Dopo l’antologia del ’29, sempre nelle edizioni “Al Tempo della Fortuna”, Comi pubblica altri libri di poesia: Cantico del tempo e del seme (1930), Nel grembo dei mattini (1931), Cantico dell’argilla e del sangue (1933), Adamo-Eva (1935). Queste raccolte verranno nuovamente antologizzate da lui nel volume Poesia (1918-1938), del 1939. Nella Prefazione a questa seconda antologia, Raffaello Prati, tornando sul motivo principale della poesia comiana, così scriveva: «La poesia del Comi nel suo contenuto è la celebrazione della concordia e della comunione dell’io individuale col mondo, dello spirito col corpo, dell’uomo effimero con tutta la storia stratificata del mondo. È un incessante aspirare e respirare, un continuo passare tra gli opposti e una sintesi senza fine»8.
In questi anni escono anche alcune opere in prosa nelle quali egli espone la sua poetica e le sue riflessioni in campo religioso e sociale: Poesia e conoscenza (1932), Commento a qualche pensiero di Pascal (1933), Necessità dello stato poetico (1934), Aristocrazia del cattolicesimo (1937), Bolscevismo contro cristianesimo (1938). Ebbene, la concezione comiana della poesia non aveva alcun rapporto con quella delle correnti più in voga allora in Italia che i critici hanno denominato “poesia pura”, ermetismo o, più recentemente, anche poesia modernista. Da qui la sua radicale diversità, la sua alterità, e quindi anche la sua sostanziale estraneità rispetto al panorama letterario novecentesco, che Pasolini invece, in un articolo del 1954 apparso su «Paragone», dal titolo Una linea orfica, scambiò per un congenito «ritardo» del poeta rispetto ad esso9. Questo è anche il motivo della difficoltà che la critica, in genere, ha sempre trovato nel dare un’esatta collocazione all’opera di Comi. L’unico poeta con il quale è possibile istituire un preciso raffronto è proprio Arturo Onofri con il quale egli ebbe un intenso sodalizio nel periodo romano, troncato dalla morte precoce di quest’ultimo, avvenuta il giorno di Natale del 192810.
Come Onofri, infatti, Comi rifiuta quel tipo di poesia che mette al centro del proprio interesse l’io, le angosce individuali, le inquietudini esistenziali, i propri sentimenti, cioè la poesia di tipo lirico. La poesia, per entrambi, deve essere un’attività totalizzante, a cui bisogna riservare una dedizione assoluta, rifuggendo volutamente, con profonda convinzione, il “mestiere” del letterato e quindi la gloria, il facile successo, l’applauso del pubblico. Non a caso Comi parla di «stato poetico», che è «una presa di posizione e di possesso incisiva e corale dello spirito umano, o se si preferisce, una identificazione ininterrotta e impegnativa dei valori immanenti di sé e delle linfe oceaniche del cosmo»11. Il poeta vero, perciò, deve svolgere un’attività di tipo sacerdotale, in quanto il fine dell’arte è quello di ricondurre il mondo fisico, la materia, a quello spirituale, redimendolo, in vista di quel ricongiungimento finale col tutto, con l’assoluto, col divino, che, secondo la visione di Steiner, era all’origine dell’universo e sarà la tappa conclusiva nella storia dell’umanità.
La poesia può svolgere questo compito tra gli uomini attraverso l’azione della «parola-Verbo», un concetto centrale in Comi come in Onofri. Entrambi avevano fiducia nel valore “magico” della parola, che all’inizio del Vangelo di Giovanni si dice essere il principio di ogni cosa. In essa, com’è noto, il Cristianesimo identifica il figlio di Dio fatto uomo, il Cristo a cui anche l’antroposofia steineriana, che è poi una forma di cristianesimo esoterico, attribuisce un ruolo decisivo come asse e motore dell’evoluzione cosmica. La «parola-Verbo» permette al poeta di continuare in un certo senso l’opera del Cristo, immettendo negli uomini quella che Comi chiama «semenza», la quale, proprio come il seme nascosto nella terra, darà i suoi frutti, perché li porterà a scoprire il divino che c’è in loro, e avrà quindi una funzione palingenetica, di redenzione e di salvezza. La parola perciò è definita “magica” perché, come spiega il poeta, «per suo mezzo si attua la certezza della comunione con l’assoluto. Più si ha fede nella funzione magica della parola, meglio si risolve il dramma dato, proposto e congenito all’uomo»12.
