Il chiodo d’oro

Tichon arrivò nella fucina. Dapprima il fabbro parlò con lui del più e del meno, poi lo esortò dicendogli: «La tua felicità, ragazzo mio, sta tutta nell’avere un chiodo d’oro. Quando riuscirai a forgiarti un chiodo d’oro, quello ti porterà tanta felicità e tanta fortuna. Ti toccherà solo aiutarlo un pochino.»

«Io, mastro Zachar, non ho mai forgiato nulla in vita mia!»

«Anch’io non sono un mastro-fabbro dalla nascita» – disse il fabbro. «Adesso, dài, mettiamoci subito a soffiare il fuoco nella forgia.»

Il fabbro si mise ad insegnare al giovane come si soffia il fuoco nella forgia, come viene convogliata l’aria dentro ai mantici della fucina, come e quando deve essere aggiunto il carbone, come va ammorbidito il ferro con il fuoco, come usare le pinze per afferrare e tenere un pezzo forgiato. Per Tichon il lavoro non filò subito tutto liscio. Sentì a lungo le braccia rotte e le gambe indolenzite dalla fatica. La sera non riusciva a raddrizzare la schiena. Ma si affezionò al mastro-fabbro come ad un padre. La cosa era reciproca, perché anche Tichon era entrato nella vita del mastro-fabbro a fagiolo, dato che egli non aveva figli maschi, ma soltanto una figlia femmina. Ma quella era una nullafacente. Meglio non parlarne. Come poteva la ragazza, crescendo senza la madre, diventare una con le mani di fata? Ad ogni modo, per adesso, non è di lei che si parla.

Arrivò il tempo in cui Tichon divenne un martellatore.

Prese il fabbro un vecchio perno di trazione e disse: «Adesso comincia a forgiare da questo perno il chiodo d’oro della tua felicità e della tua fortuna.»

Tichon forgiò il chiodo per una settimana, poi un’altra e, giorno per giorno, il chiodo diveniva sempre più bello. Alla terza settimana il mastro-fabbro disse a Tichon: «Il troppo storpia, ragazzo mio. Anche la felicità e la fortuna hanno una misura!»

Tichon non capì per quale motivo il fabbro gli avesse detto quelle parole. Non riusciva più a badare alle parole, aveva tutt’altro per la mente. Il suo chiodo gli aveva preso il cuore, tanto che non riusciva a distoglierne lo sguardo. Unico cruccio: il chiodo d’oro si spense. Si freddò. Si scurì tutto.

«Non ti rammaricare, Tichon, vedrai, il tuo chiodo sarà d’oro» – disse il fabbro.

«Quand’è che diventerà d’oro, mastro Zachar?»

«Sarà d’oro, quando gli darai quello che lui ti chiede.»

«Ma, mastro Zachar, il chiodo non chiede niente.»

«E tu, Tichon, rifletti. Credi davvero che un chiodo viene forgiato per essere buttato via senza essere usato?»

«Hai proprio ragione, mastro Zachar. Un chiodo deve essere piantato da qualche parte. Ma dove posso piantarlo, mastro-fabbro Zachar? Noi con la mamma non abbiamo né un letto né un tetto, né un portone né una staccionata.»

Il mastro-fabbro pensò a lungo, a lungo si grattò la fronte, poi disse: «E tu, ragazzo mio, piantalo dentro un palo di legno.»

«E dove lo prendo un palo di legno?»

«Abbattilo nel bosco e mettilo nella terra.»

«Ma io non ho mai abbattuto un albero in vita mia, non ho neppure una scure!»

«Non avevi neanche mai forgiato in vita tua prima e guarda adesso, che bel chiodo hai forgiato. Perciò puoi forgiarti anche una scure per abbattere un albero.»

I mantici della fucina si misero di nuovo a respirare-sbuffare, volarono scintille da tutte le parti. Non subito, non tutto di un fiato, ma soltanto dopo tre giorni il giovane Tichon forgiò una scure e si avviò nel bosco. Scelse un pino e si mise ad abbatterlo. Non fece in tempo, poveraccio, neppure ad intaccare la corteccia del pino, che venne preso dal guardaboschi.

