La poesia dialettale di Nicola G. De Donno

         Le relazioni, che  qui vengono pubblicate secondo l’ordine di presentazione, prendono in esame l’intera produzione poetica di De Donno, dalla prima raccolta, Cronache e paràbbule, del 1972, fino all’ultima, Filosofannu? Cu lle vite, la Vita? Ma la Vita è scura, apparsa nel 2002, ma non trascurano nemmeno altri aspetti della sua attività, come quello dello studioso  di storia locale, nonché  la sua tecnica scrittoria.  Per questi motivi, il presente volume si configura come lo strumento di studio attualmente più completo esistente sulla sua opera  e un punto di riferimento imprescindibile per coloro che vorranno occuparsene in futuro.

Nel suo intervento introduttivo, Giovanni Tesio ha messo in luce alcuni nuclei essenziali della poetica di De Donno, da lui definito «personalità poetica di solida rilevanza». Sono emersi così il rapporto con la sua terra (la «residenzialità»), il legame con la tradizione, la consapevolezza metapoetica, la densità filosofica del suo dettato, il fondo di moralità e di rigore civile. Poi ne ha ripercorso la «parabola» individuando varie fasi: prima quella della protesta, della denuncia, dell’invettiva; poi, negli anni Settanta, un confronto «con gli statuti metapoetici della poesia nel suo farsi»; infine, negli anni Ottanta-Novanta, un «pur contraddittorio e contraddetto esercizio di riflessione esistenziale, di nichilistica contemplatio mortis».

         Emilio Filieri si è occupato della prima raccolta di De Donno, Cronache e paràbbule, in cui la sua poesia sembra nutrirsi di un sentimento di inappagatezza dinanzi all’eguaglianza attesa, e di un senso di profonda insoddisfazione a fronte dell’idea di giustizia più volte immaginata. Da qui la sapida ironia e la satira pungente delle «parabole» di De Donno che assumono valore gnomico, di conoscenza metatemporale, fondata sulla convergenza di lunghe e trasversali esperienze, insieme intime e storiche.

Nel contributo di chi scrive la presente nota, invece, si analizzano gli ultimi due libri di versi,  Palore (1988-1998) (1999) e Filosofannu? Cu lle vite, la Vita? Ma la Vita è scura (2002), caratterizzati da una assillante riflessione sulla condizione umana, sul senso della vita. In Palore emerge una sconsolata visione dell’esistenza, priva di senso, dell’uomo, sulla quale incombe minacciosa, fin dalla nascita di ciascun individuo, l’ombra della morte. Nell’altra raccolta, in questo assoluto nichilismo, sembra aprirsi uno spiraglio in direzione di un vitalismo nuovo, privo però sempre di una prospettiva teleologica e inesplicabile per la mente umana. A una concezione così totalmente negativa fa riscontro una materia poetica estremamente ricca, vitale, che sembra contraddire almeno in parte quegli assunti. De Donno dispiega, infatti, nelle raccolte un grado elevatissimo di perizia retorica, linguistica, metrica.

Si ritorna indietro con l’intervento di Maria Teresa Pano, che focalizza l’attenzione sulla raccolta Paese (1979), nella quale sono  sviluppate  le tematiche principali della poesia di De Donno: il paese, il palazzo e l’io. Al centro dell’immaginazione del poeta magliese c’è ora l’evocazione del  paesaggio salentino, che diventa, alla maniera montaliana, il correlativo oggettivo della sua condizione. Nel paesaggio, egli ritrova infatti la propria geografia interiore, tendendo a costruire un ambiente fisico che sia il riflesso del proprio io, dei propri sentimenti.

Walter Vergallo,  nella sua relazione, si sofferma su «l’epos dell’umile», in cui il dato materiale, la cosa, la storia si slargano in una prospettiva metafisica, che trascende il fenomenico e si apre al simbolo, superando una visione autobiografica e frammentistica della poesia. Nella parte centrale e in quella finale del contributo, la poetica dell’umile si divarica in  due ambiti di investigazione: l’io-noi-paese «ggente bbassa», agente soprattutto in Crònache e parabbule e in Paese, in cui si delinea la visione democratica che De Donno ha della storia, e l’io-noi-guerra, filtrato nelle due opere fondamentali, La guerra de Uṭràntu (1988) e Lu Nicola va a lla guerra (1994).

Simone Giorgino prende in esame  proprio  la raccolta La guerra de Uṭràntu, la prima  pubblicata da De Donno presso un importante editore nazionale, «All’insegna del pesce d’oro» di Vanni Scheiwiller, nel 1988, con cui si inaugurava la «Piccola biblioteca di Otranto»,  diretta da Maria Corti. L’invasione turca e l’eccidio otrantino del 1480, già al centro di un’altra importante opera dialettale salentina, Li martiri d’Otrantu di Giuseppe De Dominicis (il Capitano Black) sono rappresentati da De Donno come un’epopea della gente semplice, la genticedda, il cui sacrificio è considerato un momento fondante dei valori della comunità locale.

Anche Fabio D’Astore mette al centro del suo intervento il tema della guerra, che compare in ben due libri di poesia: La guerra guerra (1987), una corona di nove sonetti più quarantacinque quartine di ottonari per un totale di 323 versi e Lu Nicola va alla guerra, un poema di ben 1871 endecasillabi, raccolti in 33 lasse di varia lunghezza. In entrambe le raccolte  questo tema  risulta centrale e viene declinato in tutte le sue varie forme e complicazioni, coagulando le componenti essenziali della poesia e della poetica dedonniane.

Dal canto suo, Vittorio Zacchino, nel suo contributo che vuole essere anche una testimonianza in ricordo dell’amico storico-poeta, ritorna sul tema, condiviso da entrambi attraverso studi e ricerche, della ricostruzione storica e dell’interpretazione poetica della vicenda otrantina del 1480. Pur da angolazioni diverse, emerge il tentativo di innalzare questa vicenda che si snoda attraverso l’appassionata difesa di Otranto da parte dei suoi abitanti e il martirio della sua genticedda, strumentalizzata per secoli, a modello di identità nazionale.

La relazione  di Antonio Romano, invece, affronta un aspetto ancora poco studiato della ricca produzione in dialetto salentino di De Donno e cioè la sua tecnica scrittoria in termini di norma grafica e di ricerca linguistica. I suoi scritti, infatti, rivelano una chiara determinazione dell’autore a definire un insieme coerente e rigoroso di convenzioni di rappresentazione del dialetto magliese e salentino in generale. L’articolo, in particolare, esplora sommariamente alcune scelte normalizzatrici che appaiono nell’opera di quest’autore che,  oltre a fornire uno dei migliori modelli di scrittura dialettale, raccoglie anche una quantità considerevole di preziose attestazioni d’uso del dialetto salentino in diversi stili e generi.

Chiudono il volume due testimonianze. La prima, di Anna Grazia d’Oria, che ha pubblicato De Donno con la sua casa editrice, Piero Manni, si sofferma in particolare sull’impegno civile, sulla scelta di campo del dialetto e del sonetto nella scrittura poetica, sul messaggio non velato delle poesie che esigono lo scatto della riflessione e la partecipazione del lettore. La seconda testimonianza, della poetessa  Maria Rita Bozzetti, è basata invece sulla sua  lunga frequentazione con  De Donno, che  per lei  è stato Maestro di scrittura e di vita.

[Prefazione a La poesia dialettale di Nicola G. De Donno. Atti della Giornata di Studi (Maglie, Lecce, 18 aprile 2015), a cura di A. L. Giannone,  Lecce, Milella, 2016]

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