Quando si parla di volo non si vuole intendere una distanza dalle cose concrete. La poesia di Cappello è ricca di oggetti, un elenco di oggetti che vengono visti e che nei suoi versi ci investono con l’odore del mondo come se il poeta avesse sviluppato un’attenzione animale a compensare il suo limite corporale, e questa fatica rende straordinariamente vicina e reale la sua poesia. Onesta fino a essere brusca.
“Scrivo per te parole senza diminutivi/senza nappe né nastri, Chiara”. È il verso di una poesia scritta per la nipotina. Il poeta pretende cose chiare perché a sua volta dice cose chiare. Ma la poesia di Cappello pretende anche un tono affabile, narrativo. “La prima modalità del suo fare ha un carattere musicale. Cappello non abbandonerà mai questa attitudine, né la riflessione su di essa, ma in un secondo momento la riassorbirà dentro un orizzonte esistenziale più ampio e più complesso. Musica non vuol dire ‘musicalità’, ovvero ‘orecchiabilità’, ma specifica integrazione delle possibilità che offre lo strumento nelle figure di suono espresse in una sequenza di tempo… Si tratta di una poesia che accompagna al grande nitore espressivo – che resterà la cifra primaria del poeta di Chiusaforte – una forza di coesione semantica e una concentrata ricchezza di suoni che non è possibile ignorare”.
(Gian Mario Villalta, pag. 28).
Uno degli elementi fondamentali nella poetica di Cappello è quello della “modernità”. Per il Friuli l’inizio della modernità è coinciso con la prima guerra mondiale.
“Mi descrisse alcuni episodi di comportamento abietto e disumano di Gabriele D’Annunzio, un poeta che, credo, stimasse molto poco. Amava, invece, Giuseppe Ungaretti che, dall’esperienza della Grande guerra, aveva intuito quali erano i paradigmi della modernità: la riduzione degli uomini a cose, la meccanizzazione della vita e l’insensatezza” (Franco Fabbro pag. 99).
La fine della civiltà rurale in Friuli combacia con un cambio della realtà topografica e con la costruzione, negli anni ’70, di un’autostrada che in breve tempo avrebbe portato a Nord. “Invece non c’è chi non veda/come l’autostrada ha tagliato la pancia della valle/ e la gola di chi è rimasto”. Quello che era un mondo umano si era trasformato in un mondo di solitudine.
Scrive da una terra di confine, Pierluigi Cappello. Il cielo è basso e si sente forte la presenza della montagna che corona il paesaggio, e di quella terra straniera poco più in là dove l’Italia finisce. Soffriva molto la perdita della grazia nei rapporti e con la sua poesia tenta di ricucirla in un’intenzione di coralità e di fissazione, di istante e di eterno, di uomo con uomo.
Il linguaggio e la scrittura esistono soltanto nel confronto con il silenzio e lo spazio bianco di un foglio. Su questo Cappello insisteva: le parole sono materia molto strana composte da suono e da silenzio. La parola umana deve essere intesa come presenza fatta di assenza. Una parola, mentre viene adoperata, rende testimonianza di un’assenza. “Fra l’ultima parola detta/e la prima nuova da dire/è lì che abitiamo”.
Scrivere in friulano comportò per Cappello una riflessione sui perché di una scelta (l’italiano era la lingua dentro la quale egli stesso aveva raggiunto la dimensione del fare poesia). Leggere Pasolini, che aveva già usato in forma poetica il friulano – lingua considerata minoritaria – raccontare una realtà, nominare oggetti da lavoro, erbe dei campi, alcuni modi di dire, tutto questo consentiva di elevare ancora di più non solo la lingua ma anche la dignità di un ricordo.
Nel saggio “Pierluigi Cappello, educare alla libertà. Un’intervista” il regista Marco D’Agostini (per il documentario “I volti spirituali del Friuli”) raccoglie dal poeta la seguente testimonianza : “Quando andavo alle elementari, la maestra parlava in italiano ma tutti noi bambini ci facevamo dispetti e parlavamo segretamente in friulano. Però l’italiano è sempre stata la lingua ufficiale, anche alle medie quando ho iniziato a leggere l’Illiade, l’Odissea, e poi Svevo, Pirandello, Ungaretti, Montale. Tutti erano stampati nero su bianco in italiano. Quando sono arrivato a vedere per la prima volta poesie scritte in friulano da un certo Pier Paolo Pasolini ho pensato: ‘Ma è possibile? In friulano! La mia lingua!’ Allora ho capito che era una cosa importante vederla stampata anch’essa nero su bianco con il carattere dell’ufficialità… perché un libro, soprattutto per gli occhi di un bambino, è un’istituzione… Vedere il friulano dentro questi marmi dell’istituzione mi è parsa una cosa sconvolgente”. (Pag. 60 – 61)
Nonostante una condizione fisica difficile, Pierluigi Cappello rimase sempre una persona libera, capace di gioire della vita attraverso l’espressione di un sentire autentico. Libero e disarmato davanti a panorami lucenti che lo portarono a pensare alla poesia come gratuità di gesto e di invenzione.
“Nei boschi dove andiamo si dice con lo sguardo”.
Quando ci si accosta a un poeta, un poeta vero, cambia il nostro punto di vista sul mondo. Può essere destabilizzante se si vuole, soprattutto quando si è abituati alla diffidenza, al sospetto, alla disattenzione.