Zibaldone galatinese (Pensieri all’alba) XXXVII

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Schiavismo. Leggo in Marzio Barbagli, Congedarsi dal mondo, cit., p. 203, che gli africani resi schiavi dai mercanti che li avrebbero portati a bordo delle loro navi nelle Americhe, credevano fermamente “che i bianchi fossero cannibali e dunque gli schiavi servissero a sfamare i loro padroni o durante il viaggio o appena giunti a destinazione.”

Il fatto – che sarebbe buffo se non fosse tragico – è che i bianchi-negrieri identificavano l’africano-selvaggio-nero con l’antropofago, come si vede spesso nella storia di Robinson, di cui si è detto in questo Zibaldone; sicché dominatore e dominato erano uniti dal timore di essere mangiati l’uno dall’altro. Con la differenza però che il timore degli africani schiavizzati non era poi così arbitrario. In altro modo, essi davvero sarebbero stati mangiati dai bianchi!

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Una lingua non è bella se non è ardita. A proposito della lingua, ricordare quanto afferma Leopardi, Zibaldone 2415: “Una lingua non è bella se non è ardita”. E più avanti, in Zibaldone 2417-2418: “Or questo ardire che cos’è, fuorché la libertà di non essere esatta e matematica? (…) Quindi se la lingua bella è lingua ardita e libera, ella è parimente lingua non esatta e non obbligata alle regole dialettiche delle frasi, delle forme e generalmente del discorso.” (Edizione Damiani, pp. 1561-1562).

Ecco quello che ci vuole: una lingua ardita, ardita e libera! Il che vuol dire che la lingua deve essere coraggiosa, lo scrittore deve essere coraggioso: cosa rarissima!

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Ricordo di mio padre ottuagenario. Quando gli proponevo un nuovo libro, lui si schermiva, ringraziandomi e riponendo il regalo sulla pila dei libri. – Non lo leggerà – pensavo con malcelato disappunto. Avrei dovuto pensare che il desiderio di conoscere è legato al tempo e il suo affievolirsi è un presagio di morte.

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Andar sempre dietro alle proprie idee: nella scrittura questo è l’essenziale! Scrive Giacomo Leopardi, Zibaldone 1544-1545 (Edizione Damiani, p. 1091): “Questo esercizio [della scrittura] è tanto necessario, che io per l’una parte loderò moltissimo, per l’altra piglierò per sempre moltissima speranza di un fanciullo o di un giovane, il quale ponendosi a scrivere e comporre, vada sempre dietro alle idee proprie, e voglia a ogni costo esprimerle, siano pur frivole com’è naturale ne’ principii della riflessione, e malamente espresse, com’è naturale ne’ principii dello scrivere e dell’applicare i segni ai pensieri. A me pare ch’io fossi uno di questi. (22. Agosto 1821.).”

Ora, si paragoni quanto scrive Leopardi alla pratica della scrittura imposta nella scuola italiana: tipologie fisse che prevedono percorsi obbligati di svolgimento, prove strutturate o semi strutturate, crocette da apporre in ogni dove, ecc.; e si capirà quanto sia difficile per lo studente italiano (non solo!) andar sempre dietro alle proprie idee.

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Credenze estreme. Tra Sei e Settecento gli storici hanno riscontrato molti casi di persone che, volendo morire, e non potendolo fare di propria mano perché la religione non lo consentiva, uccidevano un bambino e subito si consegnavano alle autorità, confessavano l’assassinio volontario e chiedevano di essere giustiziate. Così, mentre l’anima del bambino volava in cielo – chi, infatti, è più puro di un bambino? -, l’assassino, in carcere, affidato alle cure di un sacerdote, aveva tutto il tempo di espiare, pentirsi e sperare, dopo l’esecuzione della sentenza capitale, di raggiungere in paradiso l’anima del piccolo assassinato. L’assassino prendeva così – come suole dirsi – due piccioni con una fava. Questi suicidi indiretti, come vennero chiamati, furono così numerosi che le autorità dovettero intervenire, e lo fecero in questo modo: “Il reo sarebbe stato condannato a punizioni dure e infamanti: a essere frustato, marchiato in fronte, incatenato, costretto a svolgere tutto il giorno lavori duri e vergognosi; a essere portato, una volta all’anno, nel giorno del mercato, nella piazza cittadina, con la testa scoperta, una corda al collo, le catene ai piedi, e con questa scritta attaccata al petto: “assassino di un bambino innocente”. Ma non alla pena capitale.” Questa storia ce la racconta Marzio Barbagli, Congedarsi dal mondo, Il Mulino, Bologna 2009. La citazione è a p. 90. Essa è significativa di quanto estreme possano essere le credenze dell’uomo.

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Nella notte buia. Mi capita qualche volta di notte, quando spengo la luce, prima di addormentarmi. L’esercizio è dei più ambiziosi: cerco la ragione della vita, penso al posto che l’uomo occupa nel mondo, agli spazi siderali, alla materia, al pullulare in essa della vita, alla credenza degli uomini in un dio, al senso di sicurezza e di conforto che da essa promana. Ogni volta finisco col concludere che l’errore è nel fare questo vano esercizio, nel pormi domande che non possono avere una risposta, nella stoltezza di un approccio raziocinante alla realtà delle cose.  La vita – mi dico – deve essere vissuta e non è bene farci su delle elucubrazioni che sono per loro natura fuorvianti. Bisogna vivere, e basta! Rifletto ancora, e penso che questo strano esercizio sia provocato da un’infantile innata atavica paura del buio, del silenzio notturno, dal timore dei pericoli delle tenebre che i nostri avi preistorici ci hanno trasmesso geneticamente – loro che non avevano un tetto e si aggiravano ancora nelle selve, in balia di più forti predatori -, dalla solitudine. Il ragionamento – penso – mi aiuta a superare questa paura e nello stesso tempo mi stanca, conducendomi, proprio nell’atto di correggermi – le mie domande sono fuorvianti e dunque inutili – verso il sonno pacificatore. Ecco – mi dico -, il sonno è l’esito inevitabile del ragionamento, il nulla, oltre il quale non si può andare, a cui approda ogni discorso de rerum natura.

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Vita ed esistenza. Mettere a nudo l’esistenza, rivelandone le ridondanze, le preterizioni, le ipocrisie, i fini più o meno nascosti, mostrare la vita al di là di quanto ottunde la mente: false credenze, ambizioni smodate, semplici illusioni, conformismi, comportamenti servili e snob; fino a portare alla luce un pensiero pulito ed essenziale: questo significa raccontare la nuda vita. La vita è sempre nuda, l’esistenza è travestita (l’esistenza traveste la vita).

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Strani conti del tempo. In Graham Greene, In viaggio con la zia, in Romanzi II, a cura di Paolo Bertinetti, Mondadori, Milano 2001, p. 905, c’è un personaggio di nome O’Toole, che fa una strana conta: “Non l’ho mai detto a nessuno” disse. “Alla maggior parte delle persone potrà sembrare strano, immagino. La verità è che conto mentalmente i secondi che impiego a orinare e poi me li segno, insieme all’ora. Si rende conto che ogni anno passiamo una giornata intera a pisciare?” Poi il personaggio sciorina i suoi appunti per dimostrare l’assunto. La cosa risulta strana anche a noi, certo, ma se ci si pensa un po’, che cosa significa questa conta se non una riflessione sul corpo individuale, sulle sue funzioni in rapporto al tempo? Il raccontino può dare una risposta alla semplice domanda: di che cosa è fatto, anche, il nostro tempo?

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