevolezza di una ricchezza interiore direttamente proporzionale allo squallore che li circonda. Il corteo funebre, avanzando per «certi cunicoli pieni di tubi», «liquami di conserve», un’«insenatura di tufi», e uno «scolo di acque grigie che grondano», ma vegliato, dall’alto, da una bodiniana «luna borbonica» – «dietro la palma del cimitero, la luna assente, stralunata, borbonica, affonda la lama d’ardesia nella pasta molle dei tufi»– riacquista gradualmente l’orgoglio di un’identità da riscoprire:
– Il fatto è che non siamo vivi.
E io:
– Non siamo vivi, noi?
– No.
– E allora che siamo?
– Niente. Non siamo.
– Come, non siamo? Siamo, altroché.
Don Venieri mi guarda con tenerezza. Incoraggiato, soggiungo:
– Siamo anche più di loro.
– Di chi?
Lo sguardo sbandato.
– Ma si capisce! – dico trionfante – Loro, gli squizzeri.[10]
Se nei racconti lunghi le riflessioni di alcuni personaggi sul male di vivere appaiono, a volte, così raffinate da sembrare un po’ artefatte e quindi poco convincenti, è invece nella misura dei racconti brevi che la scrittrice riesce a trovare un equilibrio più stabile fra matrice neorealista, vocazione antropologica e descrizione in chiave comica della vita quotidiana della propria comunità. È qui che appaiono più evidenti i legami con la tradizione folclorica, ed è qui che il linguaggio accoglie, attraverso sapidi travestimenti verbali, calchi dialettali e altre forme mimetiche di simulazione del parlato popolare, tutta la vitalità e la schiettezza della cultura orale, strategia che consente alla scrittrice di smascherare le seriose ipocrisie della cultura borghese, espressione di un potere socio-economico, oltre che politico, percepito tanto lontano quanto oppressivo, cui la gente di Schifano non può che rapportarsi se non facendone una caricatura, opponendo alla rigidità protocollare della letteratura ufficiale, la genuina vivacità del teatro a cielo aperto di una piazza paesana.
Il capocomico di questa improvvisata ‘compagnia’ – ed è questo un aspetto che garantisce freschezza ed efficacia alla narrazione – è la stessa autrice in prima persona che, per estrazione e censo, e quindi senza bisogno di particolari travestimenti o di posture affettate, è parte integrante di quella gente, ne condivide interessi e aspettative, briga, piange e ride con loro. Gli altri ‘attori’ non sono mai degli integrati ma tipi eccentrici – suonatori girovaghi, ‘pupazzieri’, ubriachi, diseredati – insomma una genia di vinti e di esclusi, abilmente ritratti dalla Durante, che calcano un grottesco e chiassoso ‘palcoscenico’ provinciale. Le piccole rivalse, gli improbabili progetti, le lotte e le cadute di quei personaggi sono filtrati dalla curiosità di un’adolescente scapestrata, il cui sguardo stupito e amorevole riesce a conferire una patina fiabesca alla rappresentazione di un’umanità sofferente ma vivacissima da cui la scrittrice si sente attratta: «Mettetemi con li puareddhi [i poveri] ché quelli [il tressette] lo sanno giocare», fa dire in punto di morte allo zio Pino, il pescivendolo protagonista de I parenti[11]che, a differenza degli altri suoi famigliari, non ha vergogna delle proprie origini e non si dà quelle arie supponenti di chi passa la vita a salvaguardare un’apparenza di rispettabilità e decoro.
La famiglia della protagonista era di «origini contadine, di quelle, per la precisione, che ad un certo punto, con infiniti sforzi si staccarono dalla matrice contadina per elevarsi all’altezza della piccola borghesia impiegatizia»[12], ed è proprio il loro precario status sociale in bilico fra due mondi così diversi a innescare una corrosiva ironia che prende di mira il goffo esibizionismo dei parvenu della nuova borghesia e una comicità che si nutre dei maldestri tentativi dei popolani di adeguarsi a una società in trasformazione: si veda, per esempio, come anche a livello lessicale l’incontro-scontro con la modernità (in questo caso col cinematografo appena arrivato in paese) riesca a creare gustosi equivoci: «Fu quello il periodo aureo, anche se di continuo funestato dalle apparizioni dell’uomo della Siae che chiedeva conto del borderò. Questa parola ormai era entrata nel nostro orizzonte linguistico col suo oscuro significato di rovina imminente»[13].
