L’uomo della strada non sa individuare con precisione quali siano le cause che hanno determinato la risalita dagli inferi di questo demonio, e nemmeno gli interessa più delle cause, e nemmeno vuole stare ad ascoltare le varie tavole rotonde che sull’argomento si imbandiscono in continuazione senza produrre mai alcun effetto. Vuole che la politica trovi soluzioni, per il semplice fatto che esiste per questo. Che metta i problemi in ordine di importanza, o di gravità, o di urgenza, e li risolva rispettando quell’ordine, senza farsi distrarre da problemi meno importanti o da falsi problemi. Rispettando quell’ordine si trova al primo posto il problema della disoccupazione che è importante, grave, urgente. Soggettivo e collettivo. Esistenziale e sociale. Problema che genera altri problemi. Che inquieta, lacera, dissangua.
Non è da solo, l’uomo della strada, ad avere questi pensieri.
Sono in tanti gli uomini della strada, in questo Paese, e quindi sono in tanti ad avere gli stessi pensieri. Sono in tanti quelli che conoscono situazioni di delusione, di scoraggiamento, di avvilimento. Sono in tanti anche quelli che continuano ad avere fiducia e speranza nella politica, nella consapevolezza che non c’è un’alternativa se non quella della barbarie.
Non ha conoscenze specifiche di scienze politiche o di scienze economiche, l’uomo della strada. Per questo confida in coloro che ce l’hanno e ad essi si affida. Però, nonostante le sue incompetenze, certe volte intuisce che alcune idee si possono rivelare vincenti. Il patto tra generazioni, per esempio, in qualsiasi settore pubblico o privato. Guadagnare meno ma guadagnare tutti. Mettersi insieme per il lavoro, lo sviluppo, la crescita. Oppure il risparmio in contesti poco produttivi e il conseguente investimento in quelli che producono di più. Perché l’uomo della strada ha gli occhi per vedere e la poca intelligenza che gli basta per capire che sia indispensabile razionalizzare.
I tempi non sono tutti uguali. Forse ci sono pure stati tempi in cui si è accettato che si simulasse, si millantasse, si esagerasse. Poi sono venuti altri tempi. Quelli che viviamo sono altri tempi. Che hanno bisogno di una politica equilibrata, capace di guardare verso la sponda del futuro e di costruire ponti per raggiungerlo.
E’ evidente che l’uomo della strada abbia un concetto positivo, anzi altissimo, aristotelico, della politica, ed è proprio sulla base di questo concetto che si aspetta dalla politica la prestazione di un servizio ai cittadini che consentono ad essa di esprimersi e di realizzarsi. Soprattutto quando la politica agisce nei contesti di una democrazia. Siccome ogni servizio della politica nell’ambito di una democrazia deve risolversi a vantaggio, nell’interesse, per il benessere dei cittadini, ora il servizio che deve fornire è quello di creare condizioni e situazioni di lavoro realizzando un vantaggio e un benessere che riguarda tutti. Nessuno escluso. Non ci potrebbe essere singola persona, famiglia, partito, sindacato, impresa, azienda, piazza, in disaccordo con una politica che elaborasse un programma e realizzasse azioni finalizzate a schiacciare la testa a quel demonio della disoccupazione. Né ci sarebbe chi non fosse disposto ad affrontare sacrifici e privazioni davanti ad una prospettiva concreta di soluzione del problema. Non ci sarebbe la possibilità di opposizioni, di avversità, perché chiunque potrebbe facilmente verificare l’esistenza di un vantaggio per se stesso, o per un figlio, un figlio del figlio, un fratello, una sorella, un amico, un conoscente, uno sconosciuto, per la comunità del più piccolo dei paesi, per quella di un’intera nazione.
L’uomo della strada non vuole rinunciare, per nessuna ragione, a credere che la politica sappia ascoltare i bisogni delle persone, i loro progetti di vita, perfino i loro sogni, e agire in modo da dare risposte.
Non vuole rinunciare a pensare che la politica impegni ogni energia e ogni risorsa con il fine di realizzare quello che dice la Costituzione: la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.
Questo deve fare la politica. Semplicemente questo.
[Nuovo Quotidiano di Puglia, 15 gennaio 2013]
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I consigli utili per scegliere la scuola superiore
Se è vero che in questo tempo l’età della giovinezza dura più a lungo, è vero anche che quella dell’adolescenza dura di meno. L’adolescenza si smorza quando sulla soglia del presente matura la stagione delle scelte importanti: di quelle che per il futuro di un ragazzo, di una ragazza, assumono un significato di valore rilevante. La scelta di una scuola superiore è una di queste. È una decisione che diventa determinante per il configurarsi del profilo formativo, che probabilmente indicherà la strada che si dovrà prendere dopo, per gli studi universitari, per il mondo del lavoro. Anche se a quattordici anni sembra che quella strada non sia neanche una linea d’ombra all’orizzonte, anche se sembra che i cinque anni di scuola superiore non debbano passare mai, poi invece passano mentre li si guarda sfrenarsi al galoppo dal finestrino di un pullman, nelle prime ore delle mattine sonnolente, in quelle più tarde all’uscita da scuola.
Il 28 febbraio scadrà il termine per l’iscrizione, e i ragazzi si chiedono quale scuola scegliere, si fanno la stessa domanda i genitori. Un liceo, un tecnico, un professionale. Quale scuola. Quella più facile, quella più difficile. Quale scuola. A quell’età le idee sono confuse. E’ giusto avere idee confuse, a quell’età. E’ bello avere un’età in cui le idee sono confuse. Le idee sono confuse quando sono tante da potersi confondere. Quando si ha una sola idea vuol dire che non se ne hanno altre, e non ci sono ragazze, non ci sono ragazzi, che non abbiano tante idee nella testa da poterle confondere come le nuvole al vento. Anche se a volte se le tengono dentro, perché gli adulti non sanno tirargliele fuori. Loro, i ragazzi, se le tengono dentro perché hanno l’intrinseca consapevolezza di doversi confrontare innanzitutto con se stessi, di dover prendere decisioni con scrupolo, con responsabilità. Se gli adulti vogliono che si confrontino anche con loro, devono far capire che quel confronto ha un senso, che ha un’importanza la condivisione delle idee, che un riscontro può essere utile, o almeno rassicurante.
Quale scuola, dunque?
