Nel saggio successivo, Giannone ricostruisce il rapporto di Pirandello con la «Rivista d’Italia», in particolare nel triennio 1918-’20, attraverso alcune lettere da lui inviate a Michele Saponaro, all’epoca capo-redattore dell’importante periodico milanese: su suo invito, Pirandello manda alla rivista una riduzione teatrale della novella La patente, pubblicata alcuni anni prima sul «Corriere della Sera», e un saggio sul XXI dell’Inferno, rileggendolo alla luce della sua concezione ‘umoristica’. Dallo scambio epistolare emerge anche la profonda stima di Saponaro nei confronti del drammaturgo siciliano, il quale, a sua volta, non esita a testimoniare in favore del redattore in occasione di una controversia amministrativa con la rivista. Saponaro, che negli anni Venti e Trenta fu tra i narratori italiani di maggiore (ma transitorio) successo, è anche il destinatario di due lettere di Montale che aiutano a far chiarezza su alcune sue vicende biografiche, precisate nel terzo e ultimo saggio di questa sezione: il trasferimento a Firenze, che ora, grazie proprio all’analisi di questi documenti, è possibile collocare con esattezza nel marzo del 1927, e poi alcuni retroscena che si riferiscono alla sua provvisoria e poco soddisfacente attività lavorativa («e me ne venni qui, dove lavoro come un cane presso Bemporad», confida Montale in una delle lettere).
La sezione successiva è dedicata a due poeti del Sud che proprio il tenace lavoro di Giannone ha contribuito a imporre all’attenzione nazionale e internazionale: Girolamo Comi e Vittorio Bodini, sul quale recentemente si è inaugurato un articolato percorso di approfondimento critico anche in Spagna, con una giornata di studi organizzata dall’Università di Valencia e la pubblicazione, a cura di Juan Carlos de Miguel y Canuto, del volume Palabras tendidas. La obra de Vittorio Bodini entre España e Italia (Universitat de València, 2020). Di Comi è tracciato un dettagliato itinerario poetico, dagli anni formativi a Losanna e Parigi fino al rientro nella Finisterre salentina, nel palazzo avito che il barone-poeta, complici Oreste Macrì, Mario Marti, Luciano Anceschi, Maria Corti e altri sodali, trasformò in un elitario osservatorio della letteratura contemporanea; e viene poi proposta una lettura di uno dei suoi componimenti più alti, il Cantico del mare, inserito in una raccolta del ’34, Cantico dell’argilla e del sangue, da cui emerge l’ardua poetica della «parola-Verbo» – distintiva di Comi e di un altro suo antico sodale, Arturo Onofri – che tenta di conciliare, in un’unità superiore, la realtà sensibile con quella spirituale. Di Bodini, invece, si presenta l’inedito Taccuino verde, cioè il prezioso diario delle sue prime settimane di permanenza nella Madrid del dopoguerra, fra tertulias, caffé letterari e incontri con i principali esponenti della poesia spagnola di quel periodo, esperienze che si riveleranno decisive per la sua formazione e per la compiuta elaborazione della sua poetica.
La terza sezione è invece dedicata alla ricezione, fra i moderni, di due figure centrali della tradizione classica italiana, Poliziano e Leonardo. Nel primo caso, Giannone inizia il suo excursus dal recupero erudito di Carducci e di alcuni suoi seguaci – Olindo Guerrini, Enrico Panzacchi, Guido Mazzoni, Giovanni Marradi e soprattutto Severino Ferrari – e si sofferma poi sulla presenza di Poliziano nella poesia di d’Annunzio, che ha invece più raffinate finalità estetiche («io derivava in gloria d’Isaotta / i larghi modi de ’l Poliziano», ammette il Vate nell’Isottèo) e diede il via, fra gli epigoni e non solo, a una renaissance quattrocentesca piuttosto diffusa nella poesia di quel periodo. Incuriosisce, poi, il singolare percorso di uno dei componimenti più noti di Poliziano, la Canzona di maggio, che ‘transita’ in testi di autori molto diversi fra loro, come Gian Pietro Lucini, Giovanni Pascoli e Angelo Orvieto, fino a essere citata, in tempi molto più recenti, nella popolare Canzone dei dodici mesi di Guccini.