«Perché, ladro-brigante, stai abbattendo il bosco?»

Tichon rispose al guardaboschi, in modo docile e gentile. Gli spiegò chi fosse, da dove proveniva e a che cosa gli serviva un tronco di pino.

Il guardaboschi capì che non aveva davanti né un ladro, né un brigante, ma il figlio di una povera vedova e il discepolo del mastro-fabbro Zachar.

«Va bene!» – disse il guardaboschi. «Se è stato il mastro-fabbro ad insegnarti come forgiare un chiodo d’oro, anch’io sono pronto ad aiutarti. Vai pure nel bosco, abbatti un lotto d’alberi destinato all’abbattimento ed il tuo lavoro sarà ricompensato con un tronco.»

Che altro poteva fare? Tichon andò nel bosco. Abbatté gli alberi il primo giorno, il secondo giorno e il terzo finì di abbattere il suo lotto. Ricevette un tronco e lo portò sul lembo di terra ereditato dal padre. La terra, nel frattempo, era diventata una macchia fitta di malerba, assenzio, lappola. Non c’era nessuno a curarla. Tichon portò su questo lembo della sua terra il suo palo di legno, ma non aveva niente con cui piantarlo.

«Non ti metterai adesso a soffrire perché non hai un badile!» – disse la madre. «Hai forgiato un chiodo e una scure; credi che non saresti capace di fare un badile?»

Non passò neppure un giorno, che Tichon fece il badile. Interrò solidamente il suo palo di legno e cominciò a piantarvi dentro il suo chiodo della felicità e della fortuna. Non è una gran fatica piantare un chiodo, quando hai una scure tutta tua, con la parte ottusa da potervi perfino danzare sopra, per quanto è bella larga e liscia. Tichon piantò il chiodo e si mise ad attendere per vedere, quando il chiodo sarebbe cominciato a diventare d’oro. Aspettò un giorno, aspettò due giorni, ma il chiodo non solo non cominciava a diventare d’oro, ma aveva iniziato persino a divenire marrone.

«Mamma cara, guarda, la ruggine lo sta mangiando. Forse, il mio chiodo sta chiedendo qualche altra cosa. Debbo andare di corsa dal mastro-fabbro.»

Arrivò tutto trafelato dal fabbro, raccontò com’erano andate le cose; il mastro-fabbro gli disse: «Certo, non può un chiodo essere piantato senza una ragione. Ogni chiodo deve avere un suo impiego e svolgere un suo servizio.»

«Ma quale, mastro Zachar?»

«Vai tra gli uomini e guarda come vengono impiegati i chiodi e come i chiodi servono loro.»

Tichon andò al villaggio. Vide che alcuni chiodi servivano per unire le assi; che altri chiodini, più piccoli e sottili, per attaccare le assicine dei tetti delle case; su altri ancora, più lunghi e grossi, venivano appesi i collari e le bardature dei cavalli.

«Non c’è altro da fare, cara mamma, che appendere sul nostro chiodo un bel collare da cavallo. Se no, la ruggine si mangia tutta la mia felicità e la mia fortuna.»

Tichon disse così ed andò dal mastro-sellaio.

«Mastro-sellaio, dimmi, come posso guadagnare un collare da cavallo?»

«E’ una cosa facile facile, è proprio una cosa da nulla. Lavora per me sino alla fienagione e dalla fienagione sino alle primi nevi. In cambio avrai non solo un collare, ma anche tutta la bardatura per un cavallo.»

«D’accordo» – disse Tichon e rimase a lavorare nella selleria.