Innanzitutto una scuola in cui si stia bene, ci si trovi a proprio agio: una scuola che eventualmente sappia affrontare e risolvere il disagio, attenta alla personalità, ai processi di crescita. Con insegnanti che sappiano innanzitutto ascoltare anche il silenzio. Che sappiano leggere e interpretare gli sguardi. Che sappiano dialogare. Che considerano la propria disciplina – ogni disciplina- come una scienza dell’umano. Che considerano ogni ora di lezione come la parte di un viaggio che si fa assieme. Insegnanti così ce ne sono, ancora. Ce ne saranno sempre. Stare bene è la condizione fondamentale, essenziale, per apprendere bene.
Allora i ragazzi, le ragazze, che oggi frequentano la terza media, devono fare una cosa molto semplice: chiedere ai loro amici più grandi di un anno, di due, come si trovano nelle scuole che frequentano, se la mattina entrano in aula serenamente o con un peso sul cuore, se ne escono con la stessa serenità o con un peso maggiore. Basta questo, perché capiranno dopo, capiranno da sé, che essere e sapere sono un concetto solo derivante da reciproche conseguenze: l’essere che conforma il sapere e il sapere che conforma l’essere. Poi capiranno dopo, autonomamente, che in questa relazione strutturale, antropologica, le mode non hanno senso, non contano niente, perché le mode quasi sempre fioriscono nel vuoto di senso e quando passano non lasciano altro che quello stesso vuoto di senso.
Poi devono fare un’altra cosa, forse meno semplice ma dalla quale non si può prescindere. Questa: prendere i piani di studio – quelli nazionali- delle diverse scuole e compararli. Serve a capire se un piano di studi si attaglia alla propria personalità, se risponde alle esigenze, alle inclinazioni, alle preferenze. Devono fare nel modo in cui fanno quando entrano in un negozio per comprare una maglietta, che provano e riprovano per trovare la taglia che non sia larga e non sia stretta, che scelgono un colore che gli piace, magari chiedendo il consiglio dell’amico, dell’amica che si sono portati dietro e fregandosene di quelli del commesso. Che non s’è mai sentito un oste che dica che il suo vino non è buono.
Poi, una volta che hanno individuato il piano di studi che sentono più aderente, coerente, confacente, devono andare nelle scuole ed entrare nelle classi, partecipare alle lezioni, alle attività che si fanno nelle biblioteche, nei laboratori, nelle palestre. Devono fare esperienza, direttamente, senza lasciarsi attrarre dagli spot. La pubblicità è l’anima del commercio non della formazione.
Ecco. A questo punto occorre che si mettano a riflettere con la ragione del sentimento e il sentimento della ragione, per creare un’armonia tra quella stupenda confusione delle idee.
E’ importante parlare con tutti, ascoltare tutti, fidarsi della saggezza di insegnanti e genitori.
Ma è ancora più importante parlare con se stessi, ascoltare se stessi, seguire il proprio pensiero, fidarsi del proprio entusiasmo, assecondare le proprie passioni, lasciare che la scelta di una scuola sia sostanzialmente il richiamo di un canto di sirene sincere che viene da dentro.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, 21 gennaio 2013]
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Meno alunni in ogni classe: questa è scuola
Non c’è nessuna necessità di ribadire che la relazione tra qualsiasi condizione di una civiltà e il suo livello di istruzione sia strutturale, intrinseca, radicale. Né c’è bisogno di argomentare per quali ragioni la qualità di un sistema formativo risulti determinante per la qualità dei processi produttivi e quindi per quella del sistema economico. Ma accade che nella definizione delle priorità di una nazione, talvolta il sistema d’istruzione subisca una certa trascuratezza, forse perché, più o meno inconsciamente, si dà per scontato che esso funzioni a prescindere, indipendentemente dalle risorse che si ritrova a disposizione. Un po’ questo è vero, in fondo: ogni mattina si aprono le scuole e si comincia a fare lezione, per cui si ha la certezza che comunque tutto vada. In effetti tutto va. Però la differenza è determinata dal modo in cui il tutto va, da come si fa la strada, dalle condizioni in cui si va.
Proviamo un po’, quando abbiamo finito di scrivere, di leggere questo pezzo, a metterci in otto, in nove, in dieci, in una utilitaria quattro posti e ad andare da Lecce fino a Milano o, se si vuole, anche viceversa.
Il problema è esattamente questo. Sono anni ormai che la scuola fa il viaggio nelle stesse condizioni, con un rapporto insegnante- alunni inadeguato alla lunghezza e all’impegno che il viaggio comporta.
A modesto avviso – ma nella consapevolezza che il modesto avviso è di tanti, di molti, forse di tutti i bambini, le bambine, i ragazzi, le ragazze, gli insegnati, i genitori – il primo intervento che il governo che verrà deve fare sulla scuola, è la riduzione del numero di alunni nelle classi. Anche se riduzione è un termine improprio. Diciamo calibratura, adeguamento; oppure usiamo il verbo razionalizzare.
E’ certo che questo comporterà una spesa maggiore, ma potrà essere recuperata in qualche altro settore, perché, insomma, non è che in questo Paese non esistano settori in cui la spesa si possa recuperare, senza incidere sui destini delle persone, sul futuro di ciascuno e di una nazione.
Allora, ogni mattina si aprono le scuole e si comincia a fare lezione. Con ventisette alunni per classe. A volte con trenta. A volte di più. Ciascuno dei ventisette, dei trenta, ciascuno dei più, ha bisogni specifici, tempi personali, la necessità di un recupero, di un potenziamento, una domanda da fare all’insegnante, un dubbio da esporre, una proposta, un confronto con i compagni sul problema di geometria, sulla versione. Una sua piccola, grande storia da raccontare. Ma come si fa, che l’ora sta per finire, gli scrutini del quadrimestre si affacciano inquietanti, ci sono i compiti, le interrogazioni, le simulazioni per le prove d’esame, quelle delle prove per l’Invalsi. Come si fa, con ventisette, con trenta, con anche di più alunni per classe.
Il governo che verrà deve mettere in un programma di priorità una significativa riduzione del numero di alunni per classe perché questo è il presupposto essenziale per la personalizzazione dei processi di insegnamento e di apprendimento. Che significa dare a ogni persona che insegna la possibilità di occuparsi di ogni persona che apprende. Tutti i giorni. Sistematicamente.
