Scritti scolastici e sociali – Anno 2014

In quella lucidissima, complessa, complessiva interrogazione sul tempo che viene fatta nelle Confessioni, Agostino dice che è nell’anima la misura del tempo, nell’impressione lasciata dalle cose mentre passano e che dura anche quando sono passate. Poi dice: “E allora: o questo è il tempo, o io non misuro il tempo”.

L’anno vecchio e l’anno nuovo sono solamente figure di consapevoli convenzioni, perché appartengono allo stesso caos straordinariamente ordinato del tempo, allo stesso corso regolare del suo fiume.

Ripensiamo a quella parte di fiume che abbiamo attraversato, immaginiamo la parte che ci resta da attraversare, ma l’acqua che sentiamo sulla pelle è quella che ci sta bagnando in quel momento.

Il tempo che avvertiamo sensibilmente è soltanto il tempo presente, il nostro transitare in questo tempo. Abbiamo perfino poche possibilità per fermarci a riflettere, perché siamo completamente travolti dall’ansioso andirivieni, da tutto uno sfaccendare, un affannarsi qualche volta anche inutile, molto spesso necessario; guardiamo contemporaneamente l’anno che se ne va, quello che ci si presenta davanti: a volte con nostalgia, altre volte con sollievo, a volte con timore, a volte con speranza. Molto spesso abbiamo nei confronti del tempo che ci lascia un pensiero contraddittorio, quantomeno ambivalente. Per qualcosa proviamo il dispiacere che finisca, per altro è come se ci liberasse da un’angoscia. In fondo è questa la relazione che stabiliamo con il tempo, in generale. I ricordi che abbiamo ci fanno a volte bene e a volte male. Se l’ultimo giorno dell’anno ci mettessimo a recitare la parte del venditore di almanacchi leopardiano e provassimo a chiedere alle persone che conosciamo se sono contente o no che l’anno se ne stia andando, probabilmente molte ci risponderebbero che sì, sono contente. Forse per una ragione anche abbastanza semplice: se è vero che abbiamo le radici affondate nel passato, è anche vero che avvertiamo una tensione irresistibile verso il futuro.

Di ogni anno che va ci restano sensazioni, emozioni, sentimenti, piaceri, dispiaceri. Verso ogni anno che viene proviamo speranze, desideri.

Forse allo scadere di ogni anno, ma anche allo scadere di ogni giorno, di ogni ora, si dovrebbe ripensare a quei versi di Jorge Luis Borges che dicono, saggiamente, amicalmente: “Vedere nel giorno o nell’anno un simbolo/ dei giorni dell’uomo e dei suoi anni,/ convertire l’oltraggio degli anni/in una musica, un rumore o un simbolo”.

Forse si dovrebbe ripensare a questi versi per convincersi che non c’è altro tempo che quello che ci appartiene, dal quale proveniamo e verso il quale andiamo, che non ci sono altre stagioni se non le nostre stagioni, che la memoria è solo la nostra memoria, che tutto, in fondo, ha la misura di un’emozione. Che l’oltraggio degli anni possiamo convertirlo in un’armonia.

Forse il passaggio da un anno ad un altro possiamo percepirlo soltanto attraverso il nostro divenire diversi da quello che siamo o che crediamo di essere. Dice Martin Heidegger che la domanda “che cos’è il tempo” dovremmo trasformarla in “chi è il tempo?”, con l’ulteriore precisazione: “sono io il mio tempo?”. Perché c’è un tempo dentro di noi: profondo, abissale, che raramente riusciamo a comprendere davvero. E’ questo il tempo significativo, pregnante. Si potrebbe chiamare tempo dell’anima, tempo del cuore, del sentimento e della ragione annodati nella sintesi essenziale dell’esperienza di esistere, in una condizione che contempera la memoria e la proiezione nel futuro vissute e interpretate attraverso l’emozione del presente. Un giorno forse la scienza potrà riuscire a svelare anche il mistero più profondo del tempo. Ma forse non avrà parole, né numeri, né segni per poterlo raccontare, perché potrebbe essere scritto in una lingua del divino che gli uomini non potranno mai imparare.

Noi, qui, ora, possiamo soltanto dirci con semplice sincerità: Buon Anno.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di giovedì 2 gennaio 2014]

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La conoscenza viaggia sui libri non su internet

Avevo messo da parte per leggerlo con attenzione l’articolo di Ferdinando Boero su internet e cultura uscito qualche giorno fa su questo giornale. Ha ragione su tutto Boero: sulla necessità – per tutti e per le generazioni che vengono in particolare – di possedere una pluralità di strumenti di accesso al sapere e sulla indispensabilità di sottoporre a verifica gli esiti di qualsiasi ricerca che si conduce tanto attraverso i libri quanto attraverso la rete. Ha ragione anche quando dice  che talvolta mi provoca fastidio non l’uso di internet, certamente, ma l’abuso, che fa male. Anche l’abuso di libri fa male, non c’è dubbio: tanto che l’hidalgo  Alonso Quijano si trasforma in Don Chisciotte della Mancia  per la follia che gli provocano i  romanzi di cavalleria.

Ho letto il pezzo di Boero, dunque, con il solito interesse e il solito piacere con cui leggo quello che scrive, e durante la lettura  pensavo al mare.

Si sa che tutte o quasi tutte le cose, sia della natura che della cultura, hanno una superficie e una profondità. Di questa condizione l’antica e straordinaria metafora è costituita dal mare.

Chi entra in acqua e rimane in superficie, percepisce ma non conosce il mare. Chi va in profondità conosce il mare o, comunque, conosce senza dubbio molto di più, perché vede quello che l’altro non vede, anche se non potrà conoscere mai del tutto il mare, anche se il mare non rivelerà mai a nessuno tutti i suoi segreti, come non lo farà la terra, come non lo farà il cielo. Probabilmente. Perché poi la scienza esiste per violare i segreti.

Restare in superficie esclude la conoscenza delle cose, dunque. Dà sensazioni ma non saperi.

La differenza che c’è fra una cultura conformata da  internet e una strutturata dai libri, è la stessa che c’è fra la superficie e la profondità del mare.

Così chi limita il proprio rapporto con le cose della cultura a quello che propone la rete, può avvertire sensazioni, percezioni – emozioni forse no- ma non conosce quelle cose.

Per conoscerle ci vogliono i libri. I libri sono la profondità. Con i libri si può arrivare alla sostanza e all’essenza delle cose, anche se, al modo in cui accade con il mare, di alcune non potranno rivelarne i segreti completamente.

La conoscenza è generata sempre da una domanda; poi, solitamente, la risposta alla domanda a sua volta pone una domanda ancora, fino ad arrivare alle domande che non hanno una risposta: quelle che riguardano le cose prime o le cose ultime, per esempio.

Ecco. Internet non pone domande. Internet fornisce risposte immediate, che non rinviano ad altre domande. Non ha dubbi, non può averne. Ma esiste una conoscenza senza dubbi? Soltanto la conoscenza attraverso la fede esclude il dubbio.

E’ vero che su internet si possono trovare molti libri senza andare ramingando per le biblioteche, quelli che non si trovano nelle librerie o che se si trovano costano tutti e  due gli occhi della testa, che si possono leggere tutti i giornali, che si possono vedere film vecchi e nuovi, e ascoltare tutte le canzoni.

E’ vero, ed è bellissimo, e per questo sia benedetto internet che  in parte ha realizzato la biblioteca infinita che sognava Jorge Luis Borges, quella che contiene tutti i libri, la storia minuziosa dell’avvenire, la traduzione di ogni libro in tutte le lingue.

Internet serve a risolvere tanti problemi, ha ragione Boero. Ma mentre Boero carica sul suo computer 17.000 titoli – perché di quei libri ha bisogno – altri lo utilizzano per l’informazione usa e getta. Ma l’informazione non è la conoscenza. Aveva ragione  Thomas Eliot quando diceva: prima abbiamo barattato la saggezza con la conoscenza; poi la conoscenza con l’informazione. Il  processo di costruzione del sapere ha bisogno di sistematicità, di costanza, di valorizzazione dell’ esperienza, di strutturazione di forme di pensiero, di radicamento e di  consolidamento degli apprendimenti.

La conoscenza pretende profondità, riflessione, anche ripensamento molte volte; presuppone la capacità di stabilire connessioni tra fatti e fenomeni anche distanti nel tempo e nello spazio. La conoscenza è il processo di riconduzione ad unitarietà dei frammenti degli oggetti culturali, di attribuzione ad essi di una coerenza e di una coesione. E’ una visione d’insieme che permette l’analisi dei particolari; l’analisi dei particolari consente di  individuare la relazione tra di essi e quindi la comprensione del senso complessivo e della complessità del senso. Tutte queste cose si sanno.

Guardavo quell’incantesimo di pietra che è la facciata di Santa Croce, qualche sera addietro, e pensavo, come tutte le innumerevoli volte che l’ho guardata, che quella meraviglia non si può comprendere veramente soltanto osservandola a distanza. Bisognerebbe prima guardarla nel suo insieme, poi esaminare ciascuna delle sue pietre, e poi tornare a guardarla  nel suo insieme con il carico di significati di ogni singola pietra.

Solo in questo modo si potrebbe avere una conoscenza compiuta del suo senso e quindi una consapevolezza profonda della sua bellezza. Poi ci vorrebbe anche una conoscenza del tempo e della temperie culturale in cui è stata generata.

Ma osservare tanto l’insieme quanto ogni particolare di Santa Croce, e poi collocare il tutto nel suo contesto,  è un’esperienza che  può fare soltanto lo studioso. Per gli altri si tratta di trovare una mediazione, uno strumento che consenta non una conoscenza diretta ma mediata.

Non saprei dire se internet ha la possibilità di consentire una conoscenza mediata; se ce l’ha, io non ho saputo trovarla. Posso dire che l’ho trovata nei libri, e siccome ogni libro rinvia sempre ad altri libri, ho trovato anche l’interpretazione fantastica di Carmelo Bene relativa al contrasto fra l’esterno e l’interno di Santa Croce.

Forse non è neanche questa la profondità ma certamente non è la superficialità delle informazioni offerte da internet.

Allora forse dobbiamo chiarire a noi stessi quali sono i bisogni – oppure i desideri –  che abbiamo in questo tempo: se vogliamo bagnarci in superficie o se vogliamo scendere a esplorare i fondali, se delle cose della cultura ci basta l’informazione sbrigativa o se ci serve una conoscenza profonda, quella che di un filo d’erba riesca a far vedere le radici.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di lunedì 13 gennaio 2014]

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Il senso del merito nell’epoca dei test

In fondo è una parola dal significato abbastanza semplice. Merito, dicono i dizionari,  è il diritto alla gratitudine, alla ricompensa, alla stima, che si ottiene in virtù delle proprie doti e per le opere compiute.

Però quando questa parola è messa in relazione ai processi e, soprattutto, agli esiti di apprendimento, ai contesti e ai contenuti della formazione, alle sue finalità e ai suoi obiettivi, si carica di complessità, di riverberi, di stratificazioni semantiche; il suo significato richiama soprattutto il senso, che è una delle possibili realizzazioni del significato; pretende e impone una serie di interrogativi.

Merito per cosa, rispetto a chi, in base a quali condizioni, tenuto conto di quali prerequisiti e presupposti, in riferimento a quali strumenti di verifica, a quali criteri di valutazione; un merito oggettivo o un merito soggettivo, come risultato di una comparazione con le virtù e le opere possedute e realizzate dagli altri oppure con quelle possedute e realizzate da se stessi.

Il senso – i sensi – della parola merito – talvolta nella sua proiezione di eccellenza – è uno di quei nodi che la scuola tenta di sciogliere, da più o meno vent’anni a questa parte, ma che in talune circostanze – come i risultati degli esami di maturità (con il loro rituale strascico  di polemiche tra Nord e Sud) o quelli dei test Invalsi, si stringono ancora di più.

Valutare il merito è una di quelle formule che in qualche caso vengono impiegate come slogan, in altri casi come sintesi di posizioni e impostazioni pedagogiche.

Valutare il merito. Certamente, giustamente.

Ma gli interrogativi di fondo si fanno sempre più pressanti, i metodi da adattare pongono tanti più dubbi quanto più sono i risvolti, di ordine anche pratico ( come il bonus maturità), che la valutazione del merito produce.

Fra le tante cose che si possono dire, ci sono anche tre scene provenienti dalla letteratura.

La prima è una frase che Franz Kafka annota nei “Quaderni in ottavo” : “ l’unica capace di giudicare è la parte in causa, ma essa, come tale, non può giudicare”.

Qualcuno potrebbe anche obiettare che Kafka non avesse competenze di pedagogia, psicologia, docimologia. Ma la smentita viene dalla straordinaria “Lettera al padre”, che quindi invalida immediatamente l’obiezione. Di conseguenza la sua affermazione merita una riflessione per nulla superficiale.

Dunque: l’unico soggetto che può valutare sia un processo che un risultato di apprendimento è lo stesso soggetto che realizza il processo e consegue il risultato. Probabilmente per il fatto che è l’unico in grado di considerare tutti gli elementi che hanno interagito, tutti i fattori che hanno condizionato l’apprendimento, in senso positivo o negativo: per esempio, il docente, l’ambiente, la motivazione, il tempo, il grado di attenzione, la propria predisposizione, le situazioni che hanno determinato l’attrazione o la distrazione.

Né si può dire  che lo studente non sia capace di valutare se stesso, a qualsiasi età. Sa perfettamente se e quanto ha appreso di qualcosa, conosce anche i motivi per i quali ha appreso oppure no, perché in modo completo o incompleto; sa – o comunque percepisce – se un percorso diverso, un altro metodo gli avrebbe consentito di apprendere di più, in maniera più adeguata.

In un tempo di ricerca di un sistema funzionale – e il più possibile condiviso da tutti i soggetti interessati – di valutazione degli apprendimenti degli studenti, ora che si sta tentando anche di intervenire con degli assestamenti nelle modalità adottate dall’ Invalsi, probabilmente si dovrebbe considerare l’opportunità  di consentire   anche alla parte in causa di prendere parte. Perché, come diceva Kafka, è l’unica parte in grado di giudicare, forse anche per il fatto che l’autovalutazione è la valutazione più efficace.

Lo studente giudica se stesso e gli altri, comunque. Anche dopo, a distanza di anni.

Come giudica Gerhard. E’ la seconda scena. Gerhard è un bambino che compare in un libro di Peter Bichsel: un libro molto serio dal titolo un po’ buffo: “Al mondo ci sono più zie che lettori”.

Gerhard viene bocciato all’esame di ammissione alla scuola superiore. Quindi passa ad un altro insegnante e si trasforma nell’allievo migliore. Diventa ingegnere. Dice Bichsel: quando mi incontra sogghigna; tutte le volte che lo incontro mi vergogno.

Gerhard è uno che non è stato messo nella condizione di prendere parte alla propria valutazione. Nessuno gli ha chiesto un’opinione sul motivo per il quale il suo profitto andava rasoterra.

Quando Bichsel scrive queste cose in una prefazione dell’edizione tedesca alla “Lettera a una professoressa” di Lorenzo Milani, è il 1970.

Non è cambiato niente.

L’altra scena viene da un romanzo di Peter Hoeg. Un romanzo più bello del “Senso di Smilla per la neve”: s’intitola “I quasi adatti”.

“Eravamo al parco giochi, lei era salita sulle rotaie. Si trovava forse a un metro da terra. Da lì mi gridò: guardami. Non fui io a rispondere, non feci in tempo. Fu una donna sconosciuta, anche lei lì con il suo bambino. ‘Come sei brava’ disse. Mi alzai senza pensarci, stavo per andare a staccarle la testa. (…) La bambina aveva chiesto attenzione. Aveva solo chiesto di essere guardata. Ma aveva ricevuto una valutazione. Come sei brava”.

Ecco. Non si può pretendere di valutare tutto. Non tutto deve rispondere a una valutazione. Poi, ci sono aspetti della personalità, particolarmente, ma ci sono anche conoscenze e competenze e abilità, che non possono essere valutati o dei quali non si può avere un riscontro nell’immediato, che non di rado si manifestano anni dopo. Per esempio sono quelle espressioni del sapere che determinano le visioni del mondo e della vita, le personali decifrazioni e interpretazioni delle cause e degli effetti dei fatti della storia; sono le idee che si hanno riguardo se stessi e gli altri e le relazioni fra il sé e l’altro da sé; sono comportamenti che si acquisiscono e che determinano la qualità dell’essere e dell’agire.

Non c’è test, non c’è voto,  con il quale si possa misurare questo sapere. Ma questo sapere è fondamentale, essenziale, per l’esistenza di ciascuno e per quella di una società.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di martedì 21 gennaio 2014]

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Il difficile compito di ricordare cos’è il male  

Quanto più le storie si fanno lontane, tanto più si ha bisogno di ricordare. Quando vanno via gli uomini, le donne, che hanno attraversato  quelle storie, può accadere che l’onda dell’oblio le travolga. Allora occorre che qualcuno continui a raccontare: che trovi il modo per sottrarle alla devastazione dell’onda. Più si riduce la possibilità di una testimonianza viva e più diventa inevitabile che si ricorra ai libri di storia, alla letteratura, alle immagini che rinnovano il senso di quello che è stato. C’è bisogno che qualcuno insegni ad avere memoria del tempo buono e del tempo cattivo, delle circostanze che hanno prodotto l’uno e l’altro, che hanno fatto la virtù e la dissennatezza, la bontà e la cattiveria, tolleranza e intolleranza, il rispetto e l’offesa, la solidarietà e l’egoismo, la sapienza e l’insipienza, la democrazia e la dittatura, il progresso e la barbarie, la lucidità e la follia. Il Novecento si fa sempre più lontano. Ma quello che siamo, il modo in cui siamo, le ragioni e le passioni con cui ci confrontiamo, le nostre visioni del mondo, il nostro pensiero, provengono tutti da lì: da un secolo che si è fatto di vittorie e di sconfitte dell’umano, di conquiste della scienza e di miserie quotidiane, di contraddizioni, di contrasti, di contrari; un secolo forse troppo lungo, forse troppo breve, forse non ancora terminato, i cui riverberi, probabilmente, si spanderanno ancora per anni e anni. “Giano bifronte, esso ci trattiene tra le sue spire col gioco delle sue ambivalenze radicali, dei paradossi che l’hanno attraversato spingendolo ad essere, in senso proprio, il secolo degli opposti, sempre estremi, sempre assoluti” scrive Marco Revelli in “Oltre il Novecento”. La memoria del Novecento è una montagna da scalare. A scalare le montagne si deve imparare, e qualcuno deve insegnare come si fa. Oppure è un fondo da scandagliare, e c’è bisogno che qualcuno insegni come si fa a scandagliare. Ma chi insegna a scalare, a scandagliare. E’ una delle riflessioni che possono suscitare il “Giorno della memoria”, che la  legge 211 del 2000 istituisce per il  27 gennaio, e “Il Giorno del ricordo” che la legge 92 del 2004 istituisce per il 10 di febbraio. Il luogo in cui si insegna a scalare la montagna o a scandagliare il fondo della memoria del Novecento è la scuola. Perche ha la possibilità  della pluralità delle forme di pensiero che trova espressione nelle discipline. Perché  si può  scalare o scandagliare la memoria  soltanto  attraverso l’arte, la letteratura, la scienza, la filosofia, il diritto, l’economia, attraverso  i fatti della storia che sono all’origine di tutti gli altri fatti. Perché la scuola ha la poesia. La poesia del Novecento è  una plastica rappresentazione della memoria. Probabilmente più di quella di qualsiasi altro secolo. E’  anche sintesi di storia e di memoria. Qualche volta viene il sospetto che senza la poesia non si potrebbe comprendere niente del Novecento, o si potrebbe comprendere assai poco. Ma non è soltanto rappresentazione e sintesi; è anche riflessione sulla grande e sulla piccola storia,  sulla  memoria personale e su quella collettiva; la poesia del Novecento ha scalato e ha scandagliato; ha osservato, indagato, analizzato; si è assunta anche la responsabilità di giudicare. Ha osato smentire quella sorta di sentenza pronunciata da Theodor  Adorno secondo la quale dopo Auschwitz non sarebbe stata più possibile nessuna poesia. E’ andata oltre Auschwitz. Per scalare e per scandagliare ci vuole costanza, sistematicità, coerenza. Ci vuole metodo. La scuola, la formazione ad ogni livello, insegna il metodo. Con il tempo la memoria si ritrae, per un fenomeno naturale. Un uomo ricorda finché può ricordare. Anche un popolo, l’umanità, ricordano finche possono ricordare. Dopo quel punto, oltre quella soglia, si devono trovare i metodi e gli strumenti che servono non solo a conservare la memoria, ma anche a ravvivarla. Se non si ravviva, la memoria si cristallizza, si trasforma in icona che ripropone un identico significato. Però il passato ha senso e funzione soltanto se si costituisce in una  relazione dinamica con il presente e con l’orizzonte di futuro, e questa relazione risulta possibile solo se è in grado di rinnovarsi, di rigenerarsi costantemente, se riesce a tessere un sapere che abbia la forza di modificare positivamente il presente e di delineare scenari di progresso, di benessere. Sono la formazione e la ricerca – che della formazione è un elemento fondamentale – le condizioni – probabilmente le uniche – che possono realizzare relazioni virtuose tra presente, passato e futuro, che possono rigenerare il sapere. Scalare o scandagliare la memoria è un modo di stabilire un contatto concreto con essa, di sentire una prossimità nei suoi confronti, di ridurre la distanza che inevitabilmente il tempo che passa apre, spalanca. A volte, guardandosi intorno, si ha la sensazione che la dimenticanza o l’indifferenza stiano corrodendo il senso che assume la memoria in una civiltà. La formazione è forse l’ultima possibilità che si ha per opporsi alla dimenticanza o all’indifferenza. Nessuna civiltà può permettersi di rimuovere, più o meno consapevolmente, la propria origine, né di trascurarne i significati. Sarebbe un disconoscimento dell’identità, una negazione dell’appartenenza. I concetti di identità e di appartenenza rientrano in quello più ampio di memoria, o comunque con quello hanno vincoli profondi. La formazione riconduce all’origine, rifonda i suoi significati, rigenera la condizione dell’ appartenenza contemperandola con i contesti culturali e sociali continuamente cangianti, pone davanti a chiunque lo specchio della memoria in modo da far vedere che in fondo quello che siamo non è altro che l’esito di quello che siamo stati. Nel bene e nel male.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di lunedì 27 gennaio 2014]