Ma il mastro-sellaio era fatto della stessa pasta del mastro-fabbro. Non caricava esageratamente Tichon di lavoro, ma non gli permetteva neppure di starsene seduto a braccia conserte. Ora gli faceva piallare dei ceppi per gli arcioni da sella, ora spaccare della legna, ora lo mandava ad arare un ettaro di terra. Tichon non riusciva subito a far tutto bene. Dovette sudare per imparare, ma insisteva, non voleva rinunciare ad avere un collare. Il suo chiodo non poteva rimanere piantato invano. Passò il tempo ed arrivò il momento del pagamento. Tichon ricevette il miglior collare e la bardatura completa per un cavallo. Portò il tutto a casa e lo appese al chiodo.

«Adesso dorati, chiodo mio! Ho fatto tutto per te.»

Il chiodo, invece, come se fosse vivo, si era accigliato da sotto la capocchia, taceva e non voleva sentire di diventare d’oro.

Tichon andò nuovamente dal mastro-fabbro e il mastro-fabbro gli cantò sempre la solita storia.

«Non può un ottimo collare con la bardatura stare appeso sul chiodo senza una ragione. Ci dev’essere un motivo per tenere un collare appeso.»

«Ma quale potrebbe essere il motivo?»

«Perché non lo chiedi alla gente?»

Tichon questa volta non andò a domandare alla gente, si mise a riflettere da sé. Cominciò seriamente a pensare all’eventualità di avere un cavallo. Pensò a lungo su come avrebbe potuto fare e giunse ad una soluzione.

Si rese conto che, adesso come adesso, sapeva oramai fare parecchi mestieri: il tagliaboschi, lavorare nella selleria, sapeva arare la terra, per non parlare del lavoro nella fucina.

«Magari non riuscirò a forgiare un chiodo d’oro » – decise Tichon, – «ma fare l’apprendista di un mastro qualsiasi, questo sì che lo posso fare!»

Tichon salutò la madre ed andò a guadagnarsi un cavallo.

Non passò un anno, che Tichon arrivò in sella al suo cavallo nel villaggio natio.

La gente del villaggio non si saziava di ammirarlo.

«Che stupendo cavallo! Ma dove si prende tutta questa fortuna?»

Tichon non prestò tanta attenzione alla gente, avviò il suo cavallo dritto dritto verso il palo di legno.

«E allora, chiodo, guarda bene: hai un collare appeso e il collare ha un cavallo. Ora devi diventare d’oro!»

Ma il chiodo così com’era, così rimase. A questo punto, Tichon, anche se era un giovane calmo e rispettoso, non si trattenne più, si scagliò contro il chiodo: «Ehi, tu, capocchia arrugginita, dimmi un po’, che cosa fai? Mi stai prendendo in giro!»

In quel momento, per puro caso, il mastro-fabbro Zachar si trovava vicino al palo.

«Quale risposta puoi pretendere, Tichon, da un chiodo muto? Se non diventa d’oro, significa che vuole da te qualche altra cosa!»

«Ma che cosa?»

«Ma dove si è mai visto che un palo di legno, un chiodo, un collare con tutta la bardatura ed un cavallo rimanessero fuori a cielo aperto a bagnarsi sotto la pioggia battente?»

Tichon si mise a lavoro per coprire il palo con un tetto. E tuttavia il chiodo non divenne d’oro lo stesso.

«Evidentemente al chiodo non basta avere solo il tetto» – disse tra sé Tichon e si mise a costruirgli attorno dei veri e propri muri coi tronchi di legno. Oramai sapeva fare di tutto.

Mentre Tichon costruiva i muri, passò del tempo, ma il chiodo rimaneva sempre così com’era.

«Ma tu, vuoi diventare d’oro, una buona volta, sì o no?» – gridò stizzosamente Tichon.

«Sì, non dubitare. Presto sarò d’oro.»

A Tichon gli occhi uscirono fuori dalle orbite. Sino a quel momento il chiodo era sempre stato zitto e ora, all’improvviso, si era messo a parlare!

«Si vede che ho forgiato davvero un chiodo magico!» – esclamò dentro di sé Tichon. Ma che in quel momento, il mastro-fabbro fosse sdraiato sul tetto non gli venne in mente.