La presenza di Leonardo nella modernità letteraria, argomento già adeguatamente approfondito da altri studiosi, però esclusivamente nell’ambito del decadentismo, è invece inquadrata da Giannone in un periodo molto meno esplorato, dagli anni Trenta in poi, sull’onda lunga del recupero leonardesco propiziato dall’importante mostra tenutasi a Milano nel 1939, puntualmente recensita da Gadda e Sinisgalli (che tornerà sull’argomento anche nel Furor mathematicus) e poi dalle celebrazioni vinciane organizzate in occasione del cinquecentesimo anniversario della sua nascita, nel 1952, e raccontate da un inviato d’eccezione, Eugenio Montale. Nel pieno Novecento, la figura di Leonardo – che a quell’altezza, anche nell’ottica del progressivo avvicinamento delle «due culture», era apprezzato non solo come artista ma anche come inventore e scienziato – perde l’alone di mistero tipico del gusto fin de siècle e assume connotati più realistici. Questa impostazione tornerà, alcuni anni dopo, anche in un intervento di Quasimodo del ’67 e soprattutto in una delle Lezioni americane di Calvino, quella dedicata all’Esattezza. Il tema della Grande Guerra nella letteratura del Novecento è affrontato nel saggio, dal taglio più didattico e divulgativo, che apre la quarta sezione della raccolta. Giannone divide in due diversi schieramenti, più o meno omogenei, gli scrittori interventisti: da una parte i nazionalisti (Enrico Corradini, d’Annunzio, Marinetti, Papini e Soffici), e dall’altra i democratici (Salvemini, Jahier, Lussu, Gadda); e si sofferma poi sulle due coscienze più alte, letterariamente e moralmente, della prima guerra mondiale, Ungaretti e Rebora.
Il saggio successivo è dedicato al Sud inteso come argomento e risorsa di poesia, nel solco di una prospettiva indicata da Gianfranco Contini nella prefazione a Vidi le muse di Sinisgalli (1943). Giannone individua, attraverso l’analisi di alcuni testi esemplari, i temi e le caratteristiche principali di quella che definisce la «linea meridionale», e cioè: il Sud come tema lirico-narrativo dominante, sviluppato allo scopo di riscattare, almeno nell’alveo della lirica nazionale ed europea, l’alienante emarginazione sociale, politica, economica e culturale del Meridione; il costante richiamo alla storia, antica e recente, di quelle terre; l’attrazione verso la «realtà dell’invisibile» – definizione ripresa da uno studio di Giovanni Battista Bronzini sulla civiltà contadina lucana –, e cioè l’inclinazione a un orfismo caratterizzato dalla fusione di elementi magici e religiosi, tipici delle culture popolari; e, infine, il tema ricorrente della devozione filiale, cioè una declinazione moderna del culto dei lari – anch’esso, dunque, di matrice chiaramente antropologica – tradizionalmente legato al ruolo della famiglia, concepita come solido cardine delle società patriarcali e contadine.
Il primo dei tre studi confluiti nella sezione dedicata al futurismo si concentra sul dibattito innescato negli ambienti letterari dell’epoca dal paroliberismo e dalle altre ardite innovazioni introdotte da Marinetti e compagni nei manifesti ‘tecnici’, passando sinteticamente in rassegna le varie posizioni, dal consenso dei tanti luogotenenti marinettiani, alle riserve di Lucini e Prezzolini, fino all’aperto rifiuto dei lacerbiani Papini e Soffici, che contestavano il «carattere autoritario, accentratore, formale e religioso» della nuova e turbolenta «chiesa» marinettiana; e poi di Palazzeschi, che in un pezzo apparso nel ’14 sulla «Voce» dichiarava di non volere aver «più nulla a che fare col movimento futurista». Il saggio successivo approfondisce il tema della «macchina volante», cioè dell’aeroplano, che il parallelo progresso dell’industria e della tecnologia aeronautica aveva contribuito a rendere sempre più rilevante, fino ad assumere, negli anni Trenta, come dimostrano le varie esperienze di aeropoesia, aeropittura, aeroplastica, ecc., il ruolo di protagonista assoluto di tutte le espressioni artistiche futuriste.
Il saggio conclusivo verte sulla ‘campagna’ futurista nel Sud Italia, che Marinetti condusse in prima persona nel tentativo di far proseliti in quello che era allora un ‘feudo’ di Benedetto Croce, da lui considerato il re dei passatisti e, di conseguenza, il principale nemico del movimento: in una serata organizzata a Roma nel 1914, come ricorda Giannone, «venne portata in processione sulle spalle, dal poeta Radiante e dal pittore Depero, la testa di Croce “scolpita a schiaffi” sulla creta […] dallo “scugnizzo futurista” Cangiullo, prima che lo stesso capo del movimento ne leggesse l’orazione funebre». Ma nonostante questi episodi clamorosi, a parte alcune episodiche esperienze significative, come per esempio quella dello stesso Francesco Cangiullo e di alcune riviste minori, diffuse a macchia di leopardo in tutto il territorio meridionale, furono proprio i crociani a costituire un saldo argine all’avanzata di Marinetti, dapprima con Francesco Flora che rispose alla provocazione futurista con un Elogio funebre del futurismo, e poi con lo stesso Croce, che in un intervento del 1918 definì il movimento «un documento importantissimo, sebbene penoso, delle condizioni spirituali dei tempi nostri».
[Recensione a Antonio Lucio Giannone, Ricognizioni novecentesche. Studi di letteratura italiana contemporanea, Avellino, Edizioni Sinestesie, 2020, pp. 276, in «Otto/Novecento», 2-3, 2020, pp. 243-246]