Poco tempo fa l’economista Nouriel Roubini, che seppe prevedere la grande recessione del 2008, aveva lanciato l’allarme sul perverso annodarsi di stagnazione e di aumento dell’inflazione, tristemente nota come stagflazione. Di fronte al delinearsi di una chiusura d’anno poco felice per l’economia, persino la recentissima Nadef rischia di risultare in arretrato con l’andamento reale della situazione. Di fronte a tale quadro si profila un bivio, in sé non nuovo. Se tirare il freno della spesa pubblica o al contrario giocare con coraggio la sfida di un incremento degli investimenti e dei consumi. La Nadef ci dice che scelta del governo va nella prima direzione. Bisogna tenere conto che la previsione di una crescita dell’Italia del 6%, confermata dal governo, superiore a quella precedente di aprile (4,5%) non elimina il nostro ritardo di fronte a un mondo che dovrebbe raggiungere a fine 2022 (stime Ocse) una crescita del 6,8% rispetto al livello pre Covid del 2019, mentre al nostro paese viene attribuito solo l’ 1,1%. Questo quadro dovrebbe consigliare una politica economica ben più coraggiosa. Invece, anziché confermare l’11,8% di deficit su Pil previsto in aprile, la Nadef si compiace di prospettare una riduzione al 9,4%, prevedendo una politica di bilancio espansiva fino al 2024, dopo di che si punterebbe alla “riduzione del disavanzo strutturale e a ricondurre il rapporto debito/Pil al livello pre crisi entro il 2030”, come scrive il ministro Franco nella premessa alla Nadef. Ma se, cosa detta più volte dallo stesso Draghi, la via maestra per la riduzione del deficit sta nell’incremento del Pil; se l’ex ministro Giovanni Tria, riconosce esplicitamente che le regole del famigerato fiscal compact non sono sbagliate solamente ora ma fin dal loro inizio; se il rimbalzo vi è stato – non chiamiamola ancora ripresa visto che risaliamo da un -8,9% – grazie a una politica più espansiva, perché non incrementare la spesa in investimenti innovativi, a forte ricaduta occupazionale e sociale, anziché compiacersi della riduzione di circa 40 miliardi del debito previsto in aprile? La spiegazione è una sola: malgrado le dure repliche della storia la linea del rigore è tutt’altro che definitivamente sconfitta e gli stessi esiti delle elezioni tedesche che potrebbero partorire un governo con un ministro delle finanze liberale, spingerebbero verso un ritorno al passato. Non è un caso che nella riforma fiscale, su cui Salvini prova a costruire il suo consenso, in realtà si prevede che la revisione del catasto – chiesta dalla stessa Ue nel 2019 – abbia effetto solo dopo il 1° gennaio 2026 in termini di maggiori introiti fiscali. Ovvero neppure la rendita va scalfita. E come se non bastasse nell’ultima versione della Nadef si ripropone nel novero delle leggi collegate alla manovra di bilancio 2022-24 la pessima legge sull’autonomia differenziata per le regioni, come se le vicende della gestione della sanità nella pandemia non ci avessero insegnato nulla. L’inserimento della proposta di legge quadro sull’autonomia differenziata tra i collegati al bilancio non comporta di per sé l’obbligo alla sua discussione e approvazione entro la sessione di bilancio. Ma certamente rende questa discussione, qualora si facesse, più vincolata nei tempi e nella gestione degli emendamenti. Ma soprattutto minerebbe la possibilità del ricorso ad un eventuale referendum abrogativo, potendosi ad essa applicare le norme ostative presenti nell’articolo 75 della nostra Costituzione, che nel secondo comma prevede che non sia ammesso “il referendum per le leggi tributarie e di bilancio”.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 24 ottobre 2021]