L’uomo della strada ci porterà in salvo

Si prende il giorno come viene e poi lo si lascia come va. Progetti non se ne sono fatti, per quel giorno: non c’è stata la possibilità, forse nemmeno la voglia. Sono successe tante cose, quel giorno, forse troppe, senza che il tanto o il troppo che è successo sia riuscito a cambiare qualcosa di quello che sarebbe bene e giusto che cambiasse. E’ stato un giorno cominciato e finito come quello passato, come quello che arriverà. Come sospeso nel niente. Quel giorno si sono fatti due passi avanti e subito dopo due indietro. Come in una oscillazione da ubriachi. Ma è andata bene. A volte invece va male, e di passi avanti non se ne fa nemmeno uno; i passi che si fanno sono tutti all’indietro. Nell’occupazione (o nella disoccupazione) per esempio. Nell’economia, per esempio: un punto avanti e un punto indietro, un punto su e un punto giù. Ci stiamo abituando, o ci siamo già abituati, a vivere ogni giorno come il buon Dio ce lo manda, o come i caso, per chi non ci crede. Non solo senza certezze, ma con incertezze che crescono a dismisura e pongono l’assedio: un esercito di incertezze neanche invisibili, ma concrete, tangibili, con le quali dobbiamo fare i conti ogni volta che ci poniamo una domanda e non riusciamo a darci una risposta, ogni volta che vorremo avere una speranza e dobbiamo stritolarcela fra i denti. Viviamo così, in questo Paese. Da anni. Quanti? Trenta? Di meno? Di più? Probabilmente i sociologi, gli economisti, sanno fare i conti per bene. L’uomo della strada invece no. L’uomo della strada assiste inquietamente, come una figura di Fernando Pessoa, a questo giorno che viene e che va senza che nulla sia cambiato. Si ritrova in una immobilità che però è solo apparente perché in realtà nasconde la marcescenza. Ci siamo abituati a vivere così, senza orizzonte. Oppure a non guardarlo l’orizzonte, perchè è scuro. Il presente appare come un campo confinato che non ha varchi da cui possano entrare e uscire pecore e pastori. E’ un presente contratto, compresso, che non si dipana, non evolve, una cappa che incombe e qualche volta toglie il fiato. E’ un presente che, avvertendo questo suo stato, a volte si affanna senza concludere, procede a caso, prende direzioni che molto spesso portano in un vicolo cieco. Così si ricomincia daccapo: ogni giorno daccapo, e si sta fermi, sopravvivendo con una rendita che però, inevitabilmente, si va consumando. Si potrebbe dire che non è una condizione nuova. Nel “Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’ italiani”, Leopardi, dopo aver affermato che sono le aspettative, i disegni, la speranza nell’avvenire che consentono di rilevare il pregio dell’esistenza, la quale “ sempre che manca di prospettiva d’un futuro migliore, sempre ch’è ristretta al solo presente, non può non parer cosa vilissima e di niun momento”, sostiene che “or la vita degl’italiani è appunto tale, senza prospettiva di miglior sorte futura, senza occupazione, senza scopo, e ristretta al solo presente”. E’ stato sempre così, dunque? Probabilmente no. Forse la storia non porta mai niente di nuovo, però se è vero che ci sono stati tempi di ripiegamento sul presente, è anche vero che ce ne sono stati altri in cui si avvertiva una tensione forte verso il futuro, in quello che accadeva intorno si potevano leggere i segni di un miglioramento delle condizioni di vita, si investivano pensieri e risorse perché si vedeva che il tempo volgeva al meglio. Si trovavano motivi per crederci. Si nutrivano speranze come adesso si nutrono paure. Ogni giorno si pone un nuovo problema e per molti di essi non si riesce a vedere quale possa essere la soluzione o chi sia in grado di risolverli. Ogni giorno si presentano urgenze, si affrontano le emergenze. Si continua a mettere pezze a una camera d’aria sapendo perfettamente che si forerà ancora dopo pochi metri. Un giorno l’uomo della strada si sente dire che dalla crisi si sta uscendo e il giorno dopo che la piena potrebbe rompere gli argini. Cresce la povertà, cresce il disagio, la disoccupazione, la precarietà, la sfiducia, la provvisorietà, aumenta tutto quello che dovrebbe diminuire, diminuisce tutto quello che dovrebbe aumentare. Così si tira a campare. Che è una filosofia dell’esistere che assume il presente, appunto, come unico riferimento. Che è la cosa che nessuna persona e nessun popolo dovrebbero fare. La visione si riduce e si restringe all’immediato, al bastevole per oggi, all’essenziale che permette di conservare quello che si ha. In questa condizione di presente delimitato, nei casi di più consistente spessore umano si recupera il significato profondo del concetto di solidarietà; nei casi in cui lo spessore umano si appiattisce, si assiste all’ingigantimento dell’egoismo o dell’indifferenza. Il fenomeno sociale forse di maggiore evidenza è quello di un ritorno al privato, del rifiuto di tutto quello che comporta un impegno e la conseguente ricerca di piccole distrazioni che consentano di non pensare, di non portare la mente oltre il confine del quotidiano. La delusione diffusa si trasforma in distacco, in allontanamento, in disinteresse verso l’interesse, la partecipazione. In fondo, quando i compiti da fare sono tanti, e tutti difficili, che non si sa nemmeno da dove incominciare, si finisce per non farne nessuno. Ci siamo ritrovati con tanti compiti difficili da fare senza avere nemmeno maestri che ci aiutino a capire. Così il presente non è solo confuso; è anche disorganico, sfilacciato. La buona volontà, la sensibilità, la perseveranza del solito uomo della strada, di quello che sulle macerie della guerra è stato capace di costruire un’Italia di benessere, pare che non bastino più. Eppure è solo su di lui e sulle sue virtù che si può ancora confidare, sulla sua capacità di ricominciare, di gettare lo sguardo lontano e di mettersi a camminare verso il giorno che viene. D’altra parte, ha dimostrato che è capace di ricominciare, di fare sacrifici, di portare il carico di un Paese sulle spalle. Non si può che chiedere a lui di portarci fuori dal presente in cui ci siamo impantanati, di restituirci quell’idea di futuro che abbiamo accartocciato.

[Nuovo Quotidiano di Puglia di lunedì 17 febbraio 2014]

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 Chiudiamo Sanremo. Quell’Italia non esiste più

A un certo punto le cose devono finire. È  una legge di natura. A questa legge, molto spesso, si conforma quella della cultura, del costume. Passano le stagioni, i personaggi. Talvolta diventano storia. Sanremo fa parte della storia d’Italia. Ha rappresentato il bisogno di spensieratezza, il desiderio di evasione. Come una sirena ha richiamato milioni di persone davanti al televisore. È  stato il simbolo di un’Italia che si vestiva a festa; è stato il teatro di tragedie. Come quella di Luigi Tenco.

Ma il suo tempo adesso si è concluso, definitivamente. Non è colpa di nessuno. Viviamo un nuovo secolo, un nuovo millennio. Si è sviluppata la mutazione antropologica vaticinata da Pasolini. Se abbiamo bisogni, se abbiamo desideri, probabilmente non sono quelli dell’evasione e della spensieratezza, e se anche fossero quelli non è con un festival che si può riuscire a soddisfarli, a realizzarli.

Se ne prenda atto. Lo si chiuda. Basta. Non c’è interesse, non c’è gusto nemmeno a polemizzare, a stroncare. Cali il sipario, come accade per ogni spettacolo, per ogni esistenza. Non ci saranno rimpianti. Quelli che una volta si appassionavano a Sanremo, ne conserveranno memoria. Quelli che non si sono mai appassionati nemmeno si accorgeranno che non c’è. È  inutile tentare di inventarsi qualcosa di nuovo; è inutile il revival; è inutile ricorrere alle icone. Non è una questione di presentatori, di cantanti, di ospiti. Non si tratta neppure di formule vecchie o formule nuove. Non è più il tempo di Sanremo. E’ cambiato tutto: in Italia, in Europa, nel mondo: la politica, l’economia, il sistema di pensiero, il linguaggio, modi e strumenti del comunicare, è cambiata ogni forma d’arte. Come si può pensare che rimanga Sanremo. Cosa può dare. A chi.

È  incoerente con la configurazione sociale. Probabilmente anche con le tendenze musicali, anche con il mercato.

È  l’espressione di un’Italia che non esiste più. Quando cominciò la gente si aggrappava alle speranze del dopoguerra. Si viaggiava in Topolino. Il biglietto del festival costava cinquecento lire, cena compresa. Nei paesi passavano gli ambulanti che vendevano i 45 giri.  Ma Sanremo non riesce ad essere nemmeno nostalgia. Poi, se si vuole proprio ostinarsi a continuare, allora si ripropongano le vecchie edizioni. Avrebbe un senso; avrebbe un pubblico, come quel programma che mi pare si chiami Techetechetè, che aspettano in tanti.

Adesso i giovani Sanremo non lo vedono. A quelli che non sono giovani, e che per non esserlo pagano il canone, questo Sanremo non piace. Fanno fatica a resistere alla noia, a vincere il sonno. Passano da un canale all’altro, aspettando la sorpresa. Ma la sorpresa arriva da Renzo Arbore e l’orchestra italiana che ricantano un classico della canzone napoletana. Allora il pubblico si alza in piedi, applaude. Perché non ha altro. Una cosa fatta e rifatta, sentita e risentita, diventa una brezza che rigenera l’aria stagnante.  È  un festival senza un pubblico reale. Non fanno testo nemmeno gli indici di ascolto che salgono e scendono, oppure scendono e basta. La sostanza è che esiste una incoerenza totale tanto con la fisionomia del reale quanto con quella della fiction. È semplicemente un arcaismo. Come se pronunciassimo una parola appartenente ad un vocabolario antico, di cui non si comprende il significato o di cui si avverte una estraneità al linguaggio.

Sessantaquattro anni sono tanti. Sono troppi. Occorre che chi deve se ne faccia una ragione. Sanremo ha avuto il tempo delle glorie. Adesso gli si risparmi l’onta e la miseria dell’abbandono.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di domenica 23 febbraio 2014]

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La crisi danneggia gli specializzati

In un libro che s’intitola Un cerino nel buio, viene riportata una conversazione fra l’autore Franco Brevini e il filosofo della scienza Mauro Ceruti. A un certo punto Brevini dice che nei momenti di crisi profonda gli animali troppo specializzati come i dinosauri, che si cibavano di una o di poche risorse, come le piante verdi la cui riproduzione era inibita dall’oscurità che si era rovesciata sulla terra, sono i primi ad essere danneggiati. Gli animali versatili, invece, quelli flessibili, capaci di adattarsi ai nuovi contesti, hanno maggiori possibilità di farcela, com’è accaduto ai mammiferi da cui discendiamo, i ratti del mesozoico.

Ceruti, da parte sua, sostiene che questa legge della natura può essere applicata alla specializzazione nella formazione, nella cultura, che quando è troppo circostanziata, quando non ha una prospettiva d’insieme, trasforma le cose apprese in una prigione da cui non si riesce ad evadere. L’iperspecializzazione non consente di vedere i nessi, le interconnessioni, gli intrecci. Per questa ragione, la scuola deve realizzare una formazione che consenta l’apprendimento per quanto dura l’esistenza, una competenza finalizzata allo sviluppo non solo delle conoscenze ma della stessa capacità di conoscere.

Ora noi viviamo un tempo di crisi profonda. Non mi riferisco alla crisi economica, alle molteplici crisi che feriscono il corpo sociale (che si spera passino presto, ovviamente) ma ad un’altra crisi, forse anche più complessa, destinata ad amplificarsi, che si può sintetizzare nell’interrogativo che riguarda la fisionomia culturale che serve già oggi e che più di oggi servirà domani nei contesti socio-lavorativi, senza dubbio, ma anche nella configurazione di personalità che siano in grado di confrontarsi con l’esperienza dell’incertezza, con quella dell’incontro con culture “altre”, con la rapidissima evoluzione dei linguaggi e  degli strumenti del sapere.

Probabilmente è da almeno due decenni che non ha più senso elaborare rigide distinzioni tra una formazione marcatamente specialistica e una a struttura trasversale, ed ha ancor meno senso tessere gli elogi dell’una o dell’altra. Già  questo presente storico, sociale, culturale, richiede una formazione che integri la specificità delle conoscenze con la flessibilità degli stili di pensiero, con l’adattabilità dei comportamenti, con la capacità di mediare fra tradizione e transizione, fra l’acquisito e la tensione della ricerca che talvolta può anche scombinare l’acquisito, fra il vecchio e il nuovo che non devono contrastarsi ma combinarsi in una dimensione  equilibrata, consistente, resistente.

Forse siamo già e saremo sempre più una proiezione della figura di Ulisse. Non dell’eroe ma dell’uomo che sente, ad un tempo, il richiamo di quello che ha lasciato e l’attrazione per l’avventura nuova.

Se è fuori d’ogni dubbio che la contemporaneità ha bisogno di saperi specialistici, in quanto sono questi saperi che, prevalentemente, consentono il progresso di ogni scienza, altrettanto fuor di dubbio è il bisogno di un’interazione fra i diversi saperi specialistici, perché è questa interazione che genera la crescita complessiva, dalla quale ciascuno può trarre vantaggi.

Immagino che la progettazione e la realizzazione di un’automobile avvenga attraverso la convergenza sull’oggetto di conoscenze specifiche che vanno dalla meccanica al design. Il prodotto finale è il risultato di quella convergenza. Allora, uno prima guarda la macchina da fuori, per cui l’accostamento è di tipo estetico; poi verifica se è comoda da dentro, con un’attenzione al benessere, quindi; a meno che non sia un tecnico o un appassionato, nemmeno apre il cofano per guardare il motore. Vale a dire che dà per scontata la qualità della parte essenziale, quella che con molta probabilità ha richiesto una più significativa competenza specialistica,

Facciamo la stessa cosa anche per una casa, di cui non andiamo a verificare i materiali delle fondamenta.

Anche nei confronti di una società ci comportiamo più o meno alla stesso modo: guardiamo se ci piace, ci chiediamo se ci stiamo bene, rivolgiamo attenzione al funzionamento complessivo della scuola, della sanità, della giustizia, dando per scontato che la loro qualità dipende dalle competenze specifiche che la determinano.

Ecco, dunque, il motivo per il quale si ha necessità di un sapere specialistico che si  armonizzi con quello complessivo e quindi di un processo formativo che dalla scuola dell’infanzia all’università, ai percorsi post universitari, elabori curricoli che dalla connotazione disciplinare, che risulta comunque indispensabile, aprano finestre sull’interdisciplinare. Forse agli studi di ingegneria serve anche qualche conoscenza di filosofia, e a quelli di filosofia una cosa semplice semplice di ingegneria non farebbe male.

Quasi mai i fenomeni della cultura arrivano a noi in maniera  settoriale, attraverso i loro singoli elementi.

Generalmente si manifestano nel loro insieme, che poi scomponiamo analizzando quelli che più ci interessano non in assoluto ma in quel momento, per un determinano fine, per curiosità, per piacere, senza però trascurare il contesto al quale appartengono e all’interno del quale hanno senso e funzione. Poi, può accadere che, in un altro momento, altri fini, altre curiosità, altri piaceri, suscitino l’interesse per altri elementi dello stesso contesto.

Forse non è del tutto improprio, allora, pensare ad una formazione strategica, che consenta di comprendere e interpretare i fenomeni globalmente e particolarmente, di individuare i nodi che li legano, le cause che li generano, le conseguenze che producono, e in relazione a queste conoscenze operare delle scelte di opportunità individuale e collettiva.

La formazione strategica è quella che permette di confrontarsi lucidamente con i problemi di ogni genere e di risolverli o quantomeno di ridefinirli, di determinare situazioni nuove innestandole su quelle esistenti, di non farsi travolgere dall’onda dei cambiamenti improvvisi, di governare i processi di globalizzazione, di essere protagonisti del proprio tempo e del proprio destino.

La formazione strategica, funzionale, prospettica, che contemperi la conoscenza del generale e del particolare, forse è l’unica condizione che può impedire di fare la fine dei dinosauri.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia di martedì 11 marzo 2014”]

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Università e lavoro: un corto circuito da riparare

Cinquanta, quaranta, trent’anni fa, i contadini, gli emigranti, gli artigiani, gli operai, gli impiegati, i pochi maestri elementari, le casalinghe, si toglievano il pane dalla bocca – senza nessuna metafora- per mandare i figli alla scuola superiore e poi all’università. Sapevano perfettamente che l’istruzione  li avrebbe affrancati dalla miseria, dalla miniera, dal lavoro alla giornata, che un titolo di studio gli avrebbe concesso una professione rispettata, una sicurezza economica. Tutta la loro esistenza si fondava sulla speranza di un figlio professore, ingegnere, medico, avvocato, architetto, commercialista. Non avevano altri sogni. Mai una volta al cinema. Mai una vacanza. Al ristorante si andava soltanto per il matrimonio di un parente. Basta. Era gente che in silenzio  pensava quello che diceva Nelson Mandela: “L’istruzione è il grande motore dello sviluppo personale. È attraverso l’istruzione che la figlia di un contadino può diventare un medico, che il figlio di un minatore può diventare il capo della miniera, che un bambino di contadini può diventare il presidente di una grande nazione, perché l’educazione, l’istruzione e la formazione sono le armi più potenti per cambiare il mondo”.

Tutti coloro che adesso sono professionisti affermati in ogni settore, scienziati riconosciuti a livello internazionale, vengono da quelle famiglie di povertà dignitosa e di saggezza sovrumana, che

rappresentano la testimonianza vivente di quelle lucide e anche commoventi parole scritte nell’articolo 34 della Costituzione: i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.

Padri e madri, privi di mezzi, mandavano i figli a scuola, dunque.

Per anni, per decenni, le iscrizioni all’università sono cresciute costantemente. In alcune facoltà, soprattutto in quelle scientifiche, in maniera significativa.

Poi il crollo. In dieci anni, a livello nazionale, si sono avute 78.000  immatricolazioni in meno. A questi numeri si devono aggiungere quelli degli abbandoni durante il corso di studi.

Il primo dei tre motori di ricerca individuati dalla Commissione europea  nella strategia Europa 2020 per uscire dalla crisi e affrontare le sfide dell’economia è la crescita intelligente attraverso la promozione della conoscenza, dell’innovazione, dell’istruzione.

Tra i cinque obiettivi c’è la riduzione del tasso di abbandono scolastico, che dev’essere inferiore al 10%, e il raggiungimento di una soglia minima del 40% di giovani con una laurea o un diploma.

Dalla posizione in cui ci troviamo, l’Europa rimane lontana. Se non si riesce a far quadrare innanzitutto questi conti, sarà difficile riuscire a far quadrare tutti gli altri.

C’è chi dice che la diminuzione delle iscrizioni all’università è prevalentemente determinata dalla crisi che ha squadernato gli assetti economici delle famiglie, e forse è anche vero. Ma la crisi non avrebbe prodotto questa tragedia se ci fosse stata almeno una prospettiva concreta di quella che viene chiamata spendibilità del titolo di studio e che sostanzialmente significa possibilità di fare il lavoro per il quale hai studiato o comunque qualcosa che a  quegli studi non risulti completamente estraneo.

Nel tempo di sei anni, il numero di laureati che cerca occupazione è più che raddoppiato. Per architetti, medici, veterinari, laureati in giurisprudenza, è triplicato

Nel 2008, quelli con laurea triennale che riuscivano ad avere un contratto a tempo indeterminato erano il 41,8%, quelli con laurea specialistica il 33,9. Ora si è passati rispettivamente al 26,9  e al 25,7 per cento. Le retribuzioni sono passate da 1.300 a 1.000 euro al mese . Insomma, cifre da scialare. Che però sono un sogno per chi non ha nemmeno quelle.

Questo riferisce il rapporto Almalaurea.

Allora il calo delle iscrizione all’università non è determinato dalla crisi economica ma dalla caduta dei ponti tra la formazione universitaria e il lavoro.

In questa situazione diventa inevitabile chiedersi quale tensione di sviluppo possa avere un paese che non ha generazioni con competenze adeguate, coerenti con quelle che sono le richieste dei settori produttivi, dei contesti culturali.