Tichon era troppo giovane, non sapeva ancora mangiare le favole come le nocciole, rompendole coi denti e tirandone fuori soltanto i gherigli. Le ingoiava con tutto il guscio. Proprio come si direbbe da noi, non sapeva mangiare la foglia.

«Quale altra cosa ti serve ancora, chiodo?»

A questa domanda, invece del chiodo, a Tichon nitrì il cavallo.

«I-i-i-i… Come posso campare senza un aratro!.. I-i-i-i…»

«Non nitrire, Bulanko mio, così lamentosamente. Se sono riuscito a guadagnarti, vedrai, molto presto avrai pure un aratro. Forgerò da me un vomere e poi farò con la mia scure delle stanghe, belle lisce.»

Forgiò il vomere, fece le stanghe, sistemò le traverse e non andò a dare neanche un’occhiata al chiodo. Si occupò delle altre faccende che nel frattempo gli vennero in testa.

Tichon fece un semplice ragionamento: «Se il chiodo ha chiesto un collare, il collare un cavallo, il cavallo un aratro, l’aratro sicuramente chiederà un campo da arare».

Attaccò l’aratro al suo cavallo Bulanko. Il cavallo nitriva, l’aratro arava la terra, l’aratore cantava le canzonette.

La gente arrivò in massa sul campo ad ammirare il lavoro di Tichon. Le madri spingevano avanti le loro figlie in età da marito. Non si sa mai, forse la figlia sarebbe potuta piacere al bravo giovane. Sul campo si trovava pure la figlia del mastro-fabbro. Camminava dietro Tichon, come una cornacchia sui solchi della terra appena dissodata. Tutta sporca, spettinata.

«Tichon, caro, prendimi in moglie! Sarò brava ad aiutarti!»

Nell’udire queste parole Tichon si scansò di colpo. L’aratro diede di scarto dall’altra parte. Il cavallo, Bulanko, guardò storto e si mise a guardarsi attorno, spaventato dalla mostruosità della figlia del mastro-fabbro.

«Non sarai impazzita, cornacchia?» – disse Tichon. «A che mi servirebbe una come te! Se non a metterti nell’orto per spaventare i passeri. Ma non ho ancora un orto.»

E lei di rimando: «Ti pianterò un orto e sono pronta a fare da spaventapasseri, pur di vederti, Tichon caro…»

Le sue parole sembrarono assurde al giovane, ma gli toccarono il cuore: «Ma guarda, come mi ama! E’ pronta a fare da spaventapasseri soltanto per vedermi!»

Non rispose nulla alla figlia del mastro-fabbro, ma andò a trovare invece suo padre.

Il mastro-fabbro lo attendeva da tempo.

«Tichon, ti debbo dire una cosa importante: ci sono alcuni invidiosi che vorrebbero togliere il tuo chiodo felice e fortunato, dal tuo palo e piantarlo nel proprio muro.»

«E adesso, mastro Zachar? Cosa devo fare? Si vede, che dovrò mettermi a fare la guardia al mio chiodo.»

«Certo, figliolo, certo» – faceva eco il mastro-fabbro. «Ma come farai a fare la guardia? In autunno piove. D’inverno nevica. Non ci sarebbe altro da fare che costruirsi una casa.»

E Tichon: «Ho appena pensato a quel che hai detto. Vado a costruirmi una bella isba. Una scure ce l’ho, le forze in me ne ho a bizzeffe. Non temo alcun lavoro.»

Di nuovo si raccolse attorno tanta gente. Nuovamente tante ragazze da marito cercarono di farsi notare da Tichon. Ma lui non badò a nessuno, lavorò con la scure tanto energicamente che tremava la Terra e rideva il Sole. La Luna aveva di che rallegrarsi, guardandolo, perché, a discapito di qualche oretta di sonno, Tichon lavorava sino a notte fonda per costruirsi rapidamente una bella casetta.