Perché da questo dipende la qualità delle conoscenze, delle abilità, delle competenze di ciascuno. Tutti i ciascuno messi insieme fanno una comunità, un popolo e le loro competenze fanno quelle di un paese. Le competenze di un paese realizzano produttività, competitività, economia. Quindi crescita sociale, civile, culturale. Recentemente la Commissione europea, nella comunicazione “Ripensare l’istruzione: investire nelle abilità in vista di migliori risultati socio-economici”, ha osservato che un livello di spesa per l’istruzione insufficiente oggi determinerà inevitabilmente, nel medio-lungo periodo, gravi conseguenze per la base delle abilità in Europa.
Per fare grandi riforme a volte basta poco. A volte basta poco anche per aprire o sbloccare i canali del lavoro in un settore. Non si ha notizia di un solo caso in cui un investimento nella formazione, per il sapere, sia risultato fallimentare. A volte basta poco. Basta fare dei conti di una semplicità eccezionale. Per esempio: si prende una scuola con 40 classi; si tolgono 5 alunni per ogni classe; con i 200 alunni si formano 10 classi di 20 alunni ciascuna. Quindi sono 10 classi in più. Ovviamente il numero di insegnanti che servono per ogni classe varia a seconda che si tratti di una scuola dell’infanzia, primaria, o secondaria di primo e secondo grado. Si faccia lo stesso calcolo per ogni istituto d’Italia in base al numero delle classi e ci si accorge di quanti insegnanti servono soltanto per fare classi con venti alunni, che non sarebbe un numero da Eden ma di una terra assolutamente normale.
Però fare scuola con venti alunni o con trenta non è la stessa cosa. Cambia quantomeno l’intensità della relazione e il tempo che si può dedicare a ciascuno, e il tempo nella formazione vuol dire approfondimento delle conoscenze e delle esperienze, possibilità di ricercare il nucleo, il lievito, la sostanza degli apprendimenti, vuol dire maggiore consapevolezza nel processo di crescita, maggiore possibilità di riflessione e di elaborazione dei significati, agio nel percorso formativo. Ogni frutto ha bisogno del giusto tempo nel processo di maturazione, e la formazione è innanzitutto maturazione del frutto del sé. Vuol dire avere a disposizione una delle condizioni che risultano essenziali non solo per ampliare la quantità delle competenze ma anche e soprattutto per innalzare il livello della loro qualità. Quella qualità che gli studenti si porteranno dietro, dentro, nella vita, e quindi nel mestiere che faranno.
[Nuovo Quotidiano di Puglia, 28 gennaio 2013]
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Cari ragazzi, studiate per non essere “servi”
Accadono fenomeni in un Paese che fanno male quanto un terremoto. Producono le stesse ferite, lo stesso sconvolgimento della terra. I cinquantottomila studenti che l’università ha perduto negli ultimi dieci anni sono un fenomeno così: devastante. Una squarcio sul corpo vivo della Costituzione, sul tessuto del progresso, dello sviluppo, della crescita, dell’innovazione, della creatività, dell’evoluzione.
Perché senza una formazione adeguata alla temperie culturale non ci può essere crescita di civiltà, né sviluppo economico, né possibilità di competizione. Senza una formazione adeguata, ogni luogo di una nazione viene invaso degli spettri dell’arretratezza, dell’immobilismo, della regressione. Della decadenza. Viene meno la possibilità del confronto, dello scambio di idee, di proposte. Non si possono decodificare, leggere, interpretare i codici dei saperi che sopraggiungono e che richiedono forti abilità, nuove competenze. In quella che viene definita come la società della conoscenza, conoscere è fondamentale, essenziale in quanto la differenza già oggi, e forse sempre di più da domani in poi, non sarà tra chi ha e chi non ha, ma tra chi sa e chi non sa. Lo dicono gli economisti che un’economia di qualità ha bisogno di una formazione di qualità, di eccellenza.
Se 57.999 studenti, al termine della scuola superiore, hanno scelto consapevolmente di lasciare gli studi per seguire subito le strade del lavoro, va bene, va benissimo. Ci mancherebbe. Ma se uno solo, quello che rimane, ha dovuto rinunciare alle aspirazioni, al talento, ai sogni, perché ha considerato che gli studi universitari non gli avrebbero dato opportunità di realizzarli, questa è una colpa che una nazione paga: non si sa come, non si sa quando. Ma la paga.
Però i dati sulla disoccupazione non inducono a pensare che i 57.999 abbiano trovato un lavoro. Forse sono in cerca di prima occupazione, come si dice, oppure accettano sottoccupazioni, precarietà umilianti, rapporti saltuari, provvisorietà e incertezze frustranti. Sopravvivono con la pensione dei nonni, talvolta.
Se non si sono iscritti all’università, probabilmente è stato per una sconsolata considerazione.
Allora, a un certo punto i giovani si sono resi conto che la laurea non costituisce più un lasciapassare per il lavoro. Quasi nessun tipo di laurea. O che lo diventa solo in una ridotta percentuale con titoli di studio ad alta specializzazione. Sono anni, ormai, che la domanda di lavoro si è quasi strozzata o si realizza con affanno.
A quello stesso punto, della situazione se ne sono rese conto anche i genitori, condividendo con i figli l’idea che non si rivelasse opportuno un investimento nello studio, per cui hanno pensato che tanto valeva concludere la formazione con la scuola superiore e usare i cinque e più anni che l’impegno universitario richiede per costruirsi opportunità di lavoro. Ma detto in parole povere e sincere, in molti casi si è trattato di arrangiarsi alla meno peggio.
Si tralascia, qui, di immaginare l’amarezza che una decisione del genere comporta tanto per i figli quanto per i genitori, e si tralascia anche di considerare la mortificazione che consegue quando a vent’anni si deve rinunciare a qualcosa, perché le condizioni che si sono create costringono a farlo.
Poi, la crisi economica, i paesaggi foschi, gli orizzonti bui, hanno maturato scoraggiamenti ulteriori.
In questa situazione a molti di noi, forse a tutti, viene spontaneo e frequente domandarsi verso quale direzione voglia andare questa Italia, se voglia andare avanti o tornare indietro di almeno cinquant’anni.
Chiunque abbia buonsenso, onestà, raziocinio, assennatezza, sentimento, chiunque ne abbia a cuore il destino, non può che rispondere che deve andare avanti.