Diventa inevitabile chiedersi quali conseguenze comporta l’impossibilità, o la difficoltà, di confrontarsi con i livelli di formazione che raggiungono i giovani di altri paesi europei ed extraeuropei. Con quali strumenti si affronta non solo la crisi ma la continua trasformazione, anche di carattere positivo, dei contesti

culturali, sociali, economici, se manca la formazione che consente di entrare in quei contesti.

C’è sempre più bisogno di forme di pensiero che siano in grado di decifrare, interpretare, gestire i fenomeni. A volte anche di prevederli.

Dunque: se non ci sono molti dubbi sul fatto che la formazione universitaria risulti necessaria e per certi aspetti indispensabile, allora è altrettanto indispensabile che l’università recuperi la sua forza d’attrazione. Ma non può farlo senza una programmata, sistematica, strutturata collaborazione con la scuola superiore. Non può farlo senza un progetto e un processo di orientamento: che non può limitarsi ed esaurirsi in visite frettolose, confuse e disorientanti, che accadono senza niente prima e si concludono con un niente dopo. Né può circoscriversi all’ultimo anno della scuola superiore. Occorre cominciare già dal terzo anno, almeno. Gradualmente, sistematicamente, calibrando gli interventi. In modo che lo studente non si ritrovi nel giro di un mese a vagare in un universo sconosciuto. In modo che possa scegliere avendo la possibilità di comparare, con cognizione, verificando se ha veramente l’intenzione di confrontarsi con la specificità di quegli studi. Ma soprattutto: è urgente potenziare la sfera della motivazione. Se non si può, ora, sostenere la relazione tra il titolo di studio e la qualità del lavoro, o semplicemente la certezza del lavoro, allora si deve recuperare quella dell’indispensabilità della formazione nella conformazione della personalità, nel pensare e nel fare di ogni giorno. Ma senza luoghi comuni, senza retorica, senza astrattezze. Probabilmente dimostrando che una formazione consistente risulta necessaria anche per affrontare l’amarezza, l’avvilimento, il senso di vuoto esistenziale generati   dall’incertezza, dalla precarietà, dal disagio,

Non è facile, certamente. Ma al momento è l’unico tentativo che possiamo fare. In attesa di tempi migliori. Con la speranza che l’attesa non  sia vana.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di mercoledì 19 marzo 2014]

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A scuola nessuno è straniero

In una classe di scuola nessuno è straniero, quale che sia l’età, il luogo da cui proviene, l’origine, la storia che ciascuno si porta dietro, le allegrie e le tristezze che si porta dentro, quale che sia la lingua che parla, il dio in cui crede, il modo in cui pensa l’universo, i sogni che sogna, ad occhi chiusi o aperti, quale che sia la sua realtà, il suo immaginario.

In una scuola che sia scuola nessuno rimane sulla soglia a guardare gli altri che sono dentro. Si entra. Quando si entra in una scuola si è cittadini, perché la scuola attribuisce cittadinanza, perché è società aperta che non solo accoglie, inserisce, integra. Ma accomuna: esistenze e idee.

I numeri sono significati, e il numero degli stranieri nella scuola italiana significa che esiste un livello di civiltà straordinario. Che se si trasferisse in ogni altro contesto sociale probabilmente risolverebbe molti dei problemi che abbiamo.

Dall’indagine condotta dal Ministero dell’Istruzione in collaborazione con l’Istituto per lo Studio della Multietnicità

sugli alunni con cittadinanza non italiana, riferita ai frequentanti nell’anno scolastico 2012/13, risulta una crescita costante, anche se relativa in particolare agli alunni di seconda generazione. Infatti il 47,2% degli studenti stranieri è nato  in Italia, con punte dell’80% nelle scuole dell’infanzia e del 60% nella primaria, concentrati soprattutto nelle regioni del Nord e del Centro e nelle province di piccola o media dimensione.

Prevalentemente sono rumeni, albanesi, marocchini.

Anche sul piano dei risultati si registra un considerevole miglioramento, ma probabilmente la condizione che assume maggiore rilievo riguarda la dimensione delle relazioni interpersonali. Se si va a scuola e se si apprende, se si riducono le differenze, se esiste uno sviluppo nell’apprendimento, questo accade per il fatto che a scuola si sta bene. Ma non è in un luogo che si sta bene. Si sta bene con le persone che abitano quel luogo. Se nella scuola italiana gli alunni stanno bene, vuol dire che lì, nella scuola, non ci sono più, sono cadute, si sono frantumate quelle barriere che in altri luoghi qualcuno cerca  di mantenere in piedi puntellandole con ideologie anacronistiche, che non trovano senso o giustificazione a livello culturale, sociale, economico, politico. Umano.

In una pagina de “Le vie dei canti” , Bruce Chatwin dice che in tibetano la definizione di “essere umano” è a-Gro ba, cioè  “viandante”, “ chi fa migrazioni”.

D’altra parte, le piante hanno le radici per affondarle nella terra, gli uomini hanno le gambe per camminare. Anche se spesso il pensiero li riporta al punto da cui sono partiti, anche se spesso rivolgono lo sguardo all’indietro, sperando, fantasticando di poter ritornare. Anche se spesso hanno nostalgia: nostos – ritorno- e algos – dolore-.

Abbiamo avuto lo stesso pensiero e lo stesso sguardo, probabilmente, quando i migranti siamo stati noi. Probabilmente abbiamo avuto la stessa nostalgia.

Nell’ “Enrico di Ofterdingen” di Novalis, c’è un personaggio che chiede: “ Dunque dove andiamo?” e l’altro personaggio risponde: “ Sempre verso casa”.

Però quello che conta è che  nel corso del viaggio non ci si  senta stranieri in nessun luogo.

Non saprei dire se fuori dalle aule delle scuole, alle ragazze, ai ragazzi che vengono da altri luoghi, che un padre e una madre hanno portato qui da altri luoghi, accada che si sentano stranieri. Da questa indagine risulta che a scuola non accade. Non è poco.

Una società si rifonda a scuola, attraverso l’unica condizione che può riformare una società: la riformulazione del pensiero. Il tempo che viviamo, le storie di cui siamo protagonisti o spettatori, i paesaggi umani delle nostre città, domandano o pretendono da noi un pensiero interculturale, che sia capace non solo di accettare il dialogo tra la diversità di culture, ma anche di protendersi al dialogo, di provocarlo con un costante e progressivo movimento di approssimazione, in una concreta dimensione di reciprocità. Senza un dialogo non può esserci comprensione. Senza comprensione non può esserci convivenza. Senza convivenza diventa inevitabile lo scatenarsi del conflitto. Né si può ipotizzare che nei confronti dell’altro si possa essere indifferenti. L’indifferenza non appartiene alla Storia; è estranea ad essa. D’altra parte l’unica prospettiva che abbiamo è quella dell’interculturalità, perché siamo sempre di più personaggi di un racconto di migrazioni, coinvolti in un intreccio relazionale, affettivo, cognitivo,  che pretende un’interazione di esperienze, di rappresentazioni dell’essere, una disponibilità anche allo scambio delle parti, all’integrazione delle identità.

Oltre alla scuola, non mi viene in mente un luogo  in cui si possa verificare una riformulazione del pensiero che comporti una rielaborazione delle coordinate culturali di una società, in cui si  possa determinare un sapere fondato sulla consapevolezza che non sia sufficiente essere con l’altro ma che sia indispensabile essere per l’altro. Né mi viene in mente un luogo in cui sia possibile riconfigurare il significato del termine straniero rispondendo alle domanda: straniero rispetto a chi, per quanto tempo, per quale motivo? Neppure un altro luogo in cui sia possibile creare modelli di comportamento coerenti con le forme di quella che Edgar Morin chiama la cittadinanza terrestre in una comunità planetaria.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di lunedì 25 marzo 2014]

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Questo è il tempo che ci chiede di avere coraggio

Ogni tempo pretende passioni che sono diverse da quelle di qualunque altro tempo. Ogni tempo ha desideri diversi, bisogni diversi, perché una stagione ci trova sempre diversi da come ci ha lasciati un’altra volta. Mai si vive un inverno come si è vissuto quello che è passato, né mai la primavera ha gli stessi colori dell’altra primavera. Né la festa che viene porta sempre gioia o sempre malinconia, né sempre le stesse speranze.

Di tante speranze ha bisogno questo tempo; anche di tanto coraggio.

Una volta, nel suo augurio di Pasqua, quella creatura di terra e di cielo che è don Tonino Bello, sillabò questa parola: “coraggio”.

Augurava il coraggio a chi è avvilito, a chi è stanco, a chi è sottomesso al potente che abusa; augurava coraggio al disoccupato, al giovane senza prospettiva.

Questo è tempo che vuole coraggio. Forse fra le tante cose che vuole, la prima è proprio il coraggio. Il coraggio di una umana, umanissima, resurrezione.

Allora, nel senso e nella figurazione della Pasqua, nei suoi simboli di dolore e di speranza, di sconfitta e di trionfo, di morte e di Resurrezione, si possono trovare i significati che infondono coraggio, che riescono a far vincere la paura. Indipendentemente dal fatto che si creda o non si creda. La paura e il coraggio sono sentimenti dell’uomo di ogni tempo e di ogni luogo. Di ogni piccolo e di ogni grande uomo. Anche dell’uomo che viene dall’eternità e sa bene che all’eternità farà ritorno.

Anche l’Uomo della Passione ha paura. L’Uomo della Passione nella notte del Getsemani ha paura. Come ogni altro uomo di fronte alla sofferenza, alla morte.

Nella notte del Getsemani, dice Charles Péguy, l’Uomo si tira dalle viscere una preghiera spaventosa, “di un’ansietà carnale, di un’ansietà come eterna, quest’atroce preghiera di un’angoscia infinita. Transeat a me Pater mi, si possibile est, transeat a me calix iste. Testo niente affatto commovente, come è stato detto migliaia di volte, in tutti i romanticismi, laici, ecclesiastici, antichi, moderni, cristiani, atei. Ma testo letteralmente spaventoso, molto precisamente spaventoso”.

Abbiamo tutti paura delle incertezze, delle precarietà, dei dolori, dei misteri, delle incognite, dei rischi, dei problemi. Abbiamo paura ogni giorno, e ogni giorno cerchiamo il coraggio per affrontare questa paura.

Lo cerchiamo dentro di noi, certamente. Ma cerchiamo coraggio soprattutto intorno a noi: negli altri che ci sono vicini, in quelli che ci appartengono e ai quali apparteniamo. Speriamo che possa darci coraggio anche lo sconosciuto, a volte, colui che in qualche modo, che per qualcosa, avvertiamo che abbia a che fare con la nostra esistenza, con il nostro destino.

Abbiamo bisogno degli altri, per farci coraggio. Per gradi, per livelli, il bisogno che abbiamo degli altri si spande, fino a comprendere l’umanità intera.

Ecco. Abbiamo bisogno di sentire che l’umanità sia in grado di darci coraggio. Avvertiamo la necessità di una consapevolezza che l’umanità non vuole la guerra ma la pace, non vuole distruggere ma costruire, che vuole progresso, benessere, energia.

Per chi ha fede e per chi non ne ha la Pasqua custodisce ed esprime il senso del coraggio.

Ci sono tempi che forse chiedono meno coraggio; ce ne sono altri che ne chiedono di più.  Questo è un tempo che  chiede  più coraggio. Soprattutto chiede un coraggio collettivo. Non sono soltanto le singole persone ad aver bisogno di sconfiggere le paure. Ci sono comunità, popoli, che ne hanno bisogno. C’è  un’intera umanità che ha necessità di farsi coraggio per riuscire a sconfiggere o almeno a governare le paure. Tanto le vecchie quanto le nuove paure. Perché in questo tempo le paure ancestrali – quelle del dolore, quelle della fine- hanno assunto nuove e forse anche più angoscianti fisionomie. Non solo: molte paure  sono diventate planetarie: l’ipotesi di una mancanza di futuro,  le catastrofi naturali,  il disastro atomico, le guerre d’ogni sorta, la violenza incontrollabile, cieca.  Allora c’è bisogno del coraggio di tutti: di ogni uomo, ogni donna, ogni bambino, ogni giovane, ogni vecchio. Se non esiste un’età che non abbia paure, non esiste neppure un’età che non chieda coraggio.

Ma sono soprattutto le paure quotidiane che ci chiedono un coraggio costante, che vogliono da noi  sia una reazione razionale sia una tensione emotiva. Sono quelle occasioni, quelle circostanze, quei problemi nei confronti dei quali proviamo un senso di inadeguatezza, di incapacità, quando ci sentiamo bloccati dalla convinzione di non farcela.

Probabilmente non è il coraggio degli eroi che fa la Storia. Il coraggio degli eroi appartiene all’epica. La Storia, il progresso, la redenzione da ogni condizione che opprime, sono realizzati da uomini piccoli, il cui nome non è scritto nei libri, che fino a un certo punto rimane nella memoria di chi è stato accanto a loro, e poi scompare.

Per chi crede e chi non crede, la Pasqua è la rappresentazione del coraggio quotidiano con il quale ognuno  cerca di salvarsi la vita.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di domenica 20 aprile 2014]

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Il futuro del Paese è questione di fiducia

Non è facile, ma è urgente. In un tempo di incertezze d’ogni sorta, di terreni che smottano continuamente, di punti di riferimento che si allontanano o si dissolvono, di occasioni che diminuiscono o che si azzerano, provare un senso e un sentimento di fiducia non è facile. Ma è urgente. Proprio perché il tempo è così; soprattutto perché è così instabile, vago, anche fosco.

Forse non c’è persona di questo Paese che non abbia necessità di recuperare, di costruirsi una condizione di fiducia che possa dare fiato, energia, slancio.

Chi studia ha necessità di poter pensare che domani quello che studia oggi gli servirà sicuramente; ha bisogno di intravedere un orizzonte di senso, di credere in quello che sta facendo. Ha bisogno della consapevolezza che i libri e l’impegno non sono tempo bruciato.

Ha bisogno di fiducia chi ha studiato, e aspetta. Ci sono tanti, molti – troppi – che aspettano da anni, che da anni tentano di trovare una strada e si ritrovano davanti soltanto quelle sbarrate da macigni che sembrano insormontabili. Ecco. Devono poter pensare che i macigni si scalano, o si rimuovono. Ma serve fiducia. Hanno bisogno di sapere che oltre quel macigno non c’è il precipizio. Se sanno questo, allora ci riescono.

Ha urgenza di fiducia chi ha un lavoro e si accorge che quel lavoro si fa insicuro, che ha abbassato le prospettive. Deve potersi trovare nelle condizioni di pensare che se quel lavoro dovesse finire ce ne sarà un altro, che c’è qualcuno che si preoccupa della sua esistenza. Se si perdono mille posti di lavoro al giorno, ci sono mille persone al giorno che hanno bisogno di provare fiducia.

Hanno bisogno di fiducia i pensionati. Quelli che arrivano a stento a fine mese, quelli che a volte sembra che non vengano considerati da nessuno, come se non abbiano passato la vita a lavorare.

C’è un Paese intero che ha bisogno di fiducia. Ma non si tratta di una fiducia nei confronti di qualcuno. C’è bisogno di una fiducia proprio verso l’Italia. Verso l’onestà, l’impegno, l’esperienza di tutti. C’è bisogno di una fiducia verso gli italiani. Se gli italiani sono quelli  che  hanno ricostruito le macerie, possono riuscire a ricostruire una politica, un’economia, e tutto quello che c’è da ricostruire.

Non è la prima volta che  si ritrovano assediati dalle difficoltà, né le difficoltà delle altre volte erano di minore portata. Sono riusciti a rompere l’assedio, ogni volta. Ci sono stati uomini, ci sono state donne, ci sono stati bambini, che hanno  avuto fame e non riuscivano nemmeno a fantasticare che cosa potessero mangiare. Gli italiani hanno vissuto le guerre e le emigrazioni. Eppure nella fame, sotto i bombardamenti, nelle baracche, hanno avuto fiducia in un altro tempo. Anche se spesso è stata una fiducia silenziosa, quasi che avessero pudore a confessarla. Non c’è nessuna retorica; è semplicemente storia, scritta nella memoria di chi questa storia  l’ha attraversata, scritta nelle pagine dei libri, perché non si disperda.

Hanno avuto e hanno vizi, gli italiani, certo.  Come probabilmente ce l’ha ogni altro popolo. In qualche circostanza hanno creduto di averne  meno degli altri, e forse sbagliavano. Hanno avuto e hanno anche virtù. Come ogni altro. In qualche circostanza  hanno creduto di averne di più, e forse sbagliavamo. Non sono migliori di nessuno. Non sono nemmeno peggiori.

Forse possono servire anche queste banali considerazioni a farci avere fiducia nei confronti di noi stessi.

D’altra parte, l’alternativa alla fiducia, è lo sconforto, l’avvilimento, l’indifferenza, il disinteresse, l’abbandono alla fatalità.

Ma diventa drammatico anche solo immaginare che per mancanza di fiducia verso se stessi e verso gli altri, i giovani, per esempio,

rinuncino ad elaborare e a realizzare progetti. Una nazione che non ha progetti da parte delle generazioni che arrivano, diventa un deserto.

Allora gli adulti dovrebbero riprendersi la funzione di insegnare ad avere fiducia. Anche con le parole, ma non solo con quelle. Soprattutto proponendo esperienze, dimostrando un impegno concreto nella ricerca di soluzioni, coinvolgendo tutti nella ricerca. Perché una delle condizioni essenziali per un sentimento di fiducia è quella di non sentirsi soli. Talvolta si ha la forte impressione che i giovani si sentano soli, che percepiscano una più o meno reale distanza da parte degli adulti. Poi si ha l’impressione che gli adulti non sappiano cosa dire, cosa fare, che cosa proporre. Probabilmente anche per il fatto che si ritrovano accomunati dalla stessa  incertezza. Forse perché hanno paura di illudere. Perché anche loro vedono macigni che sbarrano le  strade.

Ci sono situazioni in cui non si sa neppure da dove incominciare. La disoccupazione è una di quelle situazioni in cui non si sa da dove incominciare. Ma non si può che cominciare dal creare occasioni in ogni settore, pubblico e privato. Ci sono contesti in cui forse si può fare poco, ma il poco è comunque più del niente. Sapere che si sta facendo  poco induce comunque a sperare che si possa fare di più; sapere che si sta facendo niente, paralizza.

Insegnare ad avere fiducia comporta una rinuncia agli egoismi. E’ una condizione fondamentale che colui che ha bisogno di fiducia si accorga che l’altro non si stringe dentro il pugno quello che ha, che non cerca in ogni modo di mantenere i privilegi. L’insegnamento della fiducia richiede una dimostrazione di sostanziale solidarietà.

Allora forse è indispensabile cominciare da qui: dalla solidarietà, dall’essere disponibile non solo a comprendere le ragioni dell’altro, non solo a condividerle, ma ad assumersi la responsabilità di dare una risposta alle domande, alle necessità. Tutti insieme. Ciascuno per quanto può, per come può.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di giovedì 1 maggio 2014]

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La falsa immagine della scuola allo sbando

Quando gli scrittori si occupano di scuola, lo fanno quasi sempre in modo acuto, nitido, preciso, con una capacità di sintesi essenziale, di focalizzazione dei problemi, di concretezza delle proposte.

L’intervento con cui Paolo Giordano – l’autore di quel bel romanzo che è  “La solitudine dei numeri primi” – apre un dibattito su “ La lettura”, l’inserto domenicale del Corriere della Sera, è chiaro, concreto. Per alcuni aspetti condivisibile, per altri meno. E’, ovviamente, assolutamente condivisibile quando dice che l’Italia che sarà fra trent’anni dipenderà dalla scuola dell’obbligo di oggi. E’ pedagogicamente, psicologicamente, socialmente, eticamente, soprattutto umanamente indiscutibile quando sostiene che ogni studente alienato dall’istituzione scolastica costituisce un debito che dovrà essere saldato dalla collettività entro qualche decennio, con interessi spaventosi.

Paolo Giordano parla di scuola con sensibilità, con  partecipazione intensa. So che ci crede  profondamente. Ho avuto modo di constatarlo quando presentai il suo libro a Martignano, nel luglio di quattro anni fa. Si discusse molto di scuola in quell’occasione. Giordano lo fece in modo appassionato. D’altra parte mi riesce difficile pensare a uno scrittore che non si senta coinvolto dai problemi  della scuola. Sarebbe una contraddizione strana,  una incoerenza sorprendente.

Ma, con tutta la stima per Paolo Giordano, non posso condividere la sua visione di una scuola “sprofondata in uno stato di torpore, di inerzia”. Così dice Giordano; dice che la scuola “appare” così. Appunto: appare. A guardarla un po’ da lontano, può anche apparire così. Ma basta entrarci una mattina  qualsiasi per  accorgersi immediatamente della tensione da cui è attraversata, dell’energia con la quale cerca di realizzare apprendimenti, processi di costruzione dei saperi, nonostante sia costretta – sempre di più- ad un corpo a corpo con il disorientamento provocato dai continui mutamenti  di tendenza, a cercare di non farsi saccheggiare  da una burocrazia che è inadeguata se non completamente estranea alla sua natura, alla sua finalità.