La parola è anche comunione perché permette agli uomini di entrare in contatto col trascendente, prendendo coscienza di questa verità, e quindi col tutto. Da qui l’equivalenza che si stabilisce tra poesia e conoscenza: «Poetare e conoscere – scrive Comi ‒ diventano dunque due luminosi e illuminativi sinonimi»13. Perciò la poesia, per lui, è «la coscienza del divino che è in me»14.
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Questi concetti sono fondamentali per comprendere fino in fondo il Cantico del mare, perché anche nell’affrontare il tema del mare Comi conferma la sua lontananza abissale, la sua radicale estraneità rispetto a tutti gli altri poeti italiani del suo tempo. Anche qui infatti, come vedremo, ci troviamo di fronte a una poesia impersonale, oggettiva, in cui non è presente l’io del poeta. Non è insomma, nemmeno questa, una poesia di tipo lirico, rifiutata da Comi sulla scia di Onofri che in un brano del Nuovo rinascimento come arte dell’Io, il suo libro teoretico, aveva scritto:
In questa via, anche l’Arte cambia la sua natura e diventa Arte dell’Io, manifestando con altri intenti ed altra tecnica l’interiorità umana non più soggettiva, psicologica, personale, bensì oggettiva, cosmica, individuale, la quale esprime assolutamente sé stessa; ed esprimendo sé stessa fuori dell’uomo, esprime insieme la vita dell’universo. Allora con la trasformazione dell’uomo da personalità lirico-soggettiva a personalità spirituale-oggettiva (o individualità assoluta) tutto è mutato nella sfera dell’Arte15.
Anch’egli, d’altra parte, in Necessità dello stato poetico, aveva affermato:
Nei momenti di grande povertà interiore si è schiavi e vittime di un volgare pessimismo: quello dell’io incrostato nella sua piccola amministrazione economica e pseudo-spirituale. Quando si è ricchi si realizza incondizionatamente Dio e la luce ininterrotta di una realtà cosmica spirituale. Concludendo e abbreviando:
quando si è poveri si naufraga nell’io
quando si è ricchi si realizza Dio16.
Nel Cantico del mare, infatti, non compaiono quei motivi che caratterizzano questo tema negli altri poeti primonovecenteschi, tutti legati appunto variamente alla poesia di tipo lirico, come l’immersione (Ungaretti, Govoni, Marinetti), il viaggio in mare (Campana), il “naufragio” (Ungaretti, Saba)17. Il Cantico comiano, semmai, si può accostare a un componimento musicale essendo esso stesso una vera e propria “sinfonia” del mare, di cui il poeta risente il fascino profondo fino a farne il simbolo della perennità della vita dell’universo («e il cosmico flusso corale / di un Ritmo universale / fiorisce nella tua schiuma / oh mare, e non si consuma», vv.70-73). In questo campo, una probabile fonte di ispirazione può essere stato, per Comi, un pezzo celeberrimo di un musicista da lui assai amato, Claude Debussy, e cioè La mer, i tre “schizzi sinfonici per orchestra”, composti tra il 1903 e il 1905, che certamente egli aveva ascoltato più volte, e a cui il suo Cantico si avvicina anche per la tendenza all’astrazione, al vago, all’indefinito, così tipica dell’impressionismo musicale di Debussy.
Questa composizione è divisa in cinque parti per complessive sedici strofe e ottanta versi. In massima parte, i versi sono ottonari, poi in misura più ridotta compaiono i novenari, gli endecasillabi (sette, tutti nell’ultima strofa), e i settenari (solo due). I versi sono rimati secondo uno schema libero, e accanto alle rime Comi, come di consueto, ricorre alle assonanze.