Arrivò l’autunno. La madre-vedova raccolse il grano. Tichon lo trebbiò, il cavallo Bulanko lo portò al mercato. Col denaro ricavato dalla vendita del grano, comprò le suppellettili casalinghe e portò il tutto nella nuova casa. Tuttavia il chiodo non diventava d’oro. Ma anche l’animo di Tichon era triste, avvertiva un certo peso.

«Come mai, caro figlio mio, hai tutta questa malinconia?»

«Mamma cara, sono solo, ho superato tutti gli altri. Ho lasciato dietro gli amici e i compagni del villaggio. Per me stesso ho piantato solo il chiodo d’oro, nascondendo a loro il segreto della felicità e della fortuna.»

«Ma no, Tichon, non lo pensare nemmeno. Ogni uomo forgia da sé la propria felicità e la propria fortuna. Non è così che ti aveva insegnato il mastro-fabbro?»

«E’ vero!» – rispose il figlio. «Ma, il mastro-fabbro diceva pure che in mezzo alla gente anche il morire è bello e che in solitudine perfino la felicità ammuffisce. Sono stato aiutato da tutti: dal mastro-fabbro, dal mastro-sellaio, dal guardaboschi. Ed io invece?»

Tichon ragionò in questa maniera e andò, col cuore in mano, dagli amici e dai compagni del villaggio. Ne aiutò alcuni con una buona parola detta giusto in tempo, altri con un valido consiglio, a certi diede aiuto con le proprie mani lavoratrici. Ad una povera vedova rifece il tetto di casa. Riparò la slitta di un vecchio. Fece vergognare un fannullone. Indicò ai giovincelli sprovveduti la strada giusta per la vita.

Il chiodo cominciò a diventare d’oro! Cominciò a dorarsi dalla capocchia e la doratura arrivò sino a metà del chiodo. La felicità si affacciò con allegria dentro la nuova casa, fiorì d’amicizia umana.

La gente, a questo punto, non poteva lodare abbastanza il nostro Tichon e, nonostante non fosse ancora un uomo sposato, in segno di rispetto, cominciò a chiamarlo col nome e il patronimico. Persino il chiodo, giorno per giorno, risplendeva d’oro sempre più forte.

«Adesso» – disse il mastro-fabbro alla vedova, – «c’è solo da sposarsi, ma senza sbagliarsi. Perfino senza la luce in casa sarà luminoso!»

«La figlia di chi gli consiglieresti di sposare, in modo che non faccia uno sbaglio?»

«Una sua pari.»

«Ma chi è?»

«Mia figlia, Dunja» – rispose il mastro-fabbro.

«Ah, tu, sporco imbroglione con la faccia nera di fucina, che non sei altro!» – infierì la vedova. «La tua kikimora, quella racchia, sarebbe una sua pari? Sporca, spettinata, a nessun lavoro abituata? E’ lei, secondo te, una sua pari? A lui, fresco come una rosa, mani d’oro, muscoli sodi, spalle erculee, bello come il sole? Ma per carità, di cosa parli? Dove si è mai visto che un’aquila sposi una cornacchia?»

«Dimmi, cara vedova, chi l’ha fatto diventare un’aquila?»

«Come chi? Il chiodo!»

«Ma chi gli aveva suggerito come fare e chi lo ha aiutato a forgiare il chiodo?.. Chi?»

La vedova rammentò tutto ed ebbe dei rimorsi di coscienza. La coscienza non stava zitta, parlava, non le dava pace, ma anche l’affetto materno dettava le sue leggi. Alla madre dispiaceva di fare sposare il figlio con una ragazza così poco attraente ed incapace.

Il dispiacere materno sussurrava nel suo orecchio sinistro: «Questo matrimonio sarà la rovina di tuo figlio!»

La coscienza, invece, nell’orecchio destro ripeteva: «E’ cresciuta senza la madre, la figlia del fabbro, per questo è sciatta ed incapace. Il fabbro, ricordi, si era dispiaciuto per tuo figlio, perciò anche tu devi fare qualcosa di buono per sua figlia.»