Nelle storie dei poveri contadini di Schifano, abitanti di «un continente sconosciuto», di un mondo «un po’ a ritroso della storia», la Durante riesce a rintracciare, nel bene e nel male, i tratti distintivi di una precisa identità culturale e antropologica:
Ma pare che questo sia il destino di noi salentini: scoprire la nostra terra a poco a poco, come fosse un continente sconosciuto, e meravigliarci, e restare a bocca aperta alle scoperte che facciamo, alle inaspettate bellezze che incontriamo, agli aspetti inediti che ci si parano dinanzi a bruciapelo, e quasi ci lasciano storditi.[14]
La cieca ostinazione che sono proprie del leccese e colorano la sua visione amabilmente feudale della vita […]. Cittadino di un mondo un po’ a ritroso della storia, il leccese conserva per sua fortuna alcuni difetti che lo immunizzano dalla più arida fatica del vivere.[15]
Questa consapevolezza identitaria, però, sembra acquisita, paradossalmente, proprio nel momento in cui il confronto con la Storia rischia di annientarla. L’immobilità che da tempo immemore aveva contraddistinto la società contadina del Sud, andava velocemente in frantumi di fronte alla dinamicità della nuova civiltà industriale. Ma è forse proprio questo pericolo incombente a nutrire la scrittura della Durante, ad alimentarne la fedeltà e l’amore per un mondo che stava inesorabilmente scomparendo.
[“Critica letteraria”, n. 167, 2015, pp. 287-97]
[1] Cfr. G. Fofi, “Il Tramontana” senza vocazione; A. Leogrande, La fine dell’utopia; M. Melillo, Una lezione culturale e politica, «Lo Straniero», n. 168, giugno 2014.
[2] V. Santoro-R. Raheli, intervista a Rina Durante rilasciata nell’ottobre 2003, in www.vincenzosantoro.it
[3] Per una prima analisi dei testi rimando allo studio di F. MOLITERNI, I racconti dispersi, presentato in occasione del Convegno.
[4] R. DURANTE, Storie di Ubriachi, «La Gazzetta del Mezzogiorno», 16 ottobre 1966.
[5] Cfr. A.L. GIANNONE, Tra realismo e sperimentalismo: per una rilettura del romanzo La malapianta di Rina Durante, in Visitare la letteratura. Studi per Nicola Merola, a cura di G. Lo Castro, E. Porciani, C. Verbaro, Pisa, edizioni ETS, 2014, pp. 595-604.
[6] R. DURANTE, Tramontana, «Il Critone», agosto-settembre 1963-gennaio-febbraio 1964; ora in Prosatori e narratori pugliesi del Novecento, a cura di F. Ulivi-F. Accrocca, Bari, Adriatica Editrice, 1969, p. 545.
[7] Ivi, p. 546.
[8] EAD.,Una storia per Anna, «Quotidiano di Lecce», 15-19 settembre 1983.
[9] EAD.,Serenata, «Il Critone», gennaio-febbraio 1965, p. 8; il racconto è stato ripubblicato col titolo Romanza, «Carte segrete», Anno VII, aprile-giugno 1973, n. 22, pp. 115-33.
[10] Ibidem
[11] EAD., I parenti, «La Gazzetta del Mezzogiorno», 26 maggio 1966.
[12] EAD., Il grammofono, «La Gazzetta del Mezzogiorno», 17 dicembre 1966.
[13] EAD., I pupazzieri, «La Gazzetta del Mezzogiorno», 22 agosto 1966.
[14] EAD., Dolmen Placha, «La Zagaglia», n. 19, 1963.
[15] EAD., I nostri “dritti”, «La Gazzetta del Mezzogiorno», 10 settembre 1966.