Come osservazione di carattere generale, bisogna dire che il Cantico vuole essere una celebrazione del mare visto però non isolato ma nella sua profonda, totale armonia col resto del creato (il cielo, la terra, il sole, gli astri) e non separato dall’uomo, ma misticamente collegato ad esso attraverso la componente spirituale. Non a caso, anche stavolta, Comi ricorre alla forma metrica del “cantico” che utilizza, nelle raccolte di questi anni, per celebrare con tono alto e solenne anche altri elementi dell’universo: l’albero, il suolo, le idee, le origini, l’argilla, la memoria, lo spazio, la luce, l’alba, il creato. Anche qui, insomma, come ha scritto Nicola Moscardelli, parlando più in generale della prima poesia di Comi, siamo «nel regno della nascita e della morte delle cose create, intese non avulse da noi, ma legate a noi dalla gran parentela della vita vivente che accomuna in un solo respiro l’uomo e la pianta, il frutto ed il pensiero»18. E, a questo proposito. è significativo il seguente brano tratto dalla sezione Fogli di un diario lirico (1920-1923), compresa nel volume Necessità dello stato poetico, in cui Comi stabilisce l’equivalenza tra il mare e il pensiero dell’uomo («sentii profondamente combaciare l’azzurro universo col fosforo individuale»):
Ieri ero al mare
Fra glauche gole di luce un gorgoglio di cielo ne gargarizzava il denso smeraldo. Sorpreso fra molte opzioni importanti; sospeso nullameno a un sommesso e soffice andirivieni d’aromatico spazio marino
Marea… marea… pensa che rima con Idea… idea. E sentii profondamente combaciare l’azzurro universo col fosforo individuale
Di viola si velluta la notte e di latte di albe la novità inesauribile del risveglio19.
Questa visione unitaria del mare, d’altra parte, è evidente anche in altre composizioni di Comi dove lo spazio equoreo è accostato sempre, attraverso ardite metafore, alla terra o al cielo. Porto solo qualche esempio tratto da vari testi e momenti della poesia comiana20: «E la marea dei giardini del mondo» (21), «di zolle di mare» (53), «marea lattea di fiori…» (59), «mare orlato di cieli» (76), «di parentele fra cielo e mare» (96), «marea di rose» (102), «con germogli di flore di mare» (269).
Anche nel Cantico del mare si nota l’acceso immaginismo di Comi, quel suo «analogismo spinto»21, che si rivela nell’uso di frequenti, preziose immagini analogiche e sinestetiche che accomunano appunto colori, odori, visioni, suoni e che rimandano sempre all’unità del tutto, alla «gran parentela della vita vivente», secondo la definizione appena citata di Moscardelli. Solo nella prima parte, ad esempio, si notano le seguenti: «mormorio gemmeo» (v. 5), «sorgivi sapori / di selve» (vv. 9-10), «barlumi sonori» (v. 11).
Non ci sono, in questa composizione, che risale, è bene ripeterlo, al 1931, riferimenti alla religione cristiana ma tutto vive ancora in un’atmosfera panteistica, immanentistica e addirittura, potremmo dire, pagana. Occorre aggiungere ancora che, fin dalle prime strofe, non si assiste a una descrizione naturalistica del mare, ma a una sua trasfigurazione in senso mitico e favoloso, a una reinvenzione fantastica. E infine, prima di passare al commento, non possiamo non osservare che, anche se parla genericamente del mare, Comi, quando compose il Cantico, aveva sicuramente presente negli occhi e nel cuore il mare incontaminato della sua terra, quello del Capo di Leuca.