«Ascolta cosa ti dico» – disse la vedova al fabbro. «Alla fine dell’autunno, con le prime nevi, il mio Tichon partirà per portare ai lavori stagionali i suoi amici e compagni, ai quali aveva fatto piantare decine e decine di chiodi d’oro della felicità e della fortuna. Rimarrò da sola, quindi, manda tua figlia, Dunja, a casa nostra. Dille, però, che mi dovrà ascoltare e non cercare di contraddire. D’accordo?»

La prima neve imbiancò il villaggio. Tichon partì per portare i suoi amici e compagni ai lavori stagionali per far dorare anche i loro chiodi. Dunja andò a casa della vedova.

«Ho appreso, Dunjaša, per sentito dire, che saresti voluta piacere a mio figlio.»

«Sì, lo vorrei tanto, cara zietta, ma non so come fare!» – scoppiò a piangere Dunja e con le lacrime tutta la sporcizia si sparse sul viso. «Farei qualsiasi cosa per potergli stare vicino.»

«Se è così, proviamo a mettercela tutta. Devi sapere, Dunjaša, che io, come tuo padre, faccio la maga, quando capita.»

La vedova disse questo ed allungò a Dunja un vecchio fuso.

«E’ vecchio, bruttino, questo fuso, Dunja, ma dentro nasconde una forza immensa. Una volta mio nonno, quando era ancora un giovanotto, acchiappò nel bosco Baba-Jaga, la strega-befana, voleva finire la brutta vecchiaccia, ma lei riscattò la sua vita, dandogli questo fuso. E’ un fuso dotato di un grande potere magico!»

«Il suo potere magico, zietta, in che cosa consiste?» – domandò Dunja, guardando di sbieco il fuso.

La vedova rispose: «Se con questo fuso si fila un filo finissimo e lunghissimo, con questo filo si può legare a sé chiunque.»

Dunja si rasserenò ed afferrò il fuso.

«Fammi filare subito, cara zietta.»

«Ma no, cosa dici, Dunja! Non si può mica iniziare a filare con le mani tanto sporche e con la testa così spettinata! Corri subito a casa, fatti un bel bagno-sauna alla russa, pettinati i capelli come si deve, mettiti un vestito carino e solo dopo, quando tornerai, ti metterai a filare.»

Dunja andò a casa, si lavò, si vestì, si pettinò e tornò a casa della vedova: era una bellezza.

La vedova, nel vederla adesso, per poco dalla meraviglia non cadde dalla panca sulla quale stava seduta e subito abbracciò Dunja e le diede un bacio.

«Ma guarda un po’, ma quanto sei bella! E ora, bellezza mia, mettiti a filare.»

Dunja si mise a filare, ma il fuso non girava, il filo non si torceva, il capecchio si tirava a palline e le lacrime scorrevano dagli occhi come grosse perle.

«Non è niente, non è niente, Dunjaša, non perderti d’animo. È stato ancor più duro per il mio Tichon imparare a forgiare, cominciare ad usare una scure, guadagnarsi un collare… Continua, figliola, a filare!»

Un giorno filò, due giorni filò Dunja. Al terzo il filo cominciò a riuscirle.

«Guarda, zietta! Ora potrò sicuramente legare a me Tichon!»

Ma la vedova diede un’occhiata al chiodo, fece un sorrisetto a qualcosa di suo e disse: «Con un filo come questo, non lo leghi. Con un filo come questo si potrebbe al massimo tessere la tela grossa e ruvida dei sacchi. Continua, ragazza mia, a perfezionarti e a imparare bene il mestiere.»

«E quando, zietta, saprò d’aver imparato bene?»

«Quando questo vecchio fuso inizierà a diventare d’oro.»

Dunja si mise a filare con più zelo di prima. Filava una matassa dietro l’altra, ma il vecchio fuso così come era, così rimase. Dietro le finestre era arrivato un gelo micidiale, fuori turbinavano le tormente di neve, ma al fuso non diveniva d’oro nemmeno una punta.