Ma se quest’Italia fino a un certo punto è andata avanti, se ha prodotto eccellenze e genialità, è stato perché ha compiuto il miracolo della scuola di tutti per tutti. Perché ha consentito ai figli dei contadini, degli operai, degli emigranti, di studiare. Soltanto per questo. Tutto il resto è stato una conseguenza. Senza consentire alle generazioni che arrivano una formazione di alto livello e dal profilo marcato, riconoscibile in Europa e nel mondo, non si va avanti e non si resta neanche fermi: si torna indietro, si precipita nella marginalità culturale, sociale, economica; le marginalità sono inevitabilmente legate a nodo stretto: si accompagnano producendo effetti negativi a catena.
Ci sono decisioni che spettano ai governi, e noi si spera in governi attenti alla formazione, alla cultura, sapienti, lungimiranti, che sappiano guardare lontano e sappiano tracciare le strade per il cammino.
Poi ci sono azioni che spettano a ciascuno di noi. Ad ogni adulto che abbia in modo episodico o sistematico la possibilità di parlare con un ragazzo. Per dirgli studia. Fai tutti i sacrifici che sei costretto a fare, però studia. Se le tasse universitarie sono alte, protesta per farle abbassare, ma intanto pagale e studia. Rinuncia a quello che non è essenziale ma comprati i libri, che quelli sono essenziali, e studia. Se non li puoi comprare, imprestateli e studiali. Non permettere mai che siano solo gli altri a studiare, che siano solo in pochi a studiare. Quando a studiare sono in pochi, la democrazia si trova in pericolo. Non dare retta a chi ti dice che non serve a niente, che dovrai fare la fila prima di guadagnare, che quello che poi guadagnerai sarà anche poco, non dare retta perché chi ti dice così ti vuole servo, perché ti vuole male.
Studia perché le cose possono cambiare solo se tutti quelli come te non smetteranno di studiare. Studia anche se non andrai all’università. Perché comunque fa bene al cuore.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, 11 febbraio 2013]
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La passione che fa crescere il Paese
Ci sono quelli che ci credono ancora. Può darsi che dipenda da un sogno antico che si portano dentro, ogni mattina: da quello che il ligure Giuseppe Conte stringeva in una poesia che diceva così: “Eri un ragazzo, non dimenticarlo/ il tuo sogno di allora/ e quanto di esso si è compiuto poi: potrai insegnare il sogno?”.
Ci sono quelli che ci credono ancora nonostante le piccole e grandi amarezze, le più o meno cocenti frustrazioni, nonostante si ritrovino a fare i conti con i pregiudizi, le umiliazioni di chi non capisce, non vuole capire l’essenzialità della loro funzione. Ci sono quelli che ci credono ancora nonostante lo sgretolamento del prestigio sociale che il loro mestiere ha subito e continua a subire, nonostante gli si addossino tutte le inadempienze e le negligenze che sono di altri. Ci credono ancora: entrano in classe e producono pensiero, conoscenza, formazione.
Ci sono quelli per i quali insegnare resta uno dei più entusiasmanti mestieri del mondo, al quale non rinuncerebbero per nessuna altra cosa, né per uno stipendio migliore, né per soddisfazioni maggiori, né per avere potere.
Magari, quando li prende lo scoramento, si ripassano quella frase con cui Roland Barthes concludeva la sua lezione inaugurale al Collège de France: “Nessun potere, un po’ di sapere, un po’ di saggezza e quanto più sapore possibile”.
Secondo i risultati di un’indagine realizzata dall’Associazione Nazionale Presidi su un campione di docenti di scuola primaria e secondaria di primo e secondo grado, il 70% dei docenti si dichiara realizzato, apprezzato e ascoltato; oltre il 90% sostiene di essere rispettato da alunni, colleghi e famiglie, mentre quasi il 7%, – pochi, in fondo – dichiara di avere problemi nella relazione con i genitori degli studenti.
Quasi tutti vorrebbero una maggiore autonomia nella progettazione didattica e nel lavoro in classe, a conferma di un eccessivo carico burocratico che talvolta sottrae pensieri ed energie, si rivela ridondante e comunque poco coerente con quelli che sono i bisogni reali di studenti e docenti.
Richiedono una formazione continua su competenze di tipo psico-pedagogico, tecnologico, organizzativo.
Poi chiedono di essere valutati. Smentendo, smascherando il luogo comune che gli insegnanti rifiutano una valutazione. Certo, ne vorrebbero una concreta, fondata su criteri e parametri che tengano conto dei contesti e delle condizioni in cui lavorano, soprattutto sulla considerazione che nei processi di apprendimento interviene una pluralità di fattori, di variabili, di circostanze di cui si deve necessariamente tener conto. Ma è solo in relazione agli apprendimenti degli studenti, di ogni studente, che i docenti dovrebbero essere valutati. Sugli esiti del loro lavoro in classe. Perché è quella la dimensione naturale e istituzionale, quella è la loro funzione. Tutto il resto è apparato, e quindi inessenziale.
In stretta correlazione con questa istanza professionale, si pone l’esigenza di una maggiore cultura della responsabilità e della rendicontazione, anch’esse intese quali espressioni di una trasparenza sociale che come risvolto potrebbe restituire e rinnovare il riconoscimento dell’importanza fondamentale che il mestiere assume nella formazione delle generazioni e di conseguenza nello sviluppo di una nazione. Forse in questi tempi di sovrabbondante informazione che talvolta provoca la suggestione e l’illusione della possibilità di un apprendimento self service, sarebbe necessaria una riflessione sulla indispensabilità di un processo di insegnamento progettato, programmato, sistematico, costante, verificato, valutato, che solo la scuola può garantire, e quindi solo il maestro.
Dall’indagine si evince, peraltro, come non sia più rinviabile la definizione di un sistema che stabilisca una coerenza e un nesso tra la formazione, il reclutamento e lo sviluppo professionale, la valutazione, la retribuzione, l’articolazione della carriera.
Forse l’insegnante è l’unico professionista che conclude il proprio percorso lavorativo nelle stesse condizioni in cui l’ha cominciato, con lo stesso stato giuridico, e con lo stesso stipendio ritoccato solo da qualche automatismo retributivo. Indipendentemente da quello che ha fatto, da come lo ha fatto, da quanto ci ha creduto.
Perché ci sono quelli che ci credono fino all’ultimo giorno, all’ultima ora. Credono che scendere nelle profondità del verso di una poesia, comprendere la sostanza di una formula di geometria, interpretare la storia e un testo di filosofia, confrontarsi con i misteri dell’universo attraverso la fisica, comprendere la vita attraverso la biologia, rivelare i significati dell’essere attraverso la psicologia, avere consapevolezza del miracolo di un’opera d’arte, possano consentire a una persona di pensare in modo diverso, di comportarsi in modo diverso, di esistere con più consapevolezza, più sensibilità, più responsabilità nei confronti di se stesso, degli altri.