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Incominciamo a leggere, dunque, e partiamo ovviamente dalla prima parte composta da quattro strofe di quattro versi ciascuna, che costituiscono un solo periodo, con una lunga parentetica al suo interno:
Turgido spazio screziato
di rasi perlacei… di tenere albe
che l’alba di Venere
sembrano avere svelato
un mormorio gemmeo (che include
le illimitate maree
di ère vergini nude,
come melodiche dee,
come sorgivi sapori
di selve di linfe dirotte
di cui i barlumi sonori
sostanziano il giorno e la notte)
sale dalle epopee,
Mare, delle tue tenere
profondità che Venere
ha vellutato di dee22.
E già da questo incipit emergono le qualità visionarie della scrittura poetica di Comi, la straordinaria capacità del poeta di saper “vedere” il mare nella sua essenza profonda, entrando “magicamente” in sintonia con esso con una totale immedesimazione. E si notino le tracce di paganesimo presenti («dee», «Venere», e più avanti, nella quinta strofa, «paniche e arcaiche potenze»). Frequenti ancora, qui e nel resto del componimento, sono i riferimenti a un’età primigenea in cui esisteva questa armonia tra le forze cosmiche, quel «sentimento genesiaco di primo giorno del creato, in cui tutti gli elementi del cosmo sono destati impetuosamente alla vita»23, come è stato definito, che è un tema costante in Comi.
Questi motivi compaiono anche nella seconda parte, composta di due strofe di sette versi ciascuna, dove emergono gli elementi del mondo minerale («opali», «zaffiri», «ambra»):
Raggiano opali e zaffiri
risuscitando respiri
d’aure di tempo oceanico,
e lungo le arborescenze
di tutte le tue semenze
rutila il battito e l’alito
di paniche e arcaiche potenze.
Nelle tue valve irrorate
di pollini d’arie dorate,
il fosforo l’ambra e l’azzurro
di nuclei d’astri e di cieli
scandiscono il movimento
innumerevole e lento
di giovani e antichi emisferi.
Anche qui Comi allude al primo giorno della Creazione di cui, con doti quasi di chiaroveggenza, intravede i segni nei «nuclei d’astri e di cieli» rimasti nelle profondità del mare che quindi sembra conservare la memoria di quella remota origine.
Nella terza parte, composta da quattro strofe, rispettivamente di quattro, otto, quattro e quattro versi ciascuna, è invece il mondo vegetale che balza in primo piano, mentre manca completamente, in tutto il componimento, l’elemento umano. Anche qui c’è una visione unitaria del tutto per cui il mare diventa «l’immagine / spirituale del cielo» ed è collegato alla terra attraverso il suo «respirare celeste»:
Vulve perlacee iridate
di nascite vaghe, di trame
di un latteo ed erboso carname
che brulica di rugiade,
vegetalità fitta e tersa
di sali d’arborei coralli
che creano mobili valli
di rosea luce sommersa.
dànno alla tua compagine,
Mare, un brivido etereo
che riproduce l’immagine
spirituale del Cielo.
Tutta la forza terrestre
ch’è governata dal sangue
ondeggia nelle ghirlande
del tuo respirare celeste,
e la tua voce ripete
la morbida risonanza
delle memorie segrete
d’una continua sostanza.
E, a proposito di questo trovare continuamente motivo di poesia nel mondo vegetale e minerale, in una recensione del 1930 al Cantico del tempo e del seme, un critico sosteneva che il poeta vuole scendere a contatto con la natura «non per un compiacimento più o meno estetico o per una contemplazione idillica: si vuole scendere a contatto con la vita elementare della natura e, nella radice, nel seme, nel fiore, nel sasso, nel cristallo, ritrovare, dilatandoli, il cosmo: nel seme della pianta risentire la forza creativa di tutto il mondo»24.
Ma in questa terza parte notiamo anche una sorta di umanizzazione del mare, visto come organismo vivente, e indicativi di essa sono alcuni termini come «sangue» (v. 44), «respirare» (v. 46), «voce» (v. 47) e nell’ultima strofa anche «membra» (v. 78).