Dunja filò l’intero capecchio e scoppiò in un pianto.

La vedova si precipitò a consolarla.

«Non struggerti, cara figliola. Si vede che il vecchio fuso non è più docile del chiodo di mio figlio Tichon. Sarà che non gli bastano solo i fili filati, forse sta esigendo anche la tela. Mettiamoci, bella mia, a tessere!»

«Ma cosa dici, zietta cara! Se tessiamo tutti i fili in tela, con che cosa legherò a me tuo figlio Tichon?»

La vedova rispose: «Un filo nella matassa è un filo, tessuto nella tela è una forza!»

All’approssimarsi della primavera Dunja aveva consumato tutti i fili per tessere una tela. Ricavò tanta tela, ma non sapeva cosa farne.

«Adesso, Dunjuška dovresti cucire una bella camicia a casacca. Non appena Tichon la metterà, sarà subito tutto tuo.»

Dunja si mise a fare un mestiere nuovo. Dove non riusciva, la vedova volentieri le dava una mano, ma spesso ci arrivava da sé.

Riuscì a cucire una bella camicia a casacca, ma non aveva nulla che potesse suscitare uno sguardo interessato: tela, era tela e nient’altro.

Questa volta Dunja non chiese nessun consiglio alla vedova, pensò da sé a come fare per far diventare più bella la camicia. Comprò fili di seta, perline multicolori, fili d’oro e d’argento e si mise a ricamare la casacca cucita.

Né le mani, né la mente, ma l’amore puro, vero, tracciò un disegno ardente sulla pistagna e sui polsini delle maniche della camicia a casacca. Fioriva di rosso papavero. Luccicava d’oro. Risplendeva con riflessi d’argento. Brillava di perline lucenti.

La vedova diede un’occhiata alla camicia e ci mancò poco che perdesse la favella. L’arabesco del ricamo le abbagliò la vista e le strinse il cuore.

«Il fuso deve diventare subito d’oro!»

La vedova prese il fuso e corse dal mastro-fabbro di nascosto.

«Svelami, caro pronubo, imbroglione mio con la faccia nera della fucina, con che cosa hai dorato il chiodo a Tichon?»

«E a te a cosa serve?»

«C’è bisogno di dorare un fuso.»

«Mi vorresti dire che anche mia figlia è arrivata ad essere una maestra fine?»

«Dovresti venire a vedere che camicia ha cucito e che splendidi arabeschi ha ricamato. Perfino un principe potrebbe abbagliare!»

Il mastro-fabbro aprì un baule, tirò fuori una miscela d’oro e si mise a dorare il vecchio fuso.

«Non andare al risparmio, furbacchione! Doralo ben bene con uno strato spesso da una punta all’altra. La figliola se lo merita davvero» – diceva la vedova e intanto metteva fretta al fabbro: desiderava quanto prima dare gioia a Dunjaša.

Dorarono il fuso e, entrambi, come dei giovincelli, corsero saltelloni a guardare la camicia a casa della vedova.

Si avvicinarono all’isba, videro il portone spalancato, nel cortile stava il cavallo Bulanko di Tichon. Entrarono nell’isba e dentro l’isba si distinse Tichon con la sua bella camicia nuova, che non riusciva a staccare gli occhi dalla sua Dunja.

A questo punto il mastro-fabbro levò dal muro il chiodo d’oro, la vedova tolse dalla manica il fuso d’oro e, con questi, fidanzarono i promessi sposi.

La casa colonica fu strapiena di amici compagni e tanta gente. Accorsero tutti. Ad ognuno faceva piacere assistere alla grande felicità e alla fortuna di Tichon… Perché a nessuno negò un chiodo d’oro e la doratura scaltra e ingegnosa del mastro-fabbro si trasformò in verità e realtà alacre. Per tutti. Per chiunque. Vieni e prendi! Pianta il tuo chiodo d’oro, se hai delle mani…

[Traduzione di Tatiana Bogdanova Rossetti]

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