Ci sono quelli che fanno questo mestiere in una maniera che si può riassumere con una parola che è un po’ passata di moda e che si pronuncia con qualche ritrosia, in quanto è stata confusa con un sentimentalismo della professione d’atmosfera deamicisiana: passione. Che, invece, è una condizione che in questo mestiere costituisce quasi un presupposto, come in ogni mestiere che si ponga come principio e come fine il benessere della persona.
Probabilmente la conoscenza di quello che s’insegna, la competenza nell’insegnarlo, si caricano di un’energia sempre nuova o sempre rinnovata, se sono tramati e contagiati da quella passione. Che molti ancora hanno ed alla quale non intendono in alcun modo e per nessun motivo rinunciare, per il fatto che ne scoprono il bisogno negli occhi dei ragazzi che si ritrovano davanti ogni giorno.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di lunedì 18 febbraio 2012]
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Alla ricerca della lettura perduta
Dicono i dati Istat che qui, dove c’erano accademie e monaci sapientissimi, dov’era Magna Grecia, qui, dove “Pitagora dedusse il numero:/principio e fine/ d’ogni congiunzione di pensieri,/luce di fede/ e musica/ di navigati mappamondi”, dicono che qui, al Sud, si legge di meno rispetto al Centro e al Nord. I lettori più forti sono tutti nelle province autonome di Bolzano e Trento, in Veneto, in Valle d’Aosta. Nelle regioni del Mezzogiorno, invece, soltanto una persona su tre ha letto nel tempo libero almeno un libro negli ultimi dodici mesi. In particolari i numeri meno entusiasmanti si registrano in Puglia (31,7), Campania (32,2), Sicilia (32,8), Basilicata (33,5).
I dati sono attendibili, certamente, eppure d’istinto viene da non crederci. Non ci capisce quali possano essere i motivi. Sarà che fa troppo caldo, sarà che gironzoliamo troppo, sarà che abbiamo meno soldi da spendere in libri, oppure sarà che pensiamo di conoscere già tutto, sospettiamo che i libri poi dicano sempre le stesse cose.
Però se i dati sono attendibili, e non si hanno motivi per dubitare, la situazione desta qualche preoccupazione per gli effetti che può produrre non solo sulla formazione, sulle visioni che si acquisiscono del mondo, ma proprio sui processi di crescita e di maturazione. Insomma, non ci metteremo certo ad elencare l’importanza che assume la lettura nella delineazione della personalità, ma che l’esperienza della lettura incida notevolmente sulla sfera dell’essere e dell’esistere in generale, è una considerazione talmente ovvia che si prova quasi pudore a formularla.
Ma forse non sarebbe neanche conveniente mettersi a ragionare sulle cause che hanno determinato e determinano una situazione di questo tipo. Perché potrebbero venire pensieri perfino banali. Come il seguente, per esempio: al Nord si usano di più i mezzi pubblici. Può sembrare paradossale e invece è meno paradossale di quanto sembra. Quando si entra nel tram, nell’autobus di una città, si vedono persone di ogni età che leggono. Se per coincidenza di orari si ritrova la stessa persona sullo stesso tram per una settimana ci si accorge che legge sempre lo stesso libro. Quando sta per arrivare alla fermata, mette il segnalibro, e scende. Dopo una settimana cambia libro. La considerazione non è tanto paradossale in quanto i dati Istat si riferiscono alla lettura nel tempo libero. Infatti, non è improbabile che se si rivolge a una persona che deve leggere libri per il mestiere che fa la domanda su quanti libri legge nel tempo libero, la risposta possa essere zero. Perché la sua lettura è incardinata nel suo tempo. La risposta zero, peraltro, molto spesso è carica di rammarico e di rimpianto per quando poteva leggere quello che voleva: senza programmi, disordinatamente, voracemente, senza la pila di libri sul tavolo da smaltire entro quel giorno necessariamente. Però al tempo stesso esprime la felicità per il fatto che se ora legge per mestiere è perché allora ha letto per piacere.
Però quei dati Istat – sui quali ripeto non ci sono motivi per dubitare- impongono la ricerca di una soluzione che ristabilisca un equilibrio culturale tra le diverse parti del Paese.
Si sa che spesso la lettura costituisce una sorta di specchio o di proiezione dell’identità storica e personale, un territorio in cui rintracciare le radici e i rami, il senso del passato e quello del presente. Allora si potrebbe pensare ad un processo di riscoperta dei libri che rappresentano questa identità, questa memoria, che in qualche modo costituiscono il sostrato antropologico del Sud. Certo, fare dei nomi significa assumersi la responsabilità di non farne altri, implica una scelta del tutto personale che potrebbe anche contrastare con la scelta di altri, con il gusto, la personalità, la formazione, con la sensibilità, con l’interesse.
Niente nomi, dunque. Ma solo un secolo: il Novecento.
Probabilmente non è discutibile che sia stato il Sud a connotare letterariamente il secolo passato. (Mi sta costando molto non citare opere e autori, ma ci devo riuscire). Senza la narrativa e la poesia e anche una certa saggistica nata al Sud oppure da autori del Sud emigrati nei grandi centri, a Roma, a Milano, che nell’opera hanno narrato il Sud, avremmo avuto e avremmo ancora una maggiore difficoltà a capire il groviglio che è stato il Novecento. La narrativa, la poesia, la saggistica del Sud, sono il filo di Arianna che ci permette di muoversi nel labirinto del Novecento italiano. ( Non fare nomi sta diventando un sacrificio). Ma non c’è stato neppure un solo problema sociale, neppure un solo nodo della Storia, non c’è stata condizione esistenziale con cui la letteratura del e nel Novecento meridionale non si sia confrontata.
Ecco, forse si potrebbe (ri)cominciare da qui: a Sud si potrebbe ricominciare a leggere il Sud. Se la cosa può sembrare riduttiva, limitante, allora si potrebbe dire i Sud: plurale. Dai molti Sud d’Italia, dai molti Sud del mondo. Perché se volessimo essere indulgenti nei confronti di noi stessi, se volessimo ad ogni costo cercarci un alibi, potremmo anche dire che noi, qui, a Sud, abbiamo una tradizione millenaria che ci ha educati ad una poesia, una narrativa, una filosofia d’eccellenza, per cui ci riesce difficile adeguarci a qualcosa che eccellente non è.