Certo, sarebbe inesatto e forse anche falso dire che va tutto bene. No, non va tutto bene. Ci sono problemi  che hanno bisogno urgentissimo di essere risolti. Quello dell’edilizia, per esempio. Quello del numero degli alunni per classe. Quello di una reale valorizzazione  degli insegnanti che non ce la fanno più a sentir dire da ogni parte che devono essere valorizzati e poi nessuno riconosce il valore che già hanno. Si sa, si vede, che esiste una società che ha marginalizzato una professione, esattamente quella professione che ne determina ogni altra. Mi chiedo anche come si faccia a non  considerare che le eccellenze, che poi facciamo scappare, vengono  da un sistema di formazione che va dalla scuola dell’infanzia all’università.

No, non va tutto bene. Ma tanto di quello che non va bene trova le sue cause fuori dalla scuola. Anche dentro si può migliorare molto, senza dubbio. L’orientamento, per esempio. Soprattutto nel passaggio dalla secondaria di primo grado a quella di secondo grado e da questa all’università.

Un orientamento progettato, costante, calibrato sulla personalità di ogni studente, sul suo stile di apprendimento, sulle sue intelligenze,  probabilmente ridurrebbe non di poco la percentuale degli abbandoni, della dispersione.

Poi c’è bisogno di un sistema di certificazione delle competenze  funzionale all’inserimento nel mondo del lavoro, sia a conclusione della scuola superiore che a conclusione degli studi universitari.

Non va tutto bene, certamente. Ma questo non significa torpore, né inerzia. A quello che non va bene corrisponde tanto una continua ricerca di potenziamento delle metodologie e degli strumenti quanto una serie di condizioni sulla base delle quali si può  sostenere che, soprattutto negli ultimi venti anni, la scuola ha sorretto il livello culturale di questo Paese. Anche sforzandomi  non mi viene il nome di  un’altra istituzione, di un’altra situazione, di un qualsiasi luogo di formazione che sia riuscito a fare la stessa cosa. Forse non c’è.

Poi Paolo Giordano fa riferimento allo iato generazionale fra insegnanti e allievi.

Dunque, indubbiamente uno iato generazionale esiste ma il dialogo fra insegnanti e studenti è forse l’unica forma di comunicazione tra generazioni che, soprattutto in questi tempi, si riveli sistematica e positiva. Nessun altro adulto e nessun’ altra professione si struttura sostanzialmente sul dialogo tra le generazioni. Se si verifica un processo di insegnamento e di apprendimento – e il fatto che si verifichi, a livelli diversi,  non può in alcun modo essere messo in discussione –  significa che lo sviluppo del dialogo  riesce a creare una motivazione.

Nonostante sia difficile, difficile davvero, far comprendere e dimostrare che conoscere è comunque essenziale quando i ragazzi ti domandano che cosa me ne faccio del diploma, che cosa me ne faccio della laurea, se i laureati se ne devono stare a far nulla, se il precariato si gonfia di giorno in giorno.

Lo iato generazionale, dunque. Se a questo proposito si vuole assumere l’età anagrafica come indicatore, allora bisogna considerare che il 62% degli insegnanti italiani ha più di cinquant’anni. Una situazione unica in Europa. Perché le strade di accesso alla professione sono sbarrate. Di tanto in tanto si apre qualche varco attraverso il quale passano sempre poche persone.

Eppure si cerca quotidianamente di entrare nell’ universo mentale di bambini, ragazzi, giovani, nel loro linguaggio, di comprendere le loro ansie, speranze, illusioni, delusioni, i loro sogni.

Probabilmente dovremmo ricominciare a considerare la scuola nella sua indispensabilità sociale.  Sarebbe fuorviante pensare che esista una possibilità di formazione al di fuori della scuola, magari attraverso i mezzi della tecnologia. Nell’età dell’infanzia e dell’adolescenza la formazione deve necessariamente avvenire nel contesto di una relazione, nell’essere con gli altri, attraverso il confronto continuo di pensieri e di emozioni.

Allora ricominciamo da questa considerazione di indispensabilità sociale. Tutto il resto dovrebbe venire di conseguenza.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di giovedì 8 maggio 2014]

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Futuro incerto con povertà educativa

Certe volte si ha l’impressione che il tempo si riavvolga, che la Storia ritorni su se stessa, che si ripeta come un incubo, che sul suo palcoscenico si replichi lo stesso dramma all’infinito, che quello che accade sia già accaduto. Certe volte leggendo rapporti, analisi, resoconti, si fa fatica a credere che si riferiscano a questi anni, a questi giorni, e quando poi ci si convince che invece è proprio vero, che si parla di questo tempo e non di un passato che si credeva – si sperava- non dovesse ripresentarsi mai più, allora si resta sbalorditi. Sbalordiscono i dati  del rapporto “La lampada di Aladino” di Save the Children sulla povertà educativa: in particolare sconcertano quelli riferiti al Sud. Allora uno si domanda che cosa significhi povertà educativa, se la povertà senza aggettivi non sia  già sufficiente per arrecare un’offesa all’umano. Questo si domanda e quando poi trova una risposta scopre il significato antico della povertà che genera povertà, e cresce, dilaga, contagia, e  più dilaga e più è difficile da arginare, più contagia e più è difficile da curare.  Valerio Neri, direttore Generale Save the Children Italia spiega che  “la povertà educativa è la privazione per un bambino e un adolescente della possibilità di apprendere, di sperimentare le proprie capacità, di sviluppare e far fiorire liberamente i propri talenti e aspirazioni. E’ una deprivazione che spesso si salda con quella economica e che può compromettere pesantemente non solo il presente ma anche il futuro di un bambino, a rischio di ritrovarsi, una volta adulto, ai margini della società e del mondo del lavoro”.

Povertà educativa significa pochi asili e poche scuole a tempo pieno, pochi libri, poco sport, poca arte, molta, troppa dispersione scolastica. Significa poco di quello che dovrebbe essere molto e molto di quello che dovrebbe essere poco o niente.

Si tratta di un fenomeno che attraversa tutto il Paese ma che al Sud si manifesta  con le caratteristiche di un’emergenza. Alla povertà economica si aggiunge quella educativa, creando un vortice che trascina, risucchia, non dà scampo. Secondo il rapporto, le regioni con un livello più alto di povertà educativa sono Campania,  Calabria, Puglia e Sicilia.

Dunque, è ancora una volta sul Sud che si abbattono gli effetti di ogni sorta di crisi, piegandolo e mortificando le generazioni che stanno venendo come hanno mortificato quelle venute prima. E’ per questo che la Storia certe volte prende la fisionomia di uno spettro.

Non so se economisti e sociologi ritengano che si debba intervenire prioritariamente sulla povertà economica o su quella educativa. E’ certo, però, che se non si interviene tempestivamente, con urgenza, sulla povertà educativa, il Paese chiamato Italia non avrà futuro. Perché non si può pensare di uscire dalla crisi, non si può pensare ad una ripresa economica reale e costante, se non si consente a tutti di costruirsi strumenti di pensiero che siano in grado di elaborare e realizzare il futuro.

Probabilmente la prima ferita che bisogna sanare è quella dell’abbandono scolastico, perché si tratta di una condizione che inevitabilmente determina depressione, marginalità, emarginazione. Non è facile pensare che una società del terzo millennio abbia difficoltà a progettare un intervento di contenimento del fenomeno. Si ha difficoltà a pensare che questo tempo che realizza progressi straordinari sul piano della scienza, della tecnica, della tecnologia, della ricerca,  che spesso evidenzia comportamenti di solidarietà, non riesca a trovare una soluzione al problema dell’abbandono, della dispersione. Queste due parole significano intelligenze sprecate, talenti bruciati, energie sperperate. Significano esistenze che non hanno prospettiva, analfabetismo che provoca il fallimento sociale, arretratezza, sottosviluppo, contrazione di possibilità, negazione di orizzonti. Ma anche, per conseguenza, crescita della disoccupazione, dell’ emigrazione, crisi senza via d’uscita, disuguaglianza, conflitti di classe. La povertà rende ciechi, impedisce di gettare lo sguardo oltre il soddisfacimento del bisogno urgente, stronca le prospettive, oscura il pensiero di un progetto di vita. 

Una comunità cresce in modo proporzionale alla sua capacità di sviluppare progresso e benessere; il benessere e il progresso si sviluppano a condizione che si abbiano conoscenze, competenze, strumenti per potersi confrontare con le richieste dei contesti culturali, del mercato, del lavoro, per poter  affrontare le sfide particolari e complessive di questo millennio.  Conoscenze, competenze, strumenti, si acquisiscono esclusivamente attraverso l’istruzione e la formazione.

E’ indispensabile investire su questo, dunque.

In una delle ultime pagine de “Il giovane Holden”, Salinger fa dire al suo personaggio: “ mi immagino sempre tutti questi ragazzini  che fanno una partita in quell’immenso campo di segale. Migliaia di ragazzini, e intorno non c’è nessun altro, nessun grande, voglio dire, soltanto io. E io sto in piedi sull’orlo di un dirupo pazzesco. E non devo fare altro che prendere al volo tutti quelli che stanno per cadere dal dirupo, voglio dire, se corrono senza guardare dove vanno, io devo saltar fuori da qualche posto e acchiapparli”.

Il dirupo è la condizione di povertà, tanto nel suo senso generale quanto in quello specifico di povertà educativa.

Ci si chiedeva qualche riga prima se occorra intervenire prima sulla povertà economica o su quella educativa. Ora, se la povertà economica deriva dalla mancanza di lavoro e se da decenni ormai i canali che portano al  lavoro richiedono una formazione che sia fortemente strutturata, forse la risposta può anche risultare del tutto scontata.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di martedì 20 maggio 2014]

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Lauree in Italia. La vergogna di essere ultimi

Ultimi veniamo noi. Dopo la Romania e la Macedonia, veniamo noi. Ultimi. Con un tasso di laureati fra i trenta e i trentaquattro anni immobile al 22,4%. La Germania si attesta al 33,1, la Francia  al 44 , il Regno Unito al 47,6 , la Spagna al 40,7,  il Portogallo al 29,2. La media europea è del 36,8%. Ultimi veniamo noi.

Più volte questo giornale si è occupato dell’argomento. Perché brucia. Perché lo squilibrio nella formazione comporta lo squilibrio in ogni altro settore. Se davvero si vuole la crescita del Paese si deve inevitabilmente cominciare a far crescere il capitale umano. Non c’è alternativa.

Si potrebbero indagare le cause di questo fenomeno, analizzarle, discuterle. Si può, certamente. Ma non servirebbe, non serve a niente. Serve configurare situazioni future, adesso. Quello che adesso serve è un progetto strutturale articolato in due fasi, essenziali: l’orientamento costante tra la scuola superiore e l’università; il nodo stretto tra l’università e il mondo del lavoro. Se manca o se non funziona perfettamente anche una soltanto delle due fasi, la forbice resterà inevitabilmente aperta e si chiuderà esclusivamente per tagliare saperi, competitività, economia, sviluppo, benessere, progresso. Non è più possibile perdere tempo. Al precariato che, oltre alle esistenze, umilia un Paese, non se ne può aggiungere altro. Si tratta, semplicemente, di una condizione per la sopravvivenza di una società. Si tratta di scegliere tra  mantenere marcato il profilo della cultura e della formazione oppure di abbandonarsi all’idea di una subalternità, anche di una colonizzazione.

Non c’è chi non affermi che dobbiamo essere protagonisti in Europa. Ma come, se non potenziando la condizione – forse l’unica condizione- che consente di esserlo. Se alla società di questo tempo abbiamo attribuito la suggestiva definizione di società della conoscenza (delle conoscenze), una ragione ci dev’essere.  La conoscenza che determina evoluzione è data dalla formazione. Allora occorre intervenire sulla qualità della formazione. La qualità ha bisogno di tempo, di approfondimento, di specificità e di trasversalità.

Diciamo anche che quando i nostri laureati se ne vanno all’estero sono i migliori. Ma se questo è vero, e molto probabilmente è vero, non si capisce per quale motivo non ce li teniamo. Perché quello che fanno da un’altra parte non possono farlo qui. Non si capisce. C’è sempre un sentimento di tristezza in ogni gesto di fuga. Anche nella fuga dei cervelli c’è un sentimento di tristezza: da parte di chi fugge e da parte di chi li vede fuggire, di chi sa perfettamente che si perdono energie, intelligenze, competenze, pensieri nuovi, pensieri forti.

Accade sempre più spesso di sentire giovani laureati che vogliono andarsene via. Alcuni lo fanno per scelta, perché si sentono attratti da questa esperienza. Va bene, benissimo. Ma quando lo fanno per necessità,  la cosa suscita  molta tristezza, davvero. Tristezza e rabbia. Perché altri sanno dar loro quello che noi non sappiamo dare.  Ancora più tristezza e ancora più rabbia perché si tratta di giovani del Sud. Sarà anche una tristezza e una rabbia provocate da una passione verso questa terra, ma oggettivamente il Sud ha più bisogno delle loro energie.

Quando lo fanno per necessità è perché si guardano avanti e non vedono niente, si guardano intorno e non vedono niente. Allora dobbiamo insieme con loro disegnare paesaggi riconoscibili. A questo serve il nodo fra università e contesti di lavoro. Non è facile, si sa. Sembra quasi impossibile. In trent’anni la situazione si è aggrovigliata. Ma bisogna riuscirci. Fino a quando non si riesce caleranno le immatricolazioni, e quindi il numero di laureati, e il confronto con l’Europa sarà sempre più difficile da reggere. Fino a quando non si riesce rimbomberà l’eco di quella parola amara che Eduardo De Filippo disse ai giovani del Sud: fuitevenne.

La scarsa considerazione sociale che si dà al titolo di studio trova la sua radice proprio nella difficoltà di rendere utilizzabili le competenze che quel titolo certifica.

Una laurea in ingegneria, in lettere, in biologia, in medicina, in architettura, una qualsiasi laurea deve trasformarsi in professione, in applicazione concreta delle competenze. Se non accade è come non mietere il grano maturo per fare il pane.

L’orientamento, si diceva.

Rivedere il sistema di orientamento è fondamentale.

Molti cominciano e non finiscono. Fanno la strada a metà. Il più delle volte accade perché hanno preso una strada che non gli piace, che non è quella che veramente volevano fare, che credevano fosse diversa, magari più dritta, più bella, più facile. Così abbandonano, si disperdono.

Che si sappia com’è la strada è straordinariamente importante.

A diciannove anni, uno di strade in testa ce ne ha tante. E’ bello così. E’ giusto così. Però è giusto anche che qualcuno gli faccia capire come sono in realtà le strade che ha nella testa, che gli dia gli strumenti per interpretare la relazione semantica fra il destino e la destinazione.  E’ onesto che gli si prospettino le difficoltà che comporta, i sacrifici che bisogna affrontare, che scorciatoie non ce ne sono, che per arrivare fino in fondo ci vuole la forza delle gambe e quella del pensiero, che talvolta ci si deve affidare soltanto a se stessi.

In parole povere orientare significa sostanzialmente far comprendere questo. Talvolta invece si usano parole ricche, che però confondono.

In fondo orientarsi significa definire una direzione all’interno di un sistema di riferimento. Questa competenza bisogna costruire innanzitutto. Non può farlo da sola la scuola superiore; non può farlo da sola l’università. Allora la condivisione di un progetto diventa necessaria. Anzi, urgente.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di venerdì 30 maggio 2014]

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Esami di Stato. Ma i nostri ragazzi sono già maturi

Gli esami di maturità, che formalmente si chiamano  esami di Stato, cominciano il giorno in cui si ha conoscenza dei nomi dei commissari esterni. Cominciano a quel punto  gli interrogativi, i batticuori, le ansie, le speranze, i tremori. Ritrovarsi in una classe quinta la mattina in cui si diffonde la  notizia, è una delle esperienze più affascinanti che si possano fare. Gli sguardi dei ragazzi, delle ragazze, sono l’espressione concreta dell’incertezza del destino che tocca agli umani. Quei nomi sconosciuti assumono fisionomie inquietanti. Poi si cerca di rassicurare, di convincere che quei nomi non costituiscono la prova inconfutabile dell’esistenza degli alieni. Per l’esame di quest’anno, i nomi dei commissari esterni sono stati resi noti qualche giorno fa.

Per il resto, a questo tipo di esame ci si è abbastanza tutti abituati, e  in qualche caso anche affezionati. Però, una diversa modalità  di rilevazione degli apprendimenti si rivela ormai pressoché indispensabile. Se non altro per il fatto che rappresenta una conseguenza  della revisione  degli ordinamenti, dell’organizzazione e della didattica  realizzata con i regolamenti del 15 marzo 2010, che riguardano licei, tecnici e professionali. Considerando che tanto gli elementi  normativi quanto gli indirizzi pedagogici attribuiscono rilievo alla necessità di valutare conoscenze, abilità e competenze acquisite al termine dell’istruzione superiore, una certificazione dei livelli formativi acquisiti non è solo una condizione di coerenza ma anche, e fondamentalmente, uno strumento significativo di orientamento verso gli studi successivi o gli orizzonti lavorativi a livello nazionale e internazionale.

La necessità di una certificazione delle competenze – fatta in modo sistematico e attendibile- non è un discorso nuovo.

Il Regolamento dell’autonomia, il DPR 275/99, faceva riferimento a modelli di certificazione di conoscenze, competenze, capacità acquisite e crediti formativi riconoscibili.

Che la certificazione delle competenze rappresenti una sorta di sviluppo naturale, viene dimostrato dal fatto che per la scuola primaria e secondaria di primo grado  essa sia prevista tanto dalla legge 169/2008 quanto dal D.P. R. 122/2009 ( il regolamento sulla valutazione).

In particolare per la scuola superiore, il decreto ministeriale  n. 9 del 27 gennaio 2010 introduce l’obbligo di certificazione delle competenze al termine della seconda classe.

Quindi si tratterebbe di potenziare un sistema, con modalità e strumenti calibrati all’ultima classe.  Anche perché ormai non c’è chi non sia convinto dell’opportunità – o della indispensabilità – di una valutazione in uscita dalla scuola secondaria che consenta la comparazione con gli altri Paesi europei, in modo da garantire agli studenti di questo Paese di poter dimostrare d’aver realizzato una formazione che non necessariamente deve invidiare quella  degli altri.

Ma forse la strada è lunga e anche tortuosa, se si considera che noi, qui, ogni anno, passiamo una settimana almeno a trastullarci con la rituale polemica sui risultati ottenuti agli esami dagli studenti del Nord e da quelli del Sud, invece di pensare qual è la prospettiva che diamo agli studenti del Nord, del Sud, del Centro, dell’Est e dell’Ovest.

C’è chi è profondamente convinto che la serietà dei discorsi deve cominciare da quelli che riguardano la scuola. Perché non ci può essere progresso, non ci può essere sviluppo,  non ci può essere futuro, senza un progresso, uno sviluppo, un futuro  della scuola.

Se si vuole, ed è anche giusto che la si voglia, una valutazione che tenda il più possibile all’oggettività, o che comunque risulti di indubbia attendibilità, allora la formula attuale delle tre prove scritte e del colloquio non può rispondere più a questa esigenza ed ancor meno può rispondere lo strumento del voto, in quanto, nonostante criteri predeterminati e indicatori  per ciascuna prova, l’incidenza che nella valutazione ha la commissione resta  comunque considerevole.

Poi c’è altro e di altro genere. Non è un caso, probabilmente, che, al di là degli aspetti formali, a questo esame si continui ad associare la parola maturità. Anche se la maturità non arriva con un esame, si avverte comunque il senso di una condizione di passaggio, una linea d’ombra nella trama dell’esperienza, la sensazione della conclusione del tempo dell’adolescenza e il principio di un’altra età che richiede un diverso impegno, una più esplicita responsabilità. Per la prima volta si profilano decisioni da assumere che diventeranno determinanti per il destino di ciascuno.

I ragazzi, le ragazze,  tutto questo lo sanno. Qualche  rara (e apparente) espressione di disinteresse proviene soltanto dalla spensieratezza che si ha esclusivamente alla loro età.

Ma è una spensieratezza sempre più offuscata. Queste generazioni, più delle altre che sono venute prima, hanno una lucida consapevolezza delle difficoltà che comporta la vita e la condizione del lavoro che della vita è parte essenziale.

Per questo è importante, imprescindibile, fondamentale,  che qualsiasi riforma da pensare e da realizzare si ponga come finalità sostanziale quella di dare a ciascuno e a tutti  ogni condizione che consenta di realizzare i progetti che hanno. Perché i progetti ce l’hanno, e sono belli, e forse sono i loro progetti che potranno permettere a questa società di riprendere fiato.

 [“Nuovo Quotidiano di Puglia” di martedì 3 giugno 2014]

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Tracce prima prova maturità 2014

Se si volesse cercare il nucleo semantico profondo delle tracce della prima prova degli esami di Stato che si è svolta ieri, lo si potrebbe trovare, probabilmente, nella dimensione e nella condizione della memoria: in tutte le sue relazioni, nelle implicazioni, perfino negli sforzi che fa per sopravvivere in alcune situazioni.

La memoria di sé e la memoria dell’Altro convergono e si congiungono in un sfera sola che assimila esperienze, le proietta in uno specchio sul quale si può riconoscere il proprio volto per poi scoprire, accorgersi, anche con stupore a volte, che il volto d’uomo, il volto di un solo uomo, rassomiglia straordinariamente al volto della Storia.