Questa visione unitaria prosegue nella quarta parte, composta da una strofa di quattro e una di cinque versi:
Morbidità, compattezza
‒ come se tu fossi fatto
di un alito e dello scatto
d’una vivente carezza ‒
fanno le falde splendenti
della inviolata tua mole
in cui il volume del sole
stempera in iridi argentee
il suo seminale vigore,
dove è messo in rilievo il rapporto mare-sole e ritorna il motivo antropomorfico («‒ come se tu fossi fatto / di un alito e dello scatto / d’una vivente carezza ‒»).
Nella quinta e ultima parte, composta da quattro strofe, rispettivamente di sei, quattro, quattro e sette versi, infine, questa trasfigurazione visionaria del mare giunge al culmine con il riferimento anche alle «mitiche faune» (v. 64) che lo popolano, ma è nella penultima strofa che il mare diventa quasi il simbolo della perennità della vita del cosmo e dell’armonia che c’è nell’universo, celebrata dal poeta in tutta la sua opera come manifestazione dell’assoluto. E nel flusso continuo del mare, nel suo eterno dinamismo il poeta sente un respiro altamente cosmico («il Ritmo universale», v. 71) che lo accomuna ancora una volta “magicamente” a lui:
Polle raggianti di flore
secernono un turgido umore
dal grembo di cui si diramano
velari di architetture
di mitiche faune – nature
di germi che roteano ed amano.
Midolle remote di mondi
vagano a blocchi, gemmate
di luci cristallizzate
in glauchi ed estatici fondi:
e il cosmico flusso corale
di un Ritmo universale
fiorisce nella tua schiuma
oh mare, e non si consuma.
Terso e carnoso, leggero e profondo
come l’essenza duplice del mondo
mobile e unito, tu aspiri e ispiri
il cuore dei più florei respiri
e le tue membra che l’etere adora
hanno gli stessi palpiti sottili
dei succhi primi e della prima aurora.
E in questi ultimi versi, dove gli ariosi endecasillabi, che prendono il posto dei versi più brevi, danno quasi il senso del placarsi del movimento del mare dopo una giornata burrascosa, compaiono ancora i riferimenti all’origine dell’universo («dei succhi primi e della prima aurora», v. 80), di cui il mare, con le sue principali caratteristiche, dinamicità e compattezza al tempo stesso, sembra rispecchiare la duplice essenza («mobile e unito»).
***
Qualche anno dopo Comi ritorna su questo tema con un sonetto, intitolato Mare, composto tra il 1937 e il ’38, quindi stavolta dopo la conversione, e compreso nella raccolta Poesia (1918-1938), ma non più riproposto in Spirito d’armonia. Leggiamolo:
Frusciante di un sorgivo brulichio
di rutilanti smeraldi rispecchi
la giovinezza d’azzurri perfetti
modulandone il respiro nativo.
Un pullulare di vivide flore
palpita nei tuoi abissi col fulgore
delle rugiade che hanno ad ogni stella
rapito l’ambra d’una madreperla.
Eco plenaria di un’eterea mole
di rifiorenti iridi di sole,
del tuo splendente movimento vesti
il corpo della terra ed incoroni
le sue natività, le sue stagioni
d’un gemmeo squillo di patrie celesti25.
A una prima lettura, sembrerebbe che non ci siano differenze sostanziali, a parte il differente schema metrico, tra il Cantico e questo sonetto che potrebbe sembrare solo una “variazione sul tema”, come spesso succede nella poesia di Comi, nella quale tanti temi (la luce, l’alba, la memoria, l’albero, l’argilla, il sonno, il fiore, ecc.) ritornano costantemente con piccole, a volte minime, variazioni nelle sue raccolte. Anche molti termini, infatti, presenti in quella composizione, si ritrovano qui: flore, rugiade, ambra, mole, iridi, sole, gemmeo, etereo, respiro, celeste, brulica. D’altra parte, la monotonia, tematica e stilistica, è stata sempre considerata dai critici una caratteristica di Comi il quale peraltro ebbe a dichiarare una volta che la sua poesia aveva «qualche analogia» con la musica di Bach «nel senso che è un’architettura apparentemente sempre uguale eppure sempre diversa»26. E nella nota introduttiva alla raccolta Canto per Eva, del 1958,Intorno a questa poesia, aggiunge: «L’apparente monotonia della sostanza e della forma è ‒ per paradossale che sembri ‒ frutto di una varietà tumultuosa, ma sempre un po’ repressa, e della tenace contemplazione di particolari sorgenti di vita interiore»27.