Ancora: i dati Istat sono attendibili. Però se una testimonianza personale potrebbe avere un qualche senso, anche precario, ininfluente, sono convinto che molti di noi conoscono decine di persone che di libri ne leggono anche tre al mese. Però magari non lo dicono quando rispondono ai questionari. Così, per fare gli snob.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di lunedì 25 febbraio 2013]
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Povera nazione con i giovani così poveri
Chi è stato povero una volta può anche esserlo un’altra volta. E’ ingiusto, iniquo, crudele, certamente, però l’esperienza della povertà gli ha insegnato a gestirla, a contrastarla, a sconfiggerla. Se è stato povero significa che sa reggere lo sguardo mostruoso di quella condizione. Se è stato povero e poi non lo è stato più vuol dire che ha sfidato la bestia a un duello all’ultimo sangue, e lo ha vinto, il duello. Ci sono stati tempi, nemmeno troppo lontani, durante l’ultima guerra, per esempio, ma anche prima, ma anche dopo, che la sfida avveniva ogni giorno. Un giorno si vinceva. Un altro si perdeva. Poi si è vinto per più giorni, si è vinto per più anni, e l’Italia è diventata un Paese in cui il benessere, se non era generalizzato, comunque era abbastanza diffuso.
Ma chi non è stato mai povero non può diventarlo: perché non saprebbe come fare, non saprebbe stare in duello, sconfiggere l’animale ingordo, meschino, schifoso. Chi non si è mai ritrovato a non saper come fare a tirare fino alla sera, a comprare il latte ai bambini, chi non ha neppure un conforto del confronto e non può dirsi se ce l’ho fatta una volta posso farcela ancora, rischia di precipitare nel baratro nero dell’avvilimento, della depressione.
Allora chi è giovane oggi non può essere povero. Perché non lo è mai stato e quindi non sa esserlo e non è giusto che impari. La povertà è una delle poche cose di cui è meglio essere ignoranti.
Però un’indagine dell’Eurostat con dati del 2011 dice che in Italia un minore su tre è a rischio di povertà o esclusione sociale, e l’ultimo anno non ha certamente migliorato la situazione. Una media superiore a quella degli altri Paesi europei e se anche non lo fosse non sarebbe comunque una consolazione.
Né può costituire una giustificazione il fatto che si tratti di un fenomeno mondiale. I poveri, in fondo, si rassomigliano in qualsiasi parte del mondo, e in qualsiasi parte del mondo la povertà produce altra povertà e poi analfabetismo, disgregazione, contrapposizione sociale.
Non so se fa a tutti lo stesso effetto, ma a me leggere o scrivere di povertà in questo tempo di terzo millennio provoca un’amara incredulità. E’ stata questa la sensazione che ho provato, per esempio, leggendo alcuni giorni fa l’ultimo libro di Edgar Morin che s’intitola “La via. Per l’avvenire dell’umanità”. Il decimo capitolo della parte prima di questo saggio poderoso è dedicato a disuguaglianze e povertà e in esergo al paragrafo sulle povertà riporta una frase di Else Oyen che dice così: “ La povertà deve essere uno di quei rari campi nei quali le medicine sono prescritte prima di conoscere la malattia”.
Allora, restringendo e delimitando il discorso, anche se non l’amarezza, a questa piccola parte di mondo che si chiama Italia, mi viene – spontaneamente, ingenuamente – da chiedermi, come mai non siamo riusciti a trovare le medicine per evitare che si arrivasse al 32,3% dei ragazzi in condizione di povertà, ai quali si aggiunge la percentuale degli adulti e degli anziani. Restringendo ancora di più il campo si ritrovano i dati riportati sabato 2 marzo da Alessandro Cellini su questo giornale, secondo i quali il quarto bimestre 2012 “ fotografa una Puglia in netto affanno”, con una disoccupazione al 18,2 per cento, in aumento di quasi quattro punti rispetto a 12 mesi prima, con una crescita del numero di persone in cerca di un’occupazione: dalle 205 mila dell’ultima parte del 2011 alle 265 mila della fine del 2012.
Se è vero che è sconveniente per la loro maturazione che i giovani siano ricchi, è ancora più vero che è ancora più sconveniente, e incivile, che siano poveri. I giovani devono avere le possibilità economiche che consentano loro di essere cittadini liberi, non assoggettabili, non ricattabili, non circuibili da nessuna forma di potere. Devono avere l’indipendenza e l’autosufficienza che consente di scegliere, di esprimersi, di non avere paura. La povertà è forse il più potente movente di paura. Quando non si è indipendenti, quando si ha sempre il bisogno degli altri, non si avverte neppure l’esigenza di esprimere il proprio pensiero, di rivendicare la propria libertà. Così una nazione di giovani poveri è una nazione di pensiero povero, vecchio, impaurito, svuotato di energie, ripiegato sul soddisfacimento dei bisogni quotidiani e immediati. Il ripiegamento impedisce di alzare gli occhi e di guardare avanti, di guardare possibilmente lontano, di cercare la direzione di quella terra promessa della propria esistenza che ognuno deve avere dentro. Senza quella terra promessa di dentro, l’esistenza è un deserto. Non solo l’esistenza di ciascuno ma quella di intere generazioni. Allora senza quella terra promessa delle generazioni, un Paese non può fare altro che pestare i piedi nel pantano, senza sviluppare ricerca, senza costruire formazione e quindi cultura.
Sarebbe perverso che qualcuno volesse una nazione così. Non gioverebbe a nessuno. Sarebbe nocivo per tutti. La formazione e il lavoro sono le condizioni indispensabili, essenziali, per la civiltà di una nazione: una formazione che sia funzionale al lavoro, oltre che alla cultura individuale e collettiva, e un lavoro che a sua volta consente uno sviluppo continuo della formazione e quindi della cultura di tutti e di ciascuno.
Forse il progresso non è altro che questo. Forse può realizzarsi soltanto attraverso questo processo che combina in maniera reciproca, circolare e strutturale la formazione e il lavoro. Fuori da questo processo si spalancano i territori delle recessione e della regressione civile e culturale.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di lunedì 4 marzo 2013]
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Aiutiamo questo Paese che non sa più sognare
L’Italia di questo tempo ha sogni piccoli, dimessi: di quelli che basta stendere la mano per prenderli, come un frutto che pende da un ramo basso. Ha sogni che vivono da una mattina a una sera, che spesso finiscono delusi, sfiancati, e non ritornano più, vengono sostituiti da altri sogni, sempre poveri, sempre dimessi, che pendono bassi. Sempre più quotidiani, consueti, ordinari.