Non c’è stato frammento di esistenza, passaggio di stagione,  trasformazione della fisionomia di un luogo, non c’è stato pensiero né comportamento di creatura che nel corso del Novecento non si sia confrontato con la Storia: in modo consapevole o inconsapevole, a volte con serenità, a volte con sofferenza.

Gli argomenti proposti nei diversi ambiti, coinvolgono il senso  della memoria e ad esso inevitabilmente rispondono.

La poesia, la connotazione etica della dimensione del dono, il concetto di nuova responsabilità, le espressioni della violenza e della  non violenza, la pervasività della tecnologia, la comparazione fra l’Europa del 1914 e l’Europa di questi giorni, la grande scommessa urbana delle periferie, implicavano in modo esplicito o implicito, a diverso livello, una relazione con la memoria.

Tracce che consentivano analisi aperte, riflessioni profonde, la possibilità di contemperare le visioni e le versioni della Storia con quelle personali.

Così accade di pensare che se indubbiamente è vero che l’esame di maturità ha bisogno di una revisione sostanziale tanto nella struttura quanto nei contenuti, è altrettanto vero che la revisione non deve introdurre prove che impediscano l’espressione del pensiero nella sua originalità, nella sua irripetibilità, che non richiedano l’argomentazione personale; non ci si può limitare ad una formale  registrazione di conoscenze e competenze.

Se conoscenza, competenza, sapere, si realizzano e si esplicitano sempre ed inevitabilmente con una formulazione personale, l’esame – qualsiasi esame – deve proporsi con modalità e strumenti che traducano ed esprimano la personale elaborazione del sapere.

D’altra parte, una modalità di questo genere risulta coerente sia con l’attualità e la consistenza di correnti pedagogiche sia  con le norme che indirizzano verso la personalizzazione dei piani di studio e, per conseguenza naturale, verso la personalizzazione degli esiti formativi.

Che si cambi l’esame è ormai necessario, indubbiamente. Ma si deve fare attenzione a non stravolgerne gli aspetti essenziali.

Perché a volte può succedere. Per esempio può succedere quando si pretende un’oggettività nelle faccende che oggettive non possono essere.

La conoscenza è una condizione connaturata  nell’esistenza, e l’esistenza è la più soggettiva delle faccende.

Quello che invece si deve cercare, quello da cui non è possibile prescindere, è una sempre maggiore aderenza delle forme e dei contenuti dell’esame alla realtà e all’immaginario di chi lo deve sostenere: alle sue concezioni del mondo e della vita, al suo linguaggio, alle storie che vive, al modo di pensare  se stesso e gli altri, di rappresentarsi nel contesto al quale appartiene, di sentire quell’appartenenza.

In una parola alla sua cultura, che comunque ha radici in una storia e che con quella storia si deve confrontare.

Se si vuole che la cultura si rigeneri costantemente, non si può che sostanziarla di elementi di rigenerazione.

Gli elementi di rigenerazione di una cultura sono quelli portati dalle generazioni che arrivano.

Almeno su questo non c’è da discutere. Per cui la struttura dell’esame di Stato che sarà non potrà fare a meno di tenerne conto. Perché questo esame costituisce ad un tempo la conclusione di un percorso e il principio di un altro che su quello già fatto necessariamente si fonda.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di giovedì 19 giugno 2014]

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Giovani senza riferimenti? Rileggiamo il Novecento

Spesso, insistentemente, ci accade di dire che i giovani non hanno, non trovano, non riconoscono punti di riferimento, che si muovono senza direzione, senza orientamento. E’ vero, forse: perché poi non sappiamo se non abbiano riferimenti che ci sfuggono perché completamente diversi dai nostri. Però se consideriamo che sia vero, allora appena diciamo che non hanno riferimenti dobbiamo continuare chiedendoci anche quale sia il motivo di questa mancanza, chi aveva il compito di darglieli e non ha voluto o saputo fare il compito. Certo, poi ciascuno risponde come crede, in ragione della propria coscienza e conoscenza, e le risposte possono essere innumerevoli e non condurre a nessuna soluzione.

Una delle risposte più frequenti è che questo tempo è così: senza valori, senza riferimenti, senza punti fermi. Il tempo. Come se il tempo storico, quello di una civiltà, di un’epoca, fosse una dimensione astratta e non una condizione determinata da chi abita quel tempo, da chi fa la sua storia, da chi disegna le forme della sua cultura.

Allora, se si è convinti  che i giovani non abbiano riferimenti, che non possano trovarne neanche in questo presente, non si può fare altro che volgersi indietro, verso il passato più prossimo, verso il luogo da cui si proviene.

Si proviene dal Novecento. Secolo delle contraddizioni, dei contrasti, dei contrari, delle incertezze, delle negazioni, in ogni contesto sociale, in ogni sfera del sapere. Forse la letteratura può costituire una sintesi di questa condizione.

Allora, se si dovesse consigliare qualcosa da leggere, che in qualche modo possa costituirsi come riferimento, come traccia di senso, che tenti di colmare anche solo in minima parte un vuoto, che cosa si potrebbe dire. Certo, bisognerebbe fare selezioni, e le selezioni sono sempre arbitrarie, rispondono a criteri soggettivi. A volte quello che si esclude conta di più di quello che si include. Si potrebbe dire che non si può capire il Novecento se non si legge  Eliot. Ma non si capirebbe nemmeno se non si leggesse Gozzano, e Montale, non si potrebbe capire senza leggere Joyce o Kafka o Salinger, o Buzzati, Svevo, Tozzi, Moravia, Mann, D’Arrigo, Marquez,  la Woolf e la Yourcenare certamente qualcuno direbbe Pavese, Calvino, e Luzi e Penna, e ciascuno avrebbe una biblioteca personale da consigliare, e verrebbe in mente quando nel Sipario ducale di Paolo Volponi, Gaspare dice i libri, i libri, “debbo cominciare a scegliere quelli da portar via. Bisogna scartare quelli inutili, e anche quelli penosi, e anche quelli indulgenti”. Perché ci sono anche libri inutili, penosi, indulgenti.  Poi, probabilmente dare consigli sarebbe anche irrispettoso. Forse si potrebbe cavarsi d’ogni impaccio dicendo semplicemente come dice Agostino: tolle, lege. Prendi e leggi.

Dicendo semplicemente: prendi un libro di carta, prendi un e-book, come vuoi tu, vedi quando è stato pubblicato, comincia a leggere, se ti piace continua, se non ti piace lascia perdere, forse lo riprenderai un’altra volta, forse non lo riprenderai mai più, ma non importa, importa che tu legga quello che ti attrae, importa che quello che leggi te lo senta addosso, dentro, che possa ritornarti nel pensiero in certe situazioni, in certi passaggi di stagione, che quel personaggio ti diventi maestro, amico, compagno di strada, e non crucciarti se c’è qualcosa che non capisci in una poesia, per esempio, perché ci sono poesie che non sono fatte per essere capite, ma per essere mangiate, come un grappolo d’uva.

Ecco. Forse si potrebbe indicare la letteratura del Novecento, come riferimento. Oppure che cosa? Indubbiamente la storia. Ma tutta la storia del Novecento sta nella sua letteratura.

Mi sforzo di trovare altri riferimenti, ma non ci riesco. Penso alla parola valore. I valori. Ma è un termine generico e comunque se ce ne sono stanno sempre lì, nella letteratura, o almeno in essa sono rappresentati nella maniera più significativa. Anche i valori che ci ha consegnato la storia sono rappresentati nella letteratura.

Aveva ragione il Nobel Josif Brodskij quando diceva che la letteratura è un dizionario, un compendio di significati per questo o quel destino umano, per questa o quella esperienza. Poi aggiungeva che la sua funzione è quella di salvare il prossimo uomo, un nuovo venuto.

Tessere una rete di riferimenti che abbiano consistenza, durata, profondità di senso, che consentano di salvarsi dal naufragio, dal disperdersi nel bosco, è un compito essenziale che ogni generazione deve assumere nei confronti del prossimo uomo, del nuovo venuto.

Si ipotizzava che i giovani i riferimenti ce l’abbiano e che siamo noi a non riconoscerli. Però è abbastanza probabile che siano circoscritti al presente, che  non siano forti, che vengano determinati da modelli vaghi, dal mercato più che dalle idee, quindi cambiano rapidamente, passano, e talvolta sono inutili, qualche altra volta anche nocivi.  Qualcuno, dunque, deve dar loro idee, buone, robuste idee, sulle quali costruirne altre che facciano luce durante il cammino.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di giovedì 26 giugno 2014]

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Scegliere la facoltà con la ragione del sentimento

Ci sono quelli che hanno scelto da tempo: qualcuno lo ha fatto già quand’era bambino e si è portato dietro e dentro quell’idea di un lavoro da fare da grande. Ci sono quelli che fino all’ultimo minuto restano incerti, disorientati, dubbiosi, a volte perché di idee ne hanno troppe, e quando si hanno troppe idee può accadere che ci si confonda. Negli anni la scelta dell’università si è fatta sempre più difficile. L’incertezza delle possibilità, delle prospettive, molto spesso ha costretto i ragazzi a rinunciare ai desideri. Forse è vero che scegliere una strada non è stato mai facile per nessuno; forse è vero che non è stato mai tanto difficile quanto adesso. I ragazzi si guardano intorno e vedono vicoli ciechi. Certo, ogni anno ci sono i giornali che confezionano la loro guida all’università, che pressappoco è com’è stata l’anno prima, perché in fondo non può essere diversa, perché in fondo è cambiato poco, perché forse non è  cambiato niente. Talvolta uno sceglie in base alle previsioni di quello che sarà il mercato del lavoro fra cinque, sei, dieci anni. Ma non sono rari i casi in cui quelle previsioni non fanno altro che dire quello che tutti sanno o possono dedurre facilmente guardando il tempo. In un giorno di agosto con quaranta gradi all’ombra, non c’è bisogno degli indovini per sapere  che domani farà caldo e anche domani l’altro, come non ce n’è bisogno in un giorno nevoso di febbraio per sapere che farà freddo certamente. I dubbi stanno nelle stagioni di mezzo, di passaggio, quando il tempo cambia rapidamente, quando tra le nuvole s’intravede il sole e un istante dopo non si vede più, quando il vento cambia continuamente direzione. Questo tempo è una stagione di mezzo. E’ difficile scegliere perché è difficile prevedere. Poi, in base alle previsioni, a volte può anche accadere che si scelga quello che non si vorrebbe, percorsi di studio che non ci si sente addosso, per i quali non si avverte passione o interesse, e senza passione, senza interesse, il rischio dell’abbandono, della dispersione diventa alto, forte. Nelle stagioni di mezzo, quando nessuno è in grado di dirti se piove o se tiene, probabilmente conviene affidarsi all’istinto per portarsi dietro o per lasciare a casa l’ombrello. Allora, guardando il tempo di questa stagione di mezzo, nella scelta dell’università forse conviene affidarsi all’istinto. Nei fatti della formazione, della cultura, l’istinto si può chiamare anche sentimento. Come per tutte le cose della vita, anche per il sapere si prova un sentimento, un coinvolgimento, un’attrazione. C’è una parte di sapere che attrae di più, coinvolge di più, un’altra di meno, un’altra per niente. Con il sapere si convive, nella buona e nella cattiva sorte, e non si può convivere né con qualcuno né con qualcosa per cui non si prova sentimento, che non attrae, non coinvolge, non affascina, non appassiona.  Oppure si può fare ma a prezzo di una sconfinata tristezza, forse anche di una sconfinata infelicità. Certo, è giusto che nelle scelte ci si orienti anche seguendo una ragione. Ma il sentimento non esclude la ragione. Esiste una ragione del sentimento. Non c’è studio – o forse non c’è nulla di essenziale nella vita – che non comporti sacrificio. Per qualcosa verso la quale si prova passione, si è disposti a fare anche lunghi sacrifici; per quello che non richiama, non seduce, sacrifici non se ne fanno, o si fanno fino a un certo punto. Poi si dice basta, non ne vale la pena, non è quello che volevo. Quando si abbandona lo studio è soprattutto per questo, perché non c’è una ragione del sentimento che costituisca una motivazione profonda, non c’è un’attrazione irresistibile, un sogno al quale non si può e non si vuole rinunciare. Si abbandona quando ogni esame diventa il passo di una via crucis, quando le cose che sono scritte nei libri non suscitano nessuna curiosità, nessun interesse, quando ci si dice non voglio passare tutta la vita impastando questi argomenti. Si abbandona per questo. Non perché le tasse sono troppe, per le difficoltà economiche, per la crisi. Questi sono alibi o teorie di cosiddetti specialisti che non tengono conto della storia. La storia del dopoguerra dice di ragazzi, di ragazze, che lasciavano i paesi contadini e se ne andavano a studiare fuori, mangiavano a mensa un giorno sì e cinque  no, in quei cinque si nutrivano con i fichi secchi che si erano portati nella valigia, vivevano in gruppo in una camera con il mobilio che era il palcoscenico dei tarli, studiavano in posizioni di fortuna. Mi raccontava un signore, che è un fisico di livello internazionale, di aver trascorso tutti gli anni dell’università seduto sul water. A studiare. Un compagno di stanza s’era impossessato del tavolinetto con tre gambe, un altro del davanzale dell’unica finestra. A lui era rimasto il bagno.  Usciva quando l’ambiente serviva per i bisogni degli altri due, e poi rientrava. Si narra che un accademico  di queste parti studiasse la letteratura alla fiamma dei ceri del cimitero del suo paese. I sacrifici non sono riusciti neppure a scalfire la loro ragione del sentimento. E’ stata questa ragione a costituire l’energia che ha mosso l’ascensore sociale. Su questa ragione, probabilmente, si devono fondare le scelte degli studi universitari da fare. Perché ora come allora si vive in una stagione di mezzo che pretende una fiducia soprattutto, o forse soltanto, nei confronti di se stessi.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di domenica 13 luglio 2014]

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Connessi col mondo ma “malati” di solitudine

Sotto gli ombrelloni schierati come falangi, gli umani non guardano il mare. Scrutano l’orizzonte conchiuso dei loro display. Navigano. Forse si abbandonano a naufragi solitari. La conversazione si è ripiegata su stessa, si è consegnata ad un silenzio innaturale. Certo, si discute. Si dibatte. Si polemizza. Si litiga. Si questiona.  Ma non si conversa più. La conversazione si è ritirata da qualsiasi  luogo, da ogni contesto: non appartiene più alla casa, non alla strada, non alla piazza. Sarà perché manca il tempo, o sarà perché abbiamo perso l’abitudine, il costume, non abbiamo più un’educazione alla conversazione. Sarà perché siamo stati male educati dalla televisione, daquell’arenadella contrapposizione, del duello verbale, della verbosità prevaricante, dei talk show rissosi in cui non c’è nessuno che ascolta,  in cui ha sempre ragione, anzi vince, chi urla più forte, chi sa aggredire con il linguaggio spregiudicato, talvolta anche  feroce. Sarà perché non abbiamo o diciamo di non avere più tempo, perché ci lasciamo travolgere da una frenesia provocata dall’inessenziale, per cui non si indugia a raccontare, ad ascoltare, ci si limita a comunicare con una rapidità che brucia ogni condizione di prossimità, di vicinanza, di comunione. Non c’è apertura, non c’è confronto, incontro, disponibilità, interazione.    Sarà anche perché i mezzi della tecnologia si sono impadroniti di ogni tempo e di ogni spazio. Per esempio.   Una volta la carrozza di un treno era la metafora della conversazione collettiva: storie che cominciavano, s’intrecciavano, si interrompevano ad una fermata, ricominciavano con altri narratori, nuovi personaggi che tessevano le maglie dei loro racconti  nella rete di quelli che si stavano svolgendo. Una volta, nella carrozza di un treno, per il breve o lungo tempo che durava il viaggio, nessuno si sentiva forestiero perché ognuno, con la parola o con l’ascolto, prendeva parte delle storie. Adesso la carrozza di un treno è la metafora dell’essere solo con altri che sono soli. Non c’è parola; non ci sono storie; non c’è conversazione. Si è lontani  da tutto quello che c’è intorno; non si ha nessuno accanto; non scorre nessun paesaggio dal finestrino. Esiste solo la relazione con il tablet, con il cellulare, attraverso i social. Si cerca il contatto con esistenze lontane e virtuali e si ignora ogni rapporto con esistenze vicine e reali. La scomparsa – o comunque il progressivo ridursi – della conversazione, non solo si riflette negativamente  sulle relazioni interpersonali, ma  incide significativamente sui processi della conoscenza informale che della conoscenza rappresenta una parte considerevole. Se la conversazione è un incontro con l’altro e se l’altro è sempre, in qualsiasi situazione e condizione, un soggetto che porta conoscenze ed esperienze, il contrarsi della conversazione genera la conseguenza di una contrazione dello scambio di conoscenze ed esperienze. Così ciascuno di noi si ritrova con una conoscenza che non si espande, non si riproduce, non si sviluppa, se non attraverso processi formalizzati che però  non possono avere l’esclusiva della formazione delle conoscenze. Si ritrova con esperienze che non costituendosi come maglie di una rete, non integrandosi con altre esperienze,  esauriscono la loro funzione nello stesso tempo in cui si realizzano. Poi, forse l’aspetto più importante, e più affascinante, di una  conversazione è la relazione tra identità, che nelle situazioni più consuete e informali avviene senza schemi, senza schermi, senza finzioni, in una condizione di spontaneità e di autenticità che in altre situazioni comunicative si ritrova di rado. Un esempio, ancora. Li ho visti, alcune sere fa,  seduti sul muretto di un lungomare. Cinque, sei, ragazzi, ragazze. Chiusi in un mutismo irreale, con un oggetto fra le mani con il quale comunicavano forse con il mondo intero ma non fra di loro.  Non si rivolgevano una sola parola, un solo sguardo. Nessuno di loro c’era per l’altro che gli stava accanto. Quell’oggetto aveva creato un muro invisibile che li separava. Una cosa del genere può anche fare spavento, a pensarci. Come si fa a starsene così, insieme,  tra amici, senza parlare, a quell’età, poi. Come si fa a non avere la voglia di raccontare avventure vere o immaginarie, a non dire che cosa si vorrebbe, a non interessarsi di cosa vorrebbero gli altri. Ci sono ragazzi che  passano intere giornate a contatto soltanto con il loro computer, con il loro cellulare, richiamati da sirene senza parola. Qualcuno dirà anche che è normale, che il loro modo di comunicare è quello. Però qualcuno può dire anche che in quel modo si destinano alla solitudine; allora quel modo fa spavento. Noi, gli adulti, non abbiamo saputo, non sappiamo fargli capire il valore che ha la parola nello stare insieme. Con la scomparsa della conversazione scompare anche la spontaneità e l’autenticità della relazione fra le identità, la dimensione emotiva e affettiva del comunicare. Ci si parla con una sorta di velo opaco che nasconde il sottinteso, l’interdetto, l’espressività. Mostriamo identità truccate o comunque superficiali. Un profilo sulla pagina di un social. Un’immagine costruita per apparire nel modo in cui si vuole, forse in quello in cui si vorrebbe essere. Le nostre amicizie sono profili: non esistenze con le loro virtù, i loro vizi, le loro passioni, le loro parole, i loro silenzi, le loro storie; profili vuoti e inespressivi, talvolta anche nascosti dietro un simbolo. Le nostre relazioni le chiamiamo contatti, non affetti, confidenze, affiatamenti. Freddi contatti. Profili che condividono  la superficialità e la consapevole o inconsapevole menzogna con cui sono tratteggiati. Nient’altro. Per ore restiamo in contatto con la fissità di quei profili, e invece potremmo parlare di quello che capita con chi sta facendo la stessa cosa nell’altra stanza, oppure andarcene  in piazza, o soltanto metterci sulla soglia e parlare con il primo che passa del tempo che sta per piovere o della siccità che tormenta la campagna. Per testimoniarci di essere ancora umani, che esistono ancora umani cui è stato concesso il dono dell’emozione e della parola.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di venerdì  18 luglio 2014]

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La lettura àncora di salvezza dell’italiano