A questo proposito Donato Valli, che è stato il suo allievo e il suo critico più fedele, ha osservato che «non si tratta, certo, di “pigrizia stilistica”» e che per alcuni poeti «la limitata tematica è ragione di poesia; il che ‒ continua – ben s’intende, non è affatto contrario alla ricchezza stilistica e semantica», perché «è la ricerca della chiarezza e di un linguaggio rigoroso ed esatto a limitare il lessico di Comi»28. E così conclude:
E il poeta accetta questa limitazione con lo stesso spirito con cui un matematico accetta le poche cifre con le quali forma combinazioni infinite di numeri, o un musico s’adatta alle sole sette note perché sa di poterne ricavare armonie innumerevoli. Così con poche e, se vogliamo, scarne parole, Comi costruisce il suo mondo che è, al contrario, infinito e ricchissimo, perché costringe ogni vocabolo a risonanze e vibrazioni e significati multiformi e numerosi29.
Queste affermazioni si possono verificare anche esaminando il sonetto Mare, che potrebbe sembrare, come dicevo, semplicemente una “variazione sul tema” del mare senza particolari novità di rilievo. Anche in questo sonetto in effetti si assiste a un’esaltazione del mare che, come nel Cantico, diventa simbolo della vita dell’universo e dell’armonia esistente fra i vari elementi del cosmo (terra, sole, stelle, cielo), di cui esso sembra propagare l’eco («eco plenaria di un’eterea mole»). Anche qui permane il riferimento al primo giorno della creazione («rispecchi / la giovinezza d’azzurri perfetti / modulandone il respiro nativo») e non mancano nemmeno le citazioni di elementi del mondo minerale («smeraldi») e vegetale («vivide flore»), come s’è visto nel Cantico.
Ma proprio nell’ultimo verso quel sintagma finale, «patrie celesti», è la spia di un cambiamento profondo intervenuto nella concezione cosmica di Comi, che nel 1933, come s’è detto, si era convertito al cattolicesimo. Ora, infatti, come è scritto nella motivazione del Premio Chianciano che gli venne assegnato nel 1954 per Spirito d’armonia, «da una panica e sensuale “comunione con il tutto”, da una totale ebbrezza di natura e cosmica liberazione vagheggiate fino a Cantico dell’argilla e del sangue [dove figura il Cantico del mare], si passa per gradi a un più alto acquisto religioso, a una visione cristiana della vita; e dall’immanentismo al sentimento della trascendenza»30.
Ecco, in questo sonetto, insomma, il mare non è più soltanto simbolo dell’armonia esistente nell’universo, in una visione ancora di tipo panteistico, come nel Cantico, ma diventa quasi l’immagine concreta, il preannuncio («gemmeo squillo») di un’altra vita, di una «patria celeste», che per i credenti corrisponde al paradiso, alla beatitudine eterna, a cui bisogna tendere. Quindi Comi, a distanza di sei-sette anni, sente il bisogno di ritornare sul tema del mare con questa minima ma sostanziale “variazione”, alla luce, come dice lui stesso nel brano citato poc’anzi, «della tenace contemplazione di particolari sorgenti di vita interiore»31, cioè, in questo specifico caso, della piena, convinta adesione ai principi del credo cattolico.