I sogni di ciascuno possono anche essere grandi come catene montuose; possono alzarsi in volo come aquile; possono essere strabilianti. Non basta, però. Perché forse i sogni di ciascuno si possono realizzare solo insieme a quelli degli altri, e l’Italia di questi anni non ha un grande sogno che consideri i sogni di ciascuno. Spalanca gli occhi per cercare di vedere quello che può prendere di giorno in giorno. Basta.
Si ritrova costantemente a confrontarsi con l’emergenza del lavoro, dell’economia, della cultura, senza potersi permettere il sogno di migliorarne le condizioni. Deve tamponare le falle, navigare sottocosta, senza guardare lontano, verso gli ambiti di sviluppo. Deve cercare la soluzione dei problemi e quindi non può sviluppare ricerca partendo dalle soluzioni.
Ma come può essere un popolo che non ha un grande sogno collettivo. Quale può essere la sua prospettiva, il suo percorso, il suo processo di crescita.
Però, la condizione che fa più amarezza e più paura è la mancanza di un grande sogno collettivo da parte dei giovani, e l’amarezza, la paura, sono determinate dal fatto che si tratti di una condizione contro natura. Si è giovani perché si deve sognare. Si è giovani in quanto e fin quando si sogna. Sognare significa prefigurarsi qualcosa da realizzare, una linea d’orizzonte verso la quale procedere. Ma bisogna avere una posizione dalla quale porsi per guardare oltre la prossimità più immediata, e questa posizione nell’Italia di questi anni i giovani non ce l’hanno. Non gli è data, per esempio, da un titolo di studio. Non gli è data, per esempio, da una certezza del lavoro. Che non significa il “posto fisso”. No. Significa semplicemente la possibilità di una mobilità lavorativa.
La paura è provocata dal rischio che l’assenza di sogno possa determinare nei giovani una depressione esistenziale, la convinzione angosciante di non potercela fare. La rinuncia. La resa. Il rifiuto dell’impegno nella politica, nel sociale, nella cultura, nella formazione, nel volontariato. La paura è provocata dal pericolo che si possa insinuare in loro la malefica idea che le cose non possano cambiare. Allora da parte degli adulti c’è un grande lavoro da fare. Da parte di tutti quelli che hanno sognato e anche di quelli che non hanno sognato ma che sentono il rammarico lancinante di non averlo fatto. Ma forse è un lavoro che gli adulti di questi anni in questa Italia non riescono più a fare, non possono più fare. Forse perché sogni non ne hanno nemmeno loro. Forse perché quelli che hanno avuto si sono rivelati effimeri e anche un po’ fuorvianti. Dopo la stagione degli anni Sessanta, l’ultima stagione dei sogni collettivi, degli ideali, gli italiani hanno sognato soltanto il denaro e il potere e il potere che viene dal denaro. Sarei davvero contento di sbagliarmi, che qualcuno potesse dimostrare il contrario e dire quali sogni diversi da quelli del potere e del denaro abbiamo avuto da quando sono cominciati gli anni Ottanta. Abbiamo sognato soltanto una eterna vacanza. Viaggi, bisboccia e feste. Ci bastava. Arrampicatori, rampanti, in cerca di scorciatoie che ci consentissero di arrivare sempre al potere e al denaro.
Chi non la pensava in questo modo, chi si ostinava a credere e ad affermare che fosse indispensabile confidare in qualcosa di fondamentale, che per un giovane, che per chiunque, una biblioteca casalinga avesse più senso e più valore di un fuoristrada, veniva relegato nella categoria del sognatore ingenuo, dell’idealista attardato o, peggio ancora, del moralista.
Così, ora che la bisboccia è finita e che le feste sono patetici rituali celebrati da chi non vuole o non sa capire che i tempi sono cambiati, ora che la questione morale si pone in modo imprescindibile e trasversale, ci accorgiamo che sono proprio quei sogni e quegli ideali ai quali abbiamo rinunciato che ci mancano e di cui avremmo urgente bisogno. Per ricominciare. Ma per ricominciare dobbiamo recuperare i sogni, ricomporne i frammenti. Tutti insieme. Generazione con generazione.
Devono essere i sogni di un’intera nazione, che superano la logica dei particolari.
L’Italia di questi anni è come contratta, senza slancio, senza impulso. Un po’ si è adagiata su quello che ha conquistato dal dopoguerra in poi, un po’ rimane ad osservare la parte di cose conquistate che va perdendo. Quasi rassegnata. Con una sorta di fatalismo che contagia ogni persona ed ogni contesto sociale. Si è ripiegata su se stessa e cerca di parare i colpi che vengono dalla crisi e dall’incertezza. Come un pugile all’angolo che aspetta solo il suono del gong senza uno scatto di reni, d’orgoglio, senza riflettere per un istante che è stato un grande campione, oppure che può diventarlo.
Ci sono stati tempi in cui questo Paese è stato campione: di molte cose: di letteratura, di scienza, di sport, di democrazia, di civiltà. Può diventarlo ancora. Ma ha bisogno di sognare che può ridiventarlo e di fare tutto quello che c’è da fare per realizzare il sogno. Ma ha bisogno che il sogno di ciascuno sia il sogno di tutti e che il sogno di tutti possa rendere concreto il sogno di ciascuno.
Probabilmente uno dei sogni più grandi che l’Italia di questi anni deve avere è quello del lavoro per tutti. Si è trasformato in sogno anche un diritto fondamentale della persona. Allora bisogna fare in modo di realizzarlo: tutti insieme. Senza la realizzazione di questo sogno, molti altri sogni diventano irrealizzabili. Se non si realizza questo sogno si scatenano condizioni avvilenti, frustranti. Sembra assurdo che si sia arrivati al punto che il sogno del lavoro appartenga anche a persone che hanno cinquant’anni, e anche più di cinquant’anni, che dovrebbero caso mai sognare il lavoro per i figli.
