Si parte con i Lineamenti della cultura letteraria salentina durante la preponderanza spagnola (pp. 3-21): Vallone mette in evidenza che “tutta la storia politico-sociale e culturale del Salento si muove in perfetta corrispondenza con quella più generale del Regno di Napoli” (p. 5), dove domina “una tipica letteratura … di riverenza e di ossequio” (p. 11). Piacciono nel critico galatinese questi passaggi sintetici, in cui, dopo un’analisi dettagliata, si definisce e risolve in breve una questione. A proposito di Scipione Ammirato che nel 1659 lascia Lecce per Firenze, Vallone scrive: “Al canto dell’amicizia, al sano orgoglio di sentirsi un trasformato, subentra l’encomio, l’ossequio”, concetto ripreso più avanti, nelle Rime giovanili inedite di Scipione Ammirato (pp. 51-168): “L’Accademia [dei Trasformati di Lecce] è per l’A. un momento felice della sua vita e fertile per la sua produzione” (p. 76). E si legga poi il II capitolo intitolato Di taluni aspetti del petrarchismo napoletano con inediti di Scipione Ammirato (pp. 27-49), nel quale fa capolino il Vallone storico della critica dantesca. Non solo Petrarca infatti è “modello di lingua” per i poeti meridionali, ma in essi è possibile anche rinvenire “un filone di dantismo accanto a quello del petrarchismo” (p. 37).
Nel capitolo IV, Ascanio Grandi e i Poemi Sacri del Seicento (pp. 169-200), Vallone traccia un profilo dell’opera del poeta leccese. A proposito del poema eroico Tancredi, segnala “lo spirito encomiastico” (p. 174) e l’ispirazione “sostanzialmente accademica e letteraria” (p. 187), mentre ritiene che nel poema sacro Il Noè occorra ricercare “la fisionomia complessiva del nostro poeta”(p. 186).
Il capitolo V è dedicato a Il Risorgimento salentino-napoletano nelle parti ripudiate delle “Memorie” di S. Castromediano (pp. 201-321). Il duca di Cavallino è “un moderato”, egli sentì “la necessità storica della monarchia piemontese. Il moderato di ieri, per istinto, carattere ed educazione, diviene, dopo, il moderato per convinzione politica” (pp. 203-204).
Infine, con piacere si legge il VI capitolo intitolato Cesira Pozzolini-Siciliani e Giosue Carducci (pp. 323-330): il poeta di Valdicastello scrive una lettera all’amante Lina in cui parla dei suoi amici e ospiti bolognesi, Cesira e Pietro Siciliani: Cesira è dotata di “un naso un po’ lungo” e “non capisce nulla in poesia”; lei e il marito “tormentano spesso un pianoforte”; e poi Cesira è “una buona donna, salvo la pedanteria”, ecc. Dalle piccole umorali cattiverie di Carducci, Vallone trae spunto per ricostruire i rapporti tra Pietro Siciliani e Cesira Pozzolini e tra questi e Carducci, concludendo che le maldicenze contenute nella lettera a Lina sono “insincere” ovvero scritte sull’onda della polemica carducciana contro i pedanti, che costituiscono il vero oggetto della sua critica: “l’insincerità della lettera è appunto per questa passione, che si pone un tema dominante da combattere: la pedanteria” (p. 327); in cui rimane coinvolta l’ignara Cesira e, di riflesso, suo marito. Vallone sa che Cesira non “meritava simile asprezza”, ma è troppo buono nel fornire qualche motivazione (l’insofferenza della pedanteria) al Carducci. Il fatto è che il peggior peccato dei letterati è la maldicenza – le chiacchiere, si sa, portano come compagna la maldicenza -, e il Poeta evidentemente non ne era esente.
Insomma, come si comprende, si tratta di un volume ricco e gustoso, in grado, dopo più di mezzo secolo dalla sua prima pubblicazione, di suscitare l’interesse del lettore, il che rende meritoria la sua riproposizione.
[“Il Galatino” del 22 marzo 2013]