[in A.L. Giannone, Ricognizioni novecentesche. Studi di letteratura italiana contemporanea, Avellino, Edizioni Sinestesie, 2020]
1 G. Comi, Opera poetica, a cura di D. Valli, Longo, Ravenna 1977, p. 371.
2 Ibid.
3 Id., Cantico dell’argilla e del sangue, Al Tempo della Fortuna, Roma 1933, pp. 51-57. Per i dati bibliografici completi delle opere citate si rinvia a Id., Poesie. Spirito d’armonia, Canto per Eva, Fra lacrime e preghiere, a cura di A. L. Giannone e S. Giorgino, Musicaos, Neviano (Lecce) 2019, pp. xlvii-xlviii.
4 Id., Poesia (1918-1938), Libreria internazionale “Modernissima”, Roma 1939, pp. 42-46.
5 Id., Spirito d’armonia, Edizioni dell’«Albero», Lucugnano (Lecce) 1954, pp. 78-81.
6 Per un profilo dell’attività letteraria di Comi ci sia permesso di rinviare a A. L. Giannone, Itinerario di Girolamo Comi, in G. Comi, Poesie cit., pp. xv-xl. Alle pp. 335-338 di questo volume si rimanda anche per la bibliografia della critica.
7 S. Solmi, Poesia cosmica, in «L’Italia letteraria», ii, 9, 2 giugno 1929.
8 R. Prati, Prefazione a G. Comi, Poesia (1918-1938) cit., p. 8.
9 Cfr. P. P. Pasolini, Una linea orfica, in «Paragone-Letteratura», v, 60, dicembre 1954, ora in Id., Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti e S. de Laude, con un saggio di C. Segre, tomo i, Mondadori, Milano 1999, pp. 572-581.
10 Su questo rapporto cfr. A. L. Giannone, Girolamo Comi e Arturo Onofri: la «Parola-Verbo», in Id., Fra Sud ed Europa. Studi sul Novecento letterario italiano, Milella, Lecce 2013, pp. 71-93, da cui nel presente articolo riprendiamo alcuni concetti essenziali.
11 G. Comi, Necessità dello stato poetico, Al Tempo della Fortuna, Roma 1934, p. 22.
12 Ivi, p. 185.
13 Id., Poesia e conoscenza, Al Tempo della Fortuna, Roma 1932, p. 14.
14 Id., Necessità dello stato poetico cit., p. 123.
15 A. Onofri, Nuovo rinascimento come arte dell’Io, Laterza, Bari 1925, p. 208.
16 G. Comi, Necessità dello stato poetico cit., p. 121.
17 Su questo argomento si rinvia a V. di Martino, Sull’acqua, Liguori, Napoli 2012, un’ampia esplorazione dell’immaginario acquatico presente nella lirica primonovecentesca.
18 N. Moscardelli, Nel grembo dei mattini, in «L’Italia letteraria», 12 aprile 1931, p. 1.
19 G. Comi, Necessità dello stato poetico cit., p. 63.
20 I numeri tra parentesi si riferiscono alle pagine di G. Comi, Poesie cit.
21 G. L. Beccaria, Lingua, ritmo e tecnica nella poesia di Comi, in Girolamo Comi. Atti del Convegno internazionale (Lecce-Tricase-Lucugnano, 18-20 ottobre 2001), a cura di P. Guida, Milella, Lecce 2002, p. 26.
22 G. Comi, Cantico del mare, in Id., Poesie cit., pp. 82-84.
23 M. Tondo, Lettura di Girolamo Comi, Adda, Bari 1973, p. 19.
24 G. Del Pizzo, Poeti nuovi, in «La Rassegna», Ancona, giugno 1929, p. 294.
25 Comi, Mare, in Id., Poesia (1918-1938), cit., p. 106.
26 Questa dichiarazione di Comi è contenuta in D. Valli, Chiamami maestro, Lecce, Manni, 2008, p. 28.
27 Comi, Intorno a questa poesia, in Id, Poesie, cit., p. 92.
28 Valli, Girolamo Comi, Lecce, Milella, 1977, p. 87.
29 Ibid.
30 In Comi, Opera poetica, cit., p. 356.
31 Comi, Intorno a questa poesia, in Id., Poesie, cit., p. 92.