Ma nell’Italia di questi anni dobbiamo accettare di pagare a prezzi altissimi anche i sogni normali.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di lunedì 25 marzo 2013]
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Un nuovo Calvino per ripartire con le idee giuste
Probabilmente non è difficile avere idee nuove; probabilmente è difficile liberarsi delle vecchie idee. Spesso le vecchie idee sono comode, ci danno sicurezza, costituiscono una trama di esperienza alla quale ci affidiamo. Spesso sono idee in cui abbiamo creduto con tutto il cuore, su cui abbiamo fondato la nostra esistenza, le abbiamo difese combattendo con chi voleva rubarcele, strapparcele dai pensieri, o dal sangue. Sono quelle idee che ci hanno fatto nel modo in cui siamo.
Le vecchie idee sono il rifugio sicuro nel tempo della tempesta, l’àncora di salvezza, il conforto che viene dalla storia personale e collettiva.
E’ difficile, è doloroso, rinunciare alle vecchie idee: è come dover rinunciare ai sogni, oppure semplicemente a un oggetto al quale si è affezionati, perché è la sintesi della memoria di un tempo migliore, di una storia che ci ha appassionati, di altre stagioni più lievi, più chiare.
Però, poi, in certi passaggi d’epoca maturano condizioni che richiedono, che pretendono idee nuove: una nuova visione del mondo e della vita, una diversa interpretazione delle storie che ci accadono intorno e dei loro personaggi.
Quello che viviamo è un tempo che ha bisogno di idee nuove, in ogni contesto sociale e in ogni contesto di esistenza. Si ha bisogno di nuove idee in politica, in economia, nell’arte, nella letteratura, nella formazione, nella cultura intesa nella sua complessità, nei suoi linguaggi. Si ha bisogno di idee nuove nel lavoro, per il lavoro, nell’organizzazione dei servizi, nelle risposte alle persone, per i processi di progresso e di sviluppo, negli ambiti della conoscenza, dell’esperienza, della convivenza; si ha bisogno di idee nuove nelle piccole e grandi situazioni, in quelle ordinarie della vita di un giorno, in quelle straordinarie che riguardano i destini di una nazione.
Però bisogna fare attenzione alle patacche: compaiono, talvolta all’improvviso, idee che sembrano nuove e che in realtà non lo sono, perché un’idea viene da una conoscenza, da una profonda cognizione delle cose, delle cause e degli effetti che ogni idea comporta.
Bisogna stare attenti a non confondere le nuove idee con le idee alla moda, con quelle che cavalcano l’onda spumeggiante, o che si affidano al vento che tira in quel momento.
Le idee nuove sono – semplicemente – quelle che trasformano in meglio i comportamenti, che garantiscono risultati migliori di quelli che le idee vecchie sono riuscite a realizzare.
Troppe volte è successo che le idee nuove abbiano provocato disastri anche irreparabili, nel breve o medio o lungo termine. Sono le idee che inseguono le mode, indiscriminatamente, con i paraocchi che si mettono ai muli che percorrono i tornanti.
Le idee nuove sono quelle che modificano le strutture, riformulano i concetti, consentono maggiori opportunità. Sono quelle che assicurano benessere, conoscenza, libertà. Le altre sono maschere di cartone messe sulla faccia di vecchie idee, messinscene e travestimenti che nascondono pensieri arrugginiti, mancanza di creatività, di lungimiranza, di orizzonte, di prospettiva, di profondità. Eppure, sono le idee veramente nuove, quelle che mutano le mentalità, che spesso ci fanno paura. (Che ad alcuni fanno paura.) Fanno paura a quelli che hanno indossato le maschere e sono saltati sui carri di carnevale. Fanno paura perché da un momento all’altro possono rivelare l’inganno.
Non esiste un’età per avere idee nuove. Le idee non tengono conto degli anni. Ci sono scienziati, poeti, pittori, sacerdoti, sociologi, psicologi, antropologi, che hanno avuto idee nuove, hanno elaborato nuovi disegni nella mente, quando ormai si era fatto incerto il loro passo, quando gli occhi riuscivano soltanto ad intravedere figure vaghe.
I vecchi dovrebbero essere esploratori, dice Thomas S. Eliot nel finale di uno dei suoi splendidi Quattro quartetti.
Perché quasi mai le idee nuove provengono dal nulla: di solito sono l’esito di una combinazione sapiente di idee già esistenti, sperimentate nei loro risultati prodotti in relazione ai tempi e alle circostanze. Sono la superficie che poggia su profonde stratificazioni, il punto che sintetizza l’intreccio di secoli di pensiero. Le idee nuove sono tutt’altro dalla leggenda della mela che cade sulla testa di un signore chiamato Isaac Newton mentre se ne sta seduto sotto un albero della sua tenuta a Woolsthorpe.
Questi sono tempi che hanno bisogno di idee nuove, dunque, che assumano la funzione dei punti cardinali, che si costituiscano come riferimento sociale ed esistenziale.
Forse ci sarebbe bisogno di tanti Italo Calvino per i problemi di politica e di economia, per esempio, ma anche per la scuola, per l’università, per la sanità, per l’organizzazione della società, per la democrazia, per lo stato sociale, per l’informazione, per la religione. Forse per tutto. I passaggi di millennio non sono soltanto cronologia: sono trasformazioni di mentalità, di codici, di sistemi.
Nelle Lezioni americane, con cinque parole Calvino sintetizzò le idee nuove per la letteratura di questo millennio: leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità. Le sviluppò in modo al tempo stesso complesso ed essenziale. Morì prima di scrivere la sesta: sarebbe stata una lezione sulla consistenza.
Ecco. Ci vorrebbe qualcuno che facesse lo stesso lavoro in ogni settore del sociale: idee nuove, poche idee nuove, ma imprescindibili, essenziali. Consistenti. Che diano risposte alle domande, ai bisogni, anche ai sogni. Che riescano ad unire, a far credere. Se è possibile anche ad entusiasmare.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di martedì 2 aprile 2013]
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Un grande progetto per combattere la precarietà
Soltanto la parola è già umiliante. Poi la condizione che la parola esprime aggiunge avvilimento all’umiliazione. Snerva. Deprime. Logora. Scoraggia. Avvilisce. Svuota di senso i giorni, le cose che si fanno, le storie che si vivono, ghigliottina gli entusiasmi, paralizza i pensieri, vieta ogni progetto, strappa dagli occhi i sogni.
La precarietà sconcerta, disorienta, provoca sensazioni di inadeguatezza, fa diventare timidi, limita le libertà di dire, le capacità di agire, smorza il confronto, mette a disagio, rende inautentiche le relazioni con se stessi, con gli altri.
E’ una sospensione del vivere. Si resta in attesa di qualcosa e spesso non si sa nemmeno di