L’urlo si alza contratto, disperato, si spande tra le colonne del giornale, poi si avvolge,  si ripiega su se stesso, si schianta sul muro della consapevolezza che  l’irrimediabile comunque è stato consumato.
Su “Repubblica” Guido Ceronetti confessa il proprio semifallimento per non essere riuscito in qualche modo, per quanto poteva, per quello che poteva, a contrastare il degenerare della lingua: di questa lingua. Contaminata, saccheggiata, svuotata di pregnanza, della sostanza di senso, intorpidita, intorbidata, rattrappita, sciatta, risucchiata dalla superficialità, dal luogo comune, dall’espressione fatua, trita, senza nerbo, serva di  mode frivole, capricciose, insidiata dalle parole d’altre lingue, talvolta per nulla necessarie; prostituita all’angloamericano, dice Ceronetti. E’ una lingua che naufraga e nel naufragio lancia forse un ultimo s.o.s., i tre punti-tre linee-tre punti che lui sente da vicino e in lontananza. Forse non è soltanto lui che avverte l’s.o.s. Forse lo avvertono tutti quelli che hanno un po’ di orecchio e un po’ di sentimento, ma come lui rinunciano ad opporsi. Si arrendono. Si sono già arresi  all’invasione inarrestabile, incontenibile, travolgente, al conformismo, all’appiattimento.
Se la lingua nella quale ho scritto, si chiede Ceronetti, quella nella quale ho pensato, parlato, con cui ho amato, manda questa richiesta di soccorso, come si può restare insensibili. “Qui sta il mio fallimento”, dice. “L’impossibile non mi è diventato possibile, morirò e la lingua seguiterà a gridare soccorso fino allo spegnimento”.
Ceronetti pensa e scrive come può pensare e scrivere un sacerdote della lingua. Come chi è abituato a cercare fra innumerevoli parole quella insostituibile, definitiva, assoluta.  Rifiuta l’approssimazione, la genericità,  l’imbarbarimento, la deformazione, la corrosione, la corruzione. Finge di dimenticare quel pensiero dello Zibaldone del 26 giugno 1821 in cui Leopardi dice che le lingue sono sempre il termometro dei costumi, delle opinioni delle nazioni e dei tempi, e seguono per natura l’andamento di questi. Lo hanno detto, lo dicono in tanti, tutti. Una lingua si trasforma, subisce influenze, prende in prestito parole da altre lingue, da nuove situazioni, nuovi contesti, lavori, oggetti, strumenti, mezzi,  dal mutare dalle esistenze.  E’ normale che sia così, è inevitabile; è anche giusto.
Però forse non è giusto che le nuove forme, il neologismo, il forestierismo, stravolgano l’identità di una lingua. Se è normale che cambi la fisionomia, non è normale che cambi l’identità.
In fondo agli uomini accade la stessa cosa. Si guardano cambiare nella fisionomia; accettano, non potendo fare nulla per impedirlo, che il tempo trasformi il loro corpo, che a volte infierisca, anche, ferocemente. Ma non accettano di mutare identità, non accettano la dispersione della memoria. Quando accade, sentono dolore.
Forse l’identità di una lingua è definita dalla sua letteratura, da quell’insieme di testi che la rappresentano nell’ evoluzione, che ne trasmettono e ne rigenerano la memoria. Forse l’identità è delineata e marcata dai classici.
Per Ceronetti, lo snaturamento  della lingua italiana è stato provocato anche dall’ abbandonato del latino e del greco. Sarebbe un discorso lungo, complesso. A un certo punto abbiamo detto che non ci servivano più le lingue morte. Certo, va bene l’inglese, il francese, il tedesco, l’arabo, il cinese; molteplicità di lingue vuol dire molteplicità di pensieri; molteplicità di pensieri vuol dire maggiori possibilità di libertà.
La conoscenza delle lingue straniere è un fatto di cultura e di civiltà. Se non si conoscono le lingue straniere di questi tempi non si può nemmeno uscire in piazza nel proprio paese.
Ma perché non più il latino e il greco. Come se l’uno e l’altro servissero solo ad imparare le parole, come se tradurre servisse solo a trasporre e non a formare, a consolidare, le strutture cognitive. Come se non servisse a ricostruire l’origine delle parole, a comprenderle  nella loro essenza, nella profondità.
Non vede possibilità di salvezza, Guido Ceronetti. Pensa a un declino irreversibile. L’italiano, per lui, è ormai una lingua perduta, morta come quelle che l’hanno generata.
Umilmente vorrei permettermi di screziare con un filo di luce il suo pessimismo, di intravedere una possibilità: ancora una. L’ultima, forse.
Forse l’ultima possibilità che abbiamo di riprenderci la lingua, di recuperare un sentimento dell’identità linguistica, è la lettura. Se il degrado linguistico è arrivato al punto di cui dice Guido Ceronetti, al punto di cui ognuno di  noi può rendersi conto se ancora è in grado di rendersi conto, se non si è connaturato alla personalità, probabilmente una delle cause consiste nel progressivo abbandono della lettura. Non leggiamo più. Non leggiamo più con la lentezza che consente la riflessione, l’assaporamento delle parole, la loro acquisizione nel nostro vocabolario. Oppure leggiamo quei libri che piegano il lessico e la sintassi e la trama alla lingua della televisione, a quella della strada – che rispecchia anch’essa quella della televisione-, che riducono, abbassano, appiattiscono il livello dell’espressione, dissipano il congiuntivo, immiseriscono la metafora, che strizzano la sintassi fino a seccarla, che riproducono forme e formule appunto senza identità; leggiamo quei libri che sono tutti uguali, il best seller scaricato nelle librerie dai tir del mercato, e quegli altri – i libri veri- li abbiamo catalogati sotto la voce “classico”, cioè inservibile, cioè superato, quando invece è esattamente il contrario. Quando invece si tratta di libri fatti con parole pensate, profonde, che servono in ogni tempo e forse anche in ogni situazione, in ogni condizione del vivere. Che in Italia si legga poco e si legga male lo dicono puntualmente i resoconti, le statistiche, le indagini.
Abbiamo un’ultima possibilità, dunque. Poi avrà definitivamente ragione Ceronetti. Poi si spegnerà anche il sussulto dell’ s.o.s. Poi parleremo tutti e scriveremo tutti come robot programmati da un sistema che non vuole personalità linguistiche. Che non vuole personalità in genere. Che vuole consumatori obbedienti e fedeli, che non hanno pensiero, interrogativi, dubbi, che non cercano risposte, non indagano le cause dei fenomeni, dei fatti, che pensano tutti la stessa cosa, parlano tutti con le stesse parole, e siccome le parole sono il volto, sono le emozioni, sono le storie di chi le pronuncia, avremo tutti lo stesso volto, le stesse emozioni, le stesse storie.

 [“Nuovo Quotidiano di Puglia” di giovedì 25 luglio 2014]

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l Sud ha bisogno di sentimento per ripartire

Ha poco meno di quarant’anni e due lauree in materie scientifiche, master, stage, tirocini in Italia e all’estero, pubblicazioni su riviste prestigiose. Il lavoro in un altro Paese ce l’aveva. Poi si è detto che voleva, che doveva, essere utile qui, dov’è nato, dove ha studiato, a Sud, a Sud del Sud.
Così ha imbagagliato tutto ed è tornato. Che stava sbagliando glielo hanno detto in tanti, in troppi forse. Però lui comunque è ritornato e ha cominciato il pellegrinaggio dei colloqui di lavoro, dell’invio del curriculum. Sono passati due anni da quando è tornato. Non si arrende, non si deprime. Continua. Si dice che deprimersi significa fare il gioco di un sistema ottuso e perverso. E’ difficile, lo sa. Più difficile che in altri tempi. Da un giorno all’altro i muri si fanno sempre più alti, sempre più difficili da scavalcare, hanno in cima i cocci aguzzi di bottiglia di cui diceva Montale. Ma la vita è questa, pensa, e allora continua, e se ne frega di chi gli ripete in continuazione che ha sbagliato a ritornare.
Tutte le volte che gli dicono che ha sbagliato a ritornare, che gli rimproverano di essere tornato, lui dice che è tornato per amore, per cui non è pentito.
Di quello che si fa per amore non ci si può pentire.
Lui è tornato per amore di questa terra.  Ci crede. Crede nel suo passato, nella sua storia, nelle possibilità di futuro.
Qualcuno gli dice che si trastulla con le illusioni. Lui risponde che senza questo trastullo, non sarebbe mai cambiato niente, non potrà mai cambiare niente.
Che il progresso di una terra sia determinato in misura considerevole dalla cultura è una considerazione scontata; che non ci possa essere uno sviluppo economico sostanziale e duraturo senza un legame serrato, una prossimità forte, con la cultura è altrettanto ovvio. Quello che forse non è sempre ovvio è che il termine cultura occorre riempirlo di concretezza, perché a volte – e non di rado – si dice cultura abbandonando la parola  nel vago, per cui non diventa difficile la confusione, diventa facile la sua subordinazione a mode e modelli estemporanei, privi di sostanza e di sostrato. Forse si potrebbe dire semplicemente che la cultura di una terra è definita da una rete di conoscenze e competenze che tutti coloro che vivono, pensano e lavorano in quella terra contribuiscono ad intrecciare.
Si tratta, chiaramente, di una condizione in costante divenire, che si struttura, si potenzia, si confronta con  gli indicatori sociali, le esigenze del mercato e del lavoro, le condizioni economiche, le risorse umane e materiali, la qualità della vita, i percorsi della storia, i significati del passato, le situazioni del presente, le tensioni verso il futuro.
Se questo è vero, allora è altrettanto vero che per la cultura di una terra e per il suo sviluppo, le conoscenze e le competenze di ciascuno, da integrare, contemperare, da far interagire con quelle di ciascun altro, si rivelano indispensabili. E’ altrettanto vero che non si possa fare a meno di energie nuove, tanto di quelle specialistiche, quanto di quelle trasversali, di quelle che analizzano e intervengono sui particolari e di quelle che scrutano e prevedono il trasformarsi dei panorami.
Se si deve costruire un aeroporto c’è bisogno dei tecnici, certamente, ma con molta probabilità anche degli antropologi.
Allora viene da chiedersi, inevitabilmente, se una terra possa crescere, non restare indietro di uno, due, tre passi, di uno, due tre decenni, senza assimilare pensiero nuovo, nuove energie, nuove conoscenze e competenze, nuove visioni, nuovi sentimenti.
Così, senza approfondite riflessioni, viene da rispondersi di no. Non è possibile.
Ma lui, qui,  il lavoro non lo trova, e come lui tanti altri. Pensieri, energie, capacità che si disperdono, che non possono risultare utili a questa terra, visioni che rimangono indefinite. Eppure potrebbero cambiare scenari, creare occasioni, potenziare i processi, accorciare le distanze con altre realtà, smentire la storia che il Sud viene dopo. Intraprendere un nuovo corso.
Glielo avevano detto tutti che stava sbagliando. Ma lui aveva un sentimento, e non li ha ascoltati. Ecco. Forse questo Sud ha bisogno anche di un sentimento, antico e nuovo allo stesso tempo, radicato e sbocciante, di una passione che sia più forte delle difficoltà, che riesca a rimuovere i massi che a volte sbarrano le strade. Di un sentimento ha bisogno questo Sud, ha bisogno questa Italia. In fondo, a pensarci, la crescita e lo sviluppo di un Paese ricostruito sulle macerie, ha avuto come motivazione profonda, essenziale, un sentimento comune, di uomini e donne comuni, che hanno lavorato in silenzio, che a volte, non poche, hanno sofferto la fame, e poi hanno messo qualcosa da parte, hanno costruito le case, per dare a quelli che venivano quello che loro non avevano avuto. Forse è solo con questo sentimento che si può ricominciare.


[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di lunedì 18 agosto 2014]

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Soltanto con lo studio si può costruire il futuro

Una domanda che spesso passa fra i discorsi comuni di gente comune, che magari non sa che la cosa che si chiede sia in realtà già accaduta, che magari fa un po’ di confusione fra la fantascienza e la realtà, è se domani o domani l’altro i computer ci sostituiranno. Se per esempio guideranno l’auto e noi ci limiteremo a fare da inconsapevoli passeggeri, considerando peraltro il fatto che risulta abbastanza diffusa quell’auto con sensori (si chiamano così?) che in fase di parcheggio impediscono di dare una botta a quella che sta davanti e una a quella che sta dietro, che hanno una serie di optional per cui mentre guidi ti annoi mortalmente. Oppure se il computer sostituirà il medico, l’elettricista, il calzolaio, il farmacista, il maestro di scuola con i suoi bambini, quello di ballo con i suoi ballerini, il libraio e il bibliotecario, il correttore di bozze, il traduttore, l’avvocato, se sostituirà l’amico, la moglie, il marito, i figli, la suocera, l’amante. Si tratta appunto di discorsi comuni di gente comune che non sa, per cui se chi legge questo articolo è  a conoscenza che  si sia già verificato quello che qualche riga sopra con banali esempi veniva ipotizzato, può anche smettere di leggere a questo punto.

Certo, anche la gente comune sa che molte faccende che una volta doveva sbrigare l’uomo ( e la donna) impiegando per il disbrigo un certo tempo e un certo costo, ora vengono sbrigate dal computer in un tempo molto breve ed a costo molto basso, e sa pure, la gente comune, che (anche) questo ha determinato problemi di disoccupazione, perché laddove servivano venti braccia forti o venti forti teste, adesso le braccia possono essere sostituite dall’indice di una mano che pigia sulla tastiera e le teste da un programma appositamente elaborato.

La gente comune pensa che faremo la stessa fine dei cavalli.

Ricordo la storia di un mio antenato che si guadagnava la vita arando i campi con il cavallo. Un giorno, mentre arava, vide entrare in un podere confinante un uomo con una macchina strana, che arava.

Fermò il cavallo. Guardò l’uomo con la macchina strana. Si arrotolò una sigaretta. Sorrise beffardo e disse tra sé: non dura.

Nel giro di un anno portò al macello il baio e abbandonò l’aratro nella rimessa. Dal fondo di una botte tirò fuori i risparmi e comprò un trattore.

Ma la gente comune si consola pensando che si tratti soltanto di discorsi comuni, fatti così: per passare il tempo. Anche se a quella gente viene in mente che, se non ricorda male, fu Keynes che in un discorso del 1930,  in un clima economico depresso al quale il nostro molto rassomiglia, disse  che quello di cui soffriamo non sono acciacchi della vecchiaia, ma disturbi di una crescita fatta di mutamenti troppo rapidi e dolori di riassestamento da un periodo economico a un altro. L’efficienza tecnica è andata intensificandosi con un ritmo più rapido di quello con cui riusciamo a risolvere il problema dell’assorbimento della manodopera. Nei decenni che sono venuti, l’efficienza tecnica si è potenziata ulteriormente e con ritmi sempre più accelerati. Com’è giusto che sia, perché il progresso comporta questo.  I tempi di assorbimento della manodopera si sono dilatati, il fabbisogno è diminuito. Come non è giusto che sia, perché il progresso non deve comportare questo ma il contrario. Il progresso deve comportare la valorizzazione dell’essere umano, del suo pensare e del suo fare, del suo ingegno e della sua opera.

Poi un giorno alla gente comune capita di sentire la notizia che  Stephen Hawking, il fisico di fama planetaria, che proprio comune non è, in un editoriale su un giornale britannico ha scritto che il successo nel creare l’intelligenza artificiale potrebbe essere il più grande evento dell’umanità ma sfortunatamente anche l’ultimo, soprattutto se l’intelligenza artificiale si affrancherà dalla dipendenza umana, se dovesse sfuggire al suo controllo. Capita anche di sentire che c’è qualche azienda con l’obiettivo dichiarato di costruire un computer che pensa esattamente come un essere umano, ma a differenza dell’essere umano non ha bisogno di mangiare o di dormire.

Poi alla gente comune, per caso capita di leggere un articolo di Federico Rampini su “Repubblica” in cui si dice che nel processo di  re-industrializzazione dell’America si sta sottovalutando il fatto che le nuove fabbriche impiegano poca o nessuna manodopera umana in quanto puntano sulla robotica, sull’automazione pressoché totale, nella convinzione che “l’impresa del futuro impiegherà solo un uomo e un cane. L’uomo deve nutrire il cane. Il cane deve tenere l’uomo lontano dalle macchine”.

Davanti a queste prospettive la gente comune si spaventa. Non soltanto perché si inceneriscono le possibilità di lavoro, ma perché si inceneriscono in genere le facoltà dell’uomo.

Si spaventa, dunque, la gente comune, ma poi un poco si rasserena considerando l’istinto di sopravvivenza. Pensa che se è vero che il progresso, la tecnica, la tecnologia non si possono fermare, è altrettanto vero che esiste una condizione che nessuna macchina potrà mai avere: il buon senso, al quale forse si può associare il termine etica. A un certo punto il buon senso prenderà il sopravvento. Scienziati e tecnici avranno buon senso. Quel buon senso che ha la gente comune. Avranno paura della sopraffazione, quella stessa che ha la gente comune, indipendentemente dal fatto che venga da una macchina o da un uomo.

Vogliono fare un computer che pensa come l’uomo e che non ha bisogno di dormire. Va bene, facciano pure.

Ma il cane ha bisogno di dormire.

Così, una  volta,  l’uomo aspetterà che il cane si addormenti e quando si sarà addormentato si avvicinerà alle macchine, e farà qualcosa, certamente, qualcosa farà per salvare se stesso, per salvare gli altri della sua razza.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di martedì 2 settembre 2014]

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Il buon senso ci salverà dalle macchine

Una domanda che spesso passa fra i discorsi comuni di gente comune, che magari non sa che la cosa che si chiede sia in realtà già accaduta, che magari fa un po’ di confusione fra la fantascienza e la realtà, è se domani o domani l’altro i computer ci sostituiranno. Se per esempio guideranno l’auto e noi ci limiteremo a fare da inconsapevoli passeggeri, considerando peraltro il fatto che risulta abbastanza diffusa quell’auto con sensori (si chiamano così?) che in fase di parcheggio impediscono di dare una botta a quella che sta davanti e una a quella che sta dietro, che hanno una serie di optional per cui mentre guidi ti annoi mortalmente. Oppure se il computer sostituirà il medico, l’elettricista, il calzolaio, il farmacista, il maestro di scuola con i suoi bambini, quello di ballo con i suoi ballerini, il libraio e il bibliotecario, il correttore di bozze, il traduttore, l’avvocato, se sostituirà l’amico, la moglie, il marito, i figli, la suocera, l’amante. Si tratta appunto di discorsi comuni di gente comune che non sa, per cui se chi legge questo articolo è  a conoscenza che  si sia già verificato quello che qualche riga sopra con banali esempi veniva ipotizzato, può anche smettere di leggere a questo punto.

Certo, anche la gente comune sa che molte faccende che una volta doveva sbrigare l’uomo (e la donna) impiegando per il disbrigo un certo tempo e un certo costo, ora vengono sbrigate dal computer in un tempo molto breve ed a costo molto basso, e sa pure, la gente comune, che (anche) questo ha determinato problemi di disoccupazione, perché laddove servivano venti braccia forti o venti forti teste, adesso le braccia possono essere sostituite dall’indice di una mano che pigia sulla tastiera e le teste da un programma appositamente elaborato.

La gente comune pensa che faremo la stessa fine dei cavalli.

Ricordo la storia di un mio antenato che si guadagnava la vita arando i campi con il cavallo. Un giorno, mentre arava, vide entrare in un podere confinante un uomo con una macchina strana, che arava.

Fermò il cavallo. Guardò l’uomo con la macchina strana. Si arrotolò una sigaretta. Sorrise beffardo e disse tra sé: non dura.

Nel giro di un anno portò al macello il baio e abbandonò l’aratro nella rimessa. Dal fondo di una botte tirò fuori i risparmi e comprò un trattore.

Ma la gente comune si consola pensando che si tratti soltanto di discorsi comuni, fatti così: per passare il tempo. Anche se a quella gente viene in mente che, se non ricorda male, fu Keynes che in un discorso del 1930,  in un clima economico depresso al quale il nostro molto rassomiglia, disse  che quello di cui soffriamo non sono acciacchi della vecchiaia, ma disturbi di una crescita fatta di mutamenti troppo rapidi e dolori di riassestamento da un periodo economico a un altro. L’efficienza tecnica è andata intensificandosi con un ritmo più rapido di quello con cui riusciamo a risolvere il problema dell’assorbimento della manodopera. Nei decenni che sono venuti, l’efficienza tecnica si è potenziata ulteriormente e con ritmi sempre più accelerati. Com’è giusto che sia, perché il progresso comporta questo.  I tempi di assorbimento della manodopera si sono dilatati, il fabbisogno è diminuito. Come non è giusto che sia, perché il progresso non deve comportare questo ma il contrario. Il progresso deve comportare la valorizzazione dell’essere umano, del suo pensare e del suo fare, del suo ingegno e della sua opera.

Poi un giorno alla gente comune capita di sentire la notizia che  Stephen Hawking, il fisico di fama planetaria, che proprio comune non è, in un editoriale su un giornale britannico ha scritto che il successo nel creare l’intelligenza artificiale potrebbe essere il più grande evento dell’umanità ma sfortunatamente anche l’ultimo, soprattutto se l’intelligenza artificiale si affrancherà dalla dipendenza umana, se dovesse sfuggire al suo controllo. Capita anche di sentire che c’è qualche azienda con l’obiettivo dichiarato di costruire un computer che pensa esattamente come un essere umano, ma a differenza dell’essere umano non ha bisogno di mangiare o di dormire.

Poi alla gente comune, per caso capita di leggere un articolo di Federico Rampini su “Repubblica” in cui si dice che nel processo di  re-industrializzazione dell’America si sta sottovalutando il fatto che le nuove fabbriche impiegano poca o nessuna manodopera umana in quanto puntano sulla robotica, sull’automazione pressoché totale, nella convinzione che “l’impresa del futuro impiegherà solo un uomo e un cane. L’uomo deve nutrire il cane. Il cane deve tenere l’uomo lontano dalle macchine”.

Davanti a queste prospettive la gente comune si spaventa. Non soltanto perché si inceneriscono le possibilità di lavoro, ma perché si inceneriscono in genere le facoltà dell’uomo.

Si spaventa, dunque, la gente comune, ma poi un poco si rasserena considerando l’istinto di sopravvivenza. Pensa che se è vero che il progresso, la tecnica, la tecnologia non si possono fermare, è altrettanto vero che esiste una condizione che nessuna macchina potrà mai avere: il buon senso, al quale forse si può associare il termine etica. A un certo punto il buon senso prenderà il sopravvento. Scienziati e tecnici avranno buon senso. Quel buon senso che ha la gente comune. Avranno paura della sopraffazione, quella stessa che ha la gente comune, indipendentemente dal fatto che venga da una macchina o da un uomo.

Vogliono fare un computer che pensa come l’uomo e che non ha bisogno di dormire. Va bene, facciano pure.

Ma il cane ha bisogno di dormire.

Così, una  volta,  l’uomo aspetterà che il cane si addormenti e quando si sarà addormentato si avvicinerà alle macchine, e farà qualcosa, certamente, qualcosa farà per salvare se stesso, per salvare gli altri della sua razza.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di martedì 2 settembre 2014]

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La bellezza delle generazioni che verranno

Tanto tempo fa, da qualche parte, qualcuno che camminava a quattro zampe, forse immaginò di poterlo fare con due soltanto. Così ci provò. Ci riuscì. Gli altri lo guardarono. Ci provarono anche loro. Ci riuscirono anche loro. Se oggi gli uomini camminano su due gambe, probabilmente lo devono a quell’immaginare. Allora bisogna immaginare il futuro. Perché quello che non si può conoscere si può immaginare. L’immaginazione è più importante della conoscenza, diceva Einstein. La conoscenza è limitata, l’immaginazione abbraccia il mondo, stimolando il progresso, facendo nascere l’evoluzione.

D’altra parte l’immaginazione del futuro è una condizione connaturata, che accade in maniera spontanea, inevitabile. Probabilmente molta parte del nostro tempo quotidiano, noi lo dedichiamo all’immaginazione del futuro: quello che sarà fra un minuto, fra un’ora, il giorno dopo, fra un mese, fra un anno, figurandoci in che modo svilupperà quello che stiamo facendo, la storia che stiamo vivendo, come saremo domani, domani l’altro, come saranno quelli che ci appartengono, ai quali apparteniamo, domani, domani l’altro. Spesso è proprio l’immaginazione a determinare quello che sarà, per quanto è possibile decidere di noi, perché, poi, se non tutto comunque molto rimane imprevedibile: le cose che ci aspettiamo non si compiono, per quelle inattese un dio trova la via, dice il coro alla fine delle Baccanti di Euripide.

Immaginiamo, dunque, costantemente, il modo in cui saremo, come sarà il mondo in cui viviamo, come saremo noi in quel mondo, i nostri destini personali e collettivi. Diceva Blaise Pascal in uno dei suoi “Pensieri” (82) che l’immaginazione è la parte predominante dell’uomo, quella maestra di errori e di falsità, e tanto più ingannevole in quanto non è sempre tale; infatti sarebbe regola infallibile di verità se non fosse regola infallibile di menzogna. Ma, essendo quasi sempre falsa, non dà nessun indizio della sua qualità, caratterizzando allo stesso modo sia il vero che il falso.

L’immaginazione dispone di tutto, dice Pascal: crea la bellezza, la giustizia, la felicità.

Quasi sempre l’immaginare è carico d’interrogativi, sia che si rivolga al nostro essere individuale, sia che si rivolga agli scenari culturali.
Relativamente a quest’ultima sfera l’immaginare diventa sempre più complicato. Si potrebbero fare innumerevoli esempi; ciascuno si pone una moltitudine di domande. Però, forse, ce n’è una che può sintetizzare tutte le altre: una domanda di fondo e fondamentale, che contiene la sostanza, il nucleo, l’essenza dei processi culturali. Questa domanda: si matureranno esperienze e conoscenze esclusivamente attraverso nuovi mezzi e nuove forme del sapere, attraverso linguaggi che sostituiranno quelli che adesso usiamo, oppure mezzi, forme, linguaggi vecchi e nuovi si integreranno sapientemente. Continueremo a studiare, a leggere fiabe anche sui libri di carta, oppure  getteremo i libri nel più grande rogo della Storia,  un immenso rogo senza fiamme, e leggeremo soltanto su uno schermo. Andremo ancora a scuola con uno zaino sulle spalle o soltanto con un tablet sotto il braccio. Avremo il passato dietro di noi oppure ce l’avremo ancora davanti, com’è sempre stato.
Probabilmente in questo tempo è difficile immaginare. Codici, canali, strumenti, sono cambiati e cambiano in continuazione e con una rapidità che la storia della cultura non conosce. Arrivano generazioni che portano non solo pensieri nuovi, nuove visioni del mondo, ma anche inedite espressioni del pensiero, originali rappresentazioni delle visioni. Non sono tanto i linguaggi che costituiscono la differenza; sono i nuovi pensieri, le nuove visioni.
Chi oggi ha dieci anni, quale conformazione culturale avrà quando ne saranno passati altri dieci.
E’ abbastanza generico fare riferimento al loro essere digitale. Quella è l’origine; quale sarà lo sviluppo? Poi ci si chiede se le forme culturali di domani saranno migliori di quelle di oggi. Certo, è una domanda banale, ma se molti se lo chiedono forse vuol dire che è meno banale di quello che sembra. Qualcuno può anche affermare che nella cultura non esiste il bene e il male. E’ un’affermazione falsa. Il bene e il male esistono nella cultura per la semplice considerazione che esistono nella natura dell’uomo, e siccome è l’uomo che determina la cultura che a sua volta determina la Storia, nella quale si distingue anche il bene dal male, allora anche le forme di un tempo culturale possono essere migliori o peggiori di quelle di un altro.
Ma a noi piace immaginare che le forme e le espressioni culturali del tempo a venire saranno migliori di quelle che abbiamo avuto, di quelle che abbiamo. Che le generazioni che stanno arrivando abbiano dentro il lievito di una pittura, una poesia, una musica, una scienza, un’architettura più belle di quelle che conosciamo. A noi piace immaginare, e sperare, che sappiano stupirci con un’altra bellezza che magari contemperi presente e passato, il suono che hanno le parole dell’Infinito di Leopardi con quello di altre parole di una lingua che loro inventeranno.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di martedì 16 settembre 2014]

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La speranza di vivere in un Paese normale

L’uomo qualunque, ma non qualunquista, la donna, l’adulto, il vecchio, il bambino, il giovane,  il ragazzo qualunque, quelli che hanno vite normali, storie normali, sogni, speranze, paure normali, quelli che sono nati da gente normale, in una casa normale, che hanno avuto e hanno compagni di giochi normali, compagni di scuola normali,  vorrebbero vivere in un Paese normale.

Forse è difficile dire com’è un Paese normale. O forse è facile.

Forse un Paese normale è un luogo dove chiunque sia in età da lavoro, chiunque abbia terminato gli studi, possa fare qualcosa che abbia coerenza con tutto quello per cui ha studiato, e se per un certo tempo non è possibile, che possa comunque fare qualcosa che gli consenta di sentirsi dentro  l’esistenza che passa per una strada  e non di restarsene alla finestra soltanto a guardare perché per la strada non ha niente da fare, con la tristezza e la mortificazione che assillano quando a un certo punto s’insinua il sospetto che quello che si è fatto sia stato nient’altro che tempo sprecato.

Forse un Paese normale è un luogo dove qualcuno che ha già un lavoro non si ritrova a perderlo  da un giorno all’altro.

Un Paese normale forse è un luogo nel quale quando viene il tempo delle vacche magre, coloro che ci abitano sanno confrontarsi con la realtà esattamente com’è, che riescono a governarla nel migliore dei modi, ad inventarsi le alternative, ad arare ancora il campo, a seminarlo, a fare anche meglio di come hanno fatto quand’era il tempo delle vacche grasse.

Forse è un paese in cui la precarietà, l’incertezza, l’insicurezza,  non sono la regola ma l’eccezione limitata ad un tempo  breve, che non sconfina nell’eternità.

Un Paese  normale forse è quel luogo dove i vecchi non prendono pensioni da fame dopo aver lavorato tutta una vita per fare in modo che il loro paese fosse normale.

Un Paese normale forse è quel luogo che assicura un’assistenza a chiunque ne abbia bisogno, dove non c’è possibilità di fare la differenza fra la sanità buona e quella cattiva perché la cattiva non si conosce.

Un Paese normale non sa cosa siano i NEET, perché nelle statistiche non conta persone comprese fra i quindici e i ventinove anni che non studiano, non lavorano, non seguono corsi di formazione professionale.

Un Paese normale non lascia che i giovani con una laurea d’eccellenza nella testa se ne vadano via, non sa quale sia il significato del fenomeno che si chiama “fuga dei cervelli”, perché i cervelli se li tiene stretti, li fa funzionare, li mette a frutto, attribuisce valore alle energie, alle idee nuove, ai nuovi progetti, agli entusiasmi, alle conoscenze, alle competenze. Alle speranze.

Ecco. Un Paese normale sa dare speranza e coraggio: la speranza di poter migliorare la normalità; il coraggio di impegnarsi per poterci riuscire.

Un Paese normale sa vedere il futuro e sa anche  insegnare a vederlo e a costruirlo, un futuro che in fondo renda normale tutto quello che  non lo è. Dà valore alla salute, alla formazione, alla ricerca, e allora  si preoccupa prima di tutto di costruire le case, le scuole, gli ospedali, i granai, le biblioteche.

Non fa differenza fra un Nord ed un Sud, un Paese normale, ma determina i modi e le condizioni  perché la Storia prenda la stessa velocità, e quando si accorge che non ce l’ha, accelera quella della parte che resta indietro, perché a volte in un Paese normale è anche normale che si resti indietro, mentre non è affatto normale, in un Paese normale, che a restare indietro siano sempre gli stessi.

Un Paese normale ha poveri e ricchi, ma non tanto ricchi da far indignare, né tanto poveri da suscitare pietà.

Un Paese normale sa che esiste una bellezza della normalità, che perfino gli eroi sono più belli se hanno il volto e il pensiero di gente normale.

Allora, probabilmente, un Paese normale rassomiglia tanto a una persona normale, che vive dignitosamente del proprio lavoro, non sperpera denaro e risorse, risparmia, mette da parte qualcosa per il tempo che viene, investe quanto è giusto per quello che è giusto, non fa il passo più lungo della gamba, cura l’istruzione dei figli, compie il suo dovere e pretende i suoi diritti, cerca di produrre benessere per sé e per gli altri, rispetta chi ha idee diverse e non rinuncia mai ad esprimere quelle che ha, accoglie e non respinge chi ha necessità, non tradisce la memoria, non si lascia richiamare dalle sirene che cantano l’effimero, il vacuo, il niente, sa perfettamente fare distinzione fra quello che è superfluo è quello che è essenziale.

Un Paese normale, come una persona normale, ha progetti concreti e adeguati a quelle che sono le sue possibilità. Procede gradualmente quando occorre una gradualità, rapidamente se serve la rapidità, analizza i problemi, studia le soluzioni, non improvvisa, non si avventura, contempera l’entusiasmo e l’esperienza.

Un Paese normale forse è fatto più o meno così. Più o meno come una persona normale.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di lunedì 22 settembre 2014]

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Quell’inutile bellezza guadagno per la mente

Se una domenica mattina quando è ancora presto, o ad una certa ora  dopo l’imbrunire, te ne stai a guardare il frontone di una chiesa barocca che scintilla ai riflessi del sole oppure si trama di ombre leggere generate dalla combinazione dell’oscurità e dei lampioni, stai facendo qualcosa di inutile, che non ha un esito pratico rispetto al tuo presente, che forse non ne avrà  nemmeno nel tuo tempo futuro.

Se in certi pomeriggi d’estate, in certe tarde sere d’autunno che annunciano il dio dell’inverno, ti rifugi in un angolo a leggere un libro antico, magari il racconto di un desiderio di Itaca e della nostalgia di un eroe, stai facendo qualcosa di inutile.

Come se ascolti una musica, se t’incanti davanti all’ affresco screpolato  di una cripta bizantina, se ti aggiri per i vicoli di un borgo soltanto per sguardare i gerani sui balconi, stai facendo qualcosa di inutile.

Da tempo abbiamo maturato e radicato l’idea dell’utile assoluto: tutto quello che facciamo, anche tutto quello che pensiamo dev’essere utile, pragmatico; spesso usiamo perfino il termine spendibile: spendibile oggi stesso, al massimo domani. Anche la conoscenza, il sapere dev’essere spendibile. Se non è spendibile, se non serve, non c’è ragione che si apprenda, che si conosca. La conoscenza di una lingua antica non è spendibile. Però forse non si pensa che l’apprendimento di quella lingua che non serve, che non è spendibile, costituisca la struttura cognitiva sulla quale innestare apprendimenti essenziali, pragmatici, funzionali.

Non si pensa, forse, che esiste una bellezza che vale e conta semplicemente per la sua esistenza. A parte l’incantamento che produce, la Cappella Sistina non serve a niente; non servono a niente Mozart, Dante, e meno ancora serve Virgilio, e ancora meno Omero. Non ci danno nulla che si possa consumare. Ecco, dunque: quello che cerchiamo è un sapere da consumo. Non ci poniamo il problema se quel sapere che non  è da consumo, quella bellezza che ha come fine nient’altro che la bellezza, ci permetta un pensiero che sguscia dalle maglie della rete della mediocrità, dell’omologazione, del conformismo, dell’uniformità, delle convenzioni. Non ci chiediamo se per caso quel sapere senza moneta, non sia la lente che consente di guardare oltre quello che si vede e soprattutto di guardare in fondo, di perforare la superficie delle cose, di comprendere di più, di comprendere meglio.

Comprendere meglio è scienza. La scienza è tale semplicemente perché comprende di più, comprende meglio, riesce ad arrivare più in fondo. Però non c’è una differenza tra comprendere meglio un fenomeno della natura, un fenomeno sociale, un fenomeno testuale, il sistema di funzionamento di una macchina, quello di una civiltà, quello di un’arte in una determinata epoca, il processo di evoluzione dei sistemi e la relazione che si struttura tra gli esseri e i sistemi.

Allora ci si potrebbe chiedere da che cosa sia determinata l’utilità e rispetto a che cosa un sapere sia utile.

Se utile significa guadagno nelle tasche, non si può fare a meno di ammettere che tanta e forse tutta l’arte non serve assolutamente a niente. Perché a guardare Caravaggio e a tentare di comprenderlo, davvero non si guadagna niente. Però non saprei dire se dopo averlo guardato uno non si senta – o non  diventi – diverso. Né saprei dire se quando ha finito di leggere le Memorie di Adriano della Yourcenar, sia lo stesso uomo che era quando ha cominciato.

Forse si potrebbe azzardare l’ipotesi che oltre al guadagno nelle tasche esista anche un guadagno nella testa, che l’inutile bellezza serva proprio per un guadagno della testa. Ma le culture dell’utilitarismo hanno determinato la convinzione che un guadagno nella testa che non ne produca uno nella tasca, possa essere tranquillamente trascurato e quindi che possa essere considerarsi del tutto inessenziale gran parte della cultura umanistica. La formula sei ciò che hai ha soppiantato  quella  sei ciò che sai. E’ saltata la relazione sostanziale fra essere e sapere. Ma nel famoso saggio che s’intitola La testa ben fatta, Edgar Morin sostiene che quando si parla di cultura umanistica si deve valutare il termine cultura nel suo senso antropologico di condizione che fornisce le conoscenze, i valori, i simboli che orientano e guidano le vite umane.  La cultura umanistica dev’essere considerata non solamente, né principalmente, come oggetto d’analisi grammaticale, sintattica o semiotica, ma come scuola di vita in molteplici sensi.

Probabilmente è questo, allora, che bisogna innanzitutto considerare: che cosa sia o si possa rivelare utile per l’essere e l’esistere, per la definizione di una personalità in grado di confrontarsi con le diverse forme del sapere, che sappia interpretare le storie e le espressioni con le quali la natura e la cultura si esprimono.

In fondo, nella sostanza, la bellezza dell’arte serve a determinare una visione del mondo e ad attribuire un significato particolare ad esso. Se la visione e il significato poi siano utili o inutili,  lo deve necessariamente decidere la civiltà di ogni epoca. Da quello che decide dipende, in gran parte, anche la sua consistenza.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di lunedì 13 ottobre 2014]

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Diamo spazio alle competenze dei giovani

Il lavoro porta onore. Ogni lavoro. Per cui porta onore che il laureato in ingegneria faccia il netturbino, quello in scienze politiche la guida turistica, che il laureato in informatica faccia il posteggiatore, quello in architettura il muratore, quello in filosofia il vigilante, che il laureato in giurisprudenza faccia il portinaio, e quello in medicina l’aiuto infermiere, quello in veterinaria l’acconciatore per cani, che il laureato in sociologia faccia il bidello, quello in lettere il custode di un museo, che il laureato in economia faccia l’ambulante. Questi sono i fortunati. Poi ci sono quegli altri, i meno fortunati. Lavori a scadenza. Lavori un giorno sì e domani non si sa, come i giornalieri di una volta, che la sera aspettavano in piazza il fattore per sapere se il giorno dopo dovevano andare a lavorare nella terra del padrone. Poi ci sono i maratoneti dei call center.  Ogni lavoro porta onore a chi lo fa. Ma non ha onore un Paese che non mette a frutto conoscenze e competenze, che dissipa le energie, che  deprime le intelligenze, che non consente a se stesso uno sviluppo attraverso il pensiero nuovo, che non riesce a rinnovarsi culturalmente attraverso l’integrazione dell’ esperienza e dell’entusiasmo che compensa ogni inesperienza. Si parla e si riparla di un turnover che non si realizza mai, per cui l’accesso dei giovani al mondo del lavoro rimane bloccato.

Eppure un Paese ha bisogno di una cultura nuova, di un nuovo pensiero, come del pane e dell’acqua. La cultura nuova, il pensiero nuovo, producono significati nuovi nei contesti della formazione, dell’istruzione, del lavoro, delle relazioni sociali, degli stili di vita, nella politica e nelle istituzioni, nella ricerca e nell’economia, nella qualità dei servizi, nelle scelte che riguardano il patrimonio culturale, in quelle che interessano l’ambiente, nel modo di essere e di fare. In tutto quello che serve a stabilire un’armonia fra la vita di un Paese e il tempo storico che quel Paese vive.

Forse poco o niente di questo si può fare se non si creano le condizioni perché ciascuno possa mettere a disposizione quello che ha studiato, che ha imparato.

In fondo si studia per essere utile agli altri più che a se stessi. Allora un Paese deve coordinare le conoscenze, indirizzarle tanto verso i settori che più ne hanno necessità, in modo da poter ridurre la necessità, quanto verso i settori che non ne hanno in modo da poterli sviluppare.

In questo Paese ci sono molti settori che devono ridurre lo svantaggio  e qualche settore che può potenziare la qualità. Ma né una cosa né l’altra si possono realizzare senza un’adeguata valorizzazione di quelle che si chiamano risorse umane, che poi significa semplicemente persone. Alle persone, quindi, si deve dare la possibilità di esprimersi nelle situazioni per le quali hanno acquisito più forti e specifiche capacità, quelle in cui possono essere veramente risorse umane.

Invece noi perdiamo le risorse migliori. Scrive Giovanni Solimine nel suo saggio che s’intitola “Senza sapere. Il costo dell’ignoranza in Italia”, che i giovani dottori che abbandonano l’Italia sono più che raddoppiati nell’arco di un decennio. Nel 2002 erano l’11,9 per cento; nel 2011 il 27,6%. La mobilità è quasi a senso unico: “ i ricercatori italiani che vanno all’estero sono quasi quattro volte di più degli stranieri che vengono in Italia”. Per cui, l’Italia si priva di queste risorse e un altro Paese se ne avvantaggia. Se volessimo ragionare in termini di competizione, si potrebbe dire che perdiamo due volte. Anzi, che perdiamo innumerevoli volte.

Se si continua a mantenere questo passo, non si va molto lontano. Forse non si va da nessuna parte. Oppure si va rapidamente indietro.

Se porta onore senza dubbio che il laureato in economia faccia l’ambulante anziché niente, non si può comunque negare che  potrebbe offrire un contributo più qualificato in un ambito del lavoro che richiede la sua formazione in economia.

La relazione fra competenza personale  e contesto di lavoro è la condizione che consente lo sviluppo di una comunità e di conseguenza il suo benessere.

Il concetto di benessere, si sa, è sempre relativo alle situazioni storiche, culturali, economiche.

Cinquant’anni fa ciascuno pensava ad un benessere individuale e collettivo in modo diverso da come oggi lo si pensa. C’era un Paese che riprendeva fiato. Tutto quello che veniva era una grazia di Dio. Ma tornare indietro provoca dolore: è doloroso accettare la decrescita dopo la crescita, dover rinunciare all’espressione “ società del benessere” o comunque accettare realisticamente di ridefinirla. Ma quello sviluppo, quella crescita, quella società del benessere è stata creata dalle generazioni figlie dei contadini, degli emigranti, degli impiegati, degli operai, dei braccianti: generazioni che hanno studiato ed alle quali è stato permesso di mettere quello che avevano imparato al servizio del Paese. Se il sistema ha funzionato è quello stesso che occorre riprendere, adeguato e potenziato. Invece, ora, chi ha studiato e sa e può fare e può dare una spinta forte alla ripresa, si ritrova nella mortificazione di un  precariato lungo, interminabile, nella marginalità della sottoccupazione, nell’angoscia della disoccupazione. Senza poter assolvere “il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”. Così dice, come si sa, l’art. 4 della Costituzione.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di lunedì 20 ottobre 2014]

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Studiamo sempre se vogliamo capire il mondo

Il 25 settembre milleduecentosessantaquattro, sul far del giorno, il Duca d’Auge  salì in cima al torrione del suo castello per considerare un momentino la situazione storica. La trovò poco chiara.

Comincia così “I fiori blu” di Raymond Queneau.

Accade, alle volte, di soffermarsi un “momentino” a considerare la situazione storia e di trovarla poco chiara.

Probabilmente perché i tempi non sono mai chiari, perché la Storia si fa nella confusione, nella contraddizione, attraverso i contrasti, i conflitti, le incoerenze, le antinomie, più o meno evidenti, più o meno laceranti, con percorsi indefiniti, discontinui, con fratture.

In fondo non c’è mai niente di nuovo sotto il sole, e se accade che  qualcosa ci sembri  nuovo, è semplicemente per il fatto che ignoriamo che sia già accaduto in un altro tempo, in un altro luogo.

Allora quando riconosciamo all’epoca che si vive una condizione di complessità provocata – anche – dalle  frane dei punti di riferimento, dall’incrinarsi o dal frantumarsi delle certezze,  dal frastagliarsi delle identità, forse dovremmo  considerare, fra le altre cose,  che non ce n’è stata mai un’altra  semplice, lineare. Non c’è stata mai un’epoca che non abbia attraversato crisi, che non si sia confrontata con la complessità. Certo, esistono livelli di complessità diversi: un’epoca ne registra uno più basso oppure più alto di quello di un’altra. La contemporaneità registra un livello di complessità alto, altissimo.

La rapidità con cui mutano gli scenari culturali, sociali, economici, determina complessità. Sono complesse le esperienze di lavoro e, forse anche di più, quelle del non lavoro, dell’inoccupazione, della sottoccupazione. Sono complesse le relazioni intersoggettive, le dinamiche interculturali.

Sono complessi i processi di acquisizione delle conoscenze perché  gli ambiti del sapere hanno confini che si slargano, si sovrappongono, a volte si confondono, e il tessuto di conoscenze e competenze personali tiene per un tempo limitato, ha bisogno di essere intrecciato con  conoscenze e competenze nuove, di diversa provenienza e diverso genere. Ogni professione richiede costanti  adattamenti, rimodulazioni, riformulazioni di concetti e di pratiche.

Quello che si rivela utile sapere e saper fare oggi, domani o domani l’altro dovrà essere necessariamente riconvertito, riorganizzato. Teorie e metodi richiedono – anche in modo pressante – varianti, innesti. Il sapere moltiplica le sue forme e le sue espressioni.

Probabilmente è questa moltiplicazione che occorre prioritariamente comprendere per poter essere in grado di decifrare e interpretare la complessità dei diversi fenomeni sociali, della Storia e delle sue manifestazioni. Senza strumenti di decodifica, di lettura, di analisi, non si potrà fare altro che limitarsi ad osservare ed a prendere atto della confusione di tutto. Non potremo capire da dove vengono i problemi e quali possano essere le soluzioni, da che cosa sono generate le turbolenze che attraversano il sociale, che cosa produce le crisi e in che maniera si possono governare; tutto ci sembrerà frammentario, disordinato, sottoposto al caso; non avremo autonomia di giudizio, capacità critica, disponibilità alla flessibilità, per cui assumeremo un comportamento passivo nei confronti degli eventi, li subiremo senza possibilità di modificarli.

Ecco, dunque, che per non ritrovarsi nella condizione del Duca d’Auge, per non restare a guardare senza capire, si rivela indispensabile mettersi nella condizione di apprendere per tutta la vita. La formazione negli anni della scuola e dell’università non basta più; non basta più l’apprendimento formale. Serve realizzare una conoscenza in ogni contesto in cui si agisce, costantemente e trasversalmente. Non importa se quello che s’impara possa avere un esito oppure no.

Alla fine del primo saggio di “Perché leggere i classici”, Italo Calvino ricorda una cosa che diceva  Cioran a proposito di Socrate:  mentre veniva preparata la cicuta, Socrate stava imparando un’aria sul flauto. “A cosa ti servirà?” gli fu chiesto. “A sapere quest’aria prima di morire”, rispose Socrate.

Certo, potrebbe anche sembrare banale. Ma a volte dietro l’apparenza del banale si nascondono sostanziali verità.

Dal torrione del suo castello, il Duca d’Auge osserva i resti del passato che si trascinano alla rinfusa, gli Unni che cucinano bistecche alla tartara, i Gaulois che fumano gitane, i Romani che disegnano greche, i Franchi che suonano le lire, i Normanni che bevono calvadòs. Sagome sfatte all’orizzonte. Fenomeni consunti. Rimasugli che resistono allo sbriciolamento.

Guarda e non capisce tutta quella confusione della storia, e si chiede: “Non si troverà mai via d’uscita?”

Probabilmente è proprio a questo che serve il conoscere: a trovare una via d’uscita. Ma si può trovare una via d’uscita  quando si è in grado di scegliere, di orientarsi, e ci si può orientare quando non si è costretti a percorrere una sola via perché  le vie che si conoscono sono tante, quando si possiedono i metodi per interpretare quello che sta accadendo intorno a noi e anche dentro di noi, per dissipare in qualche modo e per quanto è possibile la fumea che si spande, s’infittisce,  ci impedisce di capire.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di lunedì 27 ottobre 2014]

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Una cultura “flessibile” per misurarci col futuro

Di quale cultura si avrà bisogno fra vent’anni, fra dieci; che cosa sarà indispensabile sapere e saper fare; quali strumenti si dovrà essere in grado di usare per poter avere consapevolezza delle esperienze, per potersi confrontare con i codici del sapere, con le faccende da sbrigare, per attribuire significatività alle relazioni sociali, per praticare una cittadinanza reale, per poter affrontare situazioni di lavoro nuove o continuamente rinnovate. Probabilmente non è un interrogativo che coinvolge soltanto chi in questo tempo  si trova in una fase di formazione, che fra dieci anni ne avrà venti, fra venti ne avrà trenta e si ritroverà al centro di scenari che in qualche modo avrà anche contribuito a conformare.

Interessa tutti senza distinzione di generazioni, di condizione sociale. Riguarderà qualsiasi adulto che dovrà semplicemente prendere un aereo o un treno, prenotare una camera d’albergo, leggere le istruzioni per qualcosa, chiedere informazioni a uno sportello o per la strada, pagare la bolletta all’ufficio postale, annotare un nome e un numero sull’agenda.

Forse anche le cose più semplici e consuete dovranno essere fatte in un modo nuovo, con nuovi mezzi, con linguaggi diversi da quelli di adesso.

Alcuni passaggi avverranno in modo graduale, che forse neanche ce ne accorgeremo. Ce ne saranno alcuni che avverranno all’improvviso, per esempio quelli determinati dalle macchine. Alcuni di essi riusciremo a governarli agevolmente; altri saranno piuttosto complicati; alcuni ci renderanno più comoda la vita, altri invece ci molesteranno. Com’è sempre accaduto e come accade per molte cose, in fondo. Ma quanto e come riusciremo a confrontarci con la mutazione improvvisa o graduale, dipenderà dalla cultura personale e da quella della comunità in cui ci troveremo. La cultura rigida avrà difficoltà di adattamento; quella mobile, flessibile, flessuosa, si modellerà abbastanza facilmente.

Per esempio sarà necessario conoscere le lingue. Non una, due. Molte lingue. Anche per parlare con il vicino di casa. Ma, forse, più che conoscere molte lingue, sarà necessario essere disponibili ad apprendere rapidamente quella che serve a seconda delle circostanze.

Poi bisognerà avere una capacità di selezione ancora  più scrupolosa di quella che serve oggi. Non è  agevole nemmeno immaginare la quantità di dati e di informazioni che avremo a disposizione. Ma questo non ci renderà più sapienti, non ci darà più conoscenze, e non sapremo che farcene della maggior parte delle informazioni se non avremo  la capacità di riportare ogni dato, ogni informazione, in un contesto di senso, di elaborare punti di riferimento, di organizzare l’informe in un forma, una struttura coesa, coerente. Resterà tutto sfilacciato e sospeso, non produrrà esperienza. Poi, chissà se non sarà necessario recuperare il significato di quello che Montale diceva in “Auto da fe’”: la cultura è quello che rimane nell’uomo quando ha dimenticato tutto quello che ha appreso. Forse servirà imparare a levare piuttosto che a mettere, a selezionare le cellule riproduttive del sapere, a tenere – trattenere- soltanto le fondamentali unità di quel tutto che si presenta nella forma di onda gigantesca o di rivolo davanti ai nostri occhi, alla mente, alla vita.

Bisognerà reimparare tanto a ricordare quanto a dimenticare.

Quello che alcuni ritengono con certezza è che fra venti anni, fra dieci, cambierà il nostro modo di apprendere, di conoscere, di studiare, cambieranno le cose che studieremo. E’ vero. Però poi viene da domandarsi se il modo di apprendere, di conoscere, di studiare, non sia sempre cambiato, non cambi continuamente, in relazione al tempo, ai mezzi che si hanno, alle finalità, per cui qualche volta si ha difficoltà a capire in che cosa consista veramente la novità.

Poi ci sono altri – i conservatori, i tradizionalisti – che sostengono il contrario: dicono che a un certo punto si tornerà all’antico, a quello che ha dato risultati, alla ricerca di una cultura del sostanziale; è un’idea che si può sintetizzare nella considerazione  che non conta la quantità di quello che si conosce ma la sua qualità, e per qualità intendono la competenza che si ha nel riprodurre le conoscenze, nel trasferirle, nell’applicarle.

Forse la difficoltà più grande consisterà nel riuscire ad attribuire una dimensione storica alla cultura, nell’elaborarla  nel contesto di  una struttura stabile e adattabile allo stesso tempo. Si assiste spesso, già da qualche decennio e negli ultimi anni in modo più diffuso, ad un’acritica, superficiale, estemporanea  adesione a mode e modelli dall’epistemologia inconsistente, che mancano di qualsiasi radice culturale. Accade anche in contesti, come quello della formazione, che non possono prescindere dalla dimensione storica della cultura se non con il rischio di rendere inefficace qualsiasi esperienza di conoscenza. Perché ogni cultura, in qualsiasi tempo, deve indispensabilmente avere una relazione sistematica con la realtà, con l’immaginario, con i miti, con i riti, con la scienza e anche con le superstizioni, con le mentalità e le modalità di rappresentare soggettivamente e collettivamente l’universo, con le coerenze e con le contraddizioni dell’epoca,  con il senso del passato e con quello del futuro.

Forse la sostanza della cultura è proprio in questa relazione. Forse senza questa relazione non c’è cultura ma un’amorfa mescolanza  di impulsi, richiami, di bip bip  insignificanti.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di lunedì 24 novembre 2014]

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Il capitale umano che serve al Paese

Capitale umano significa creature, esistenze, intelligenze, conoscenze, competenze, personalità che possono portare pensieri nuovi, storie nuove, che possono rinvigorire, rigenerare la cultura, l’economia, i significati di una società. Il capitale umano è la condizione – l’unica condizione – che può garantire la crescita, lo sviluppo, il progresso. Se manca il capitale umano non ce ne  può essere nessun altro; se manca il capitale umano non ci possono essere prospettive,  progetti, orizzonti.  Senza la messa a frutto del capitale umano c’è solo la stagnazione, la crisi perenne.
L’Italia ha un capitale umano inutilizzato, dissipato, dice il Censis nell’ultimo rapporto. Ecco: dissipato. Senza dubbio ognuno di noi giudica male chiunque dissipi un capitale. Lo giudica quantomeno sprovveduto, incosciente. Ma noi non giudichiamo questo Paese, assolutamente. Semplicemente perché è il nostro. Semplicemente perché verso questo Paese proviamo un sentimento di affetto, di  amore, e per affetto, per amore vorremmo che cambiasse la sua condizione che alle volte ci turba, altre volte ci preoccupa, altre ancora ci angoscia; per affetto e per amore vorremmo che non si trovasse nella situazione rappresentata dal rapporto Censis. Quasi 8 milioni di persone non utilizzate, dice; 3 milioni di disoccupati; 1,8 milioni di inattivi; 3 milioni di persone che, pur non cercando attivamente un impiego, sarebbero disponibili a lavorare. I giovani hanno una “fragilità di patrimoniale e di reddito” che trasforma le spese per l’ affitto, il condominio, le bollette, l’imprevisto,  in una sorta di incubo: risparmiano su tutto, finanche sull’essenziale; dipendono dalle famiglie, si mantengono con la pensione dei nonni. Dice il Censis che su  4,7 milioni di giovani che vivono autonomamente, più di un milione non riesce ad arrivare alla fine del mese. Un mese dura quindici giorni; certe volte anche di meno. Un Paese che non consente ai giovani la possibilità di un progetto, di un investimento a breve, medio o lungo termine, si impoverisce, inevitabilmente, si oscura, declina. Nessuno di noi vuole questo. Non ci può essere nessuno che da questo possa trarne un qualche vantaggio. Allora ci si chiede che cos’è che non ha funzionato; ma dopo aver formulato la domanda si intuisce che è troppo tardi, che probabilmente è anche inutile cercare di darsi una risposta. Gli errori sono stati sicuramente tanti, si sono ripetuti nel tempo, e con il tempo si sono aggrovigliati a tal punto che adesso è troppo difficile, forse impossibile sbrogliare la matassa. Conviene non pensarci più e ricominciare. Con una visione nuova, con processi nuovi, con una nuova considerazione del capitale umano. Che forse significa, prima di tutto, recuperare il significato profondo del termine umano, caricarlo di un valore assoluto, interpretarlo con i criteri della possibilità soggettiva come risorsa strategica, dell’entusiasmo, della potenzialità creativa, della prospettiva di innovazione, della qualità delle relazioni. Però, perché questi significati possano trasformarsi in esiti concreti, occorre che si dia a tutti ed a ciascuno la possibilità di farne esperienza, di praticarli. Dunque, perché si possa fare esperienza, si possano praticare molti di questi significati, c’è bisogno di farli agire in situazioni significative dell’esistenza. Il lavoro costituisce una delle più significative situazione dell’esistenza. Probabilmente è soltanto attraverso il lavoro che si evita la dissipazione del capitale umano. Allora quei numeri riferiti dal Censis devono necessariamente cambiare; i termini inutilizzato, disoccupato, inattivo, devono essere cancellati dal vocabolario reale, si devono trasformare in arcaismi, in spiacevole memoria di un tempo scuro. I contesti della politica, dell’economia,  dell’impresa, della cultura, della formazione, non possono che assumere come impegno prioritario quello di attribuire un  valore autentico al capitale umano. Certo, ognuno per le funzioni e le competenze e le responsabilità che ha, per quanto può, per come può, ma con un progetto comune e condiviso, con  una convergenza di intenzioni e di azioni. Possibilmente senza dispersione di energie. Possibilmente senza improvvisazioni. Questo è un tempo di emergenza, lo sappiamo. Che dura da tanto, anche. Si sta procedendo rattoppando, per quanto è possibile, un tessuto lacerato. Però poi si dovrà pensare e costruire un sistema strutturato con canali di accesso al mondo del lavoro liberi da ingombri, con agevoli processi di inserimento, di qualificazione, di riqualificazione, di costante motivazione, di riconversione e di mobilità virtuosa fra i diversi settori, di promozione delle personalità, delle conoscenze, delle competenze. Senza lasciare indietro nessuno, senza lasciare nessuno fuori.
Ogni abitante di questo Paese farebbe capriole di felicità se fra qualche anno si accorgesse che parole come dissipazione, inutilizzazione, inattività,  precarietà, disoccupazione, non appartengono più a nessun rapporto, a nessuna realtà.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di martedì 9 dicembre 2014]

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Pensiamoci prima di abolire i compiti a casa

Dialogo  (per nulla immaginario) tra una signora e l’insegnante del figlio frequentante la classe terza della scuola primaria: “Maestra, almeno il sabato può evitare di darmi compiti da fare ?”. “Come sarebbe a dire, signora? I compiti mica li do a lei”. “ Ah, no? Perché, secondo lei i compiti che dà a mio figlio chi li fa?”.

La maestra probabilmente dimenticava o faceva finta di dimenticare che con circolare n. 177 del 14 maggio 1969 avente ad oggetto: “Riposo festivo degli alunni. Compiti scolastici da svolgere a casa”, l’allora Ministero della Pubblica  Istruzione  disponeva che agli alunni delle scuole elementari e secondarie di ogni grado e tipo non vengano assegnati compiti scolastici da svolgere o preparare a casa per il giorno successivo a quello festivo, di guisa che nel predetto giorno non abbiano luogo, in linea di massima, interrogazioni degli alunni, almeno che non si tratti, ovviamente, di materia, il cui orario cada soltanto in detto giorno.

La sopracitata circolare  si inseriva nel dibattito sociale aperto dalle trasformazione delle abitudini familiari che attraversavano la bella Italia del boom economico.

Sono passati quarantacinque anni. In Italia, in Europa, nel mondo è cambiato quasi tutto e, più di tutto, è cambiato il profilo culturale delle generazioni, il loro modo di pensare,  di apprendere, di confrontarsi con le forme e gli strumenti del sapere. E’ cambiata la loro – e la nostra – percezione del tempo e dello spazio, le modalità di elaborazione e di espressione del pensiero, le motivazioni e le finalità del conoscere. Ma restano identici gli interrogativi sui compiti a casa,  ai quali si risponde nel modo più vario: servono, non servono, hanno senso, funzione, sono utili, inutili, ininfluenti, dannosi.

Secondo i dati elaborati dall’Ocse-Pisa, diffusi nei giorni scorsi,  nei 38 Paesi che hanno partecipato alle rilevazioni del 2012, tutti coloro che frequentano una scuola fanno i compiti a casa. C’è chi ne fa di più, chi ne fa di meno. Il tempo che dedicano gli studenti italiani è, in media, di nove ore a settimana: un’ora e mezza al giorno.

Non si vuole, qui e ora, mettersi a discutere se nove ore a settimana o dieci o cinque, siano troppe o poche, se fare i compiti a casa sviluppi l’autonomia dell’apprendimento, abitui alla riflessione, all’approfondimento, al confronto con se stesso, all’impegno sistematico, se contribuisca all’acquisizione di un metodo di studio; non si vuole, insomma,  ripetere le solite risposte, che siano a favore o contro non importa. Anzi, ai vecchi interrogativi se ne aggiunge un altro. Questo: che cosa fa un bambino, un ragazzo, in casa, per tutto il pomeriggio, per tutta la sera, se non studia la storia, non fa un problema di geometria, se non si confronta con i temi della filosofia, se non disegna alberi e case e fantasie, che cosa fa in casa per tutto il pomeriggio, per tutta la sera, se non impara una lingua straniera, se non sfoglia un libro di storia dell’arte, se non ne legge uno di fiabe, lentamente, sillabando? Se ne sta per caso davanti alla televisione, si trastulla con la playstation, naviga in internet, girovaga nei social, si obnubila con giochi elettronici vari?

Forse sì. Allora dovremmo formulare la vecchia domanda in modo diverso; non dovremmo più chiederci se i compiti a casa siano utili o inutili, ma se siamo meno o più dannosi di altri intrattenimenti. Perché la cosa sicura è che i compiti a casa dannosi non sono. Ancora più sicuro è che non hanno mai provocato e non provocheranno mai nessuna dipendenza, in quanto la storia dell’uomo dimostra che dai compiti si è sempre cercato di fuggire e in ragione della storia si può ragionevolmente ipotizzare che di fuggire sempre si cercherà. Mentre è scientificamente dimostrata la dipendenza da internet. C’è una sindrome che gli psichiatri chiamano Internet Addiction Disorder: è un disordinare mentale da assuefazione.  Una schiavitù, dalla quale può diventare molto difficile affrancarsi.

Ecco, allora, che la questione dei compiti a casa si complica e richiama non solo valenze pedagogiche, didattiche, psicologiche, ma complessivamente antropologiche, perché è nell’ambito della mutazione antropologica che occorre collocare il problema.

Se si dovesse perseverare a considerare l’opportunità o l’inopportunità dei compiti a casa con logiche o schemi culturalmente superati, si rischierebbe di non valutare adeguatamente il significato che lo studio individuale assume nell’ambito di un processo di formazione, nella relazione tra il soggetto e l’oggetto della conoscenza e, più in generale, di conformazione della personalità.

E’ chiaro che bisogna riflettere ed è anche giusto che nel frattempo si adotti un comportamento prudente. Vale a dire: mentre si riflette, i compiti a casa si continuano a fare o si sospendono? Personalmente non saprei cosa dire, se non che, appunto adottando logiche molto vecchie, probabilmente melius est abundare quam deficere.  Che tradotto significa: meglio studiare qualche ora a casa in attesa di sapere che non serve, che non studiare per scoprire poi che invece sarebbe stato necessario. Oppure, addirittura,  indispensabile. A meno che non ci siano alternative che per la formazione di un bambino, di un ragazzo, si rivelino altrettanto necessarie, ugualmente indispensabili.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di martedì 16 dicembre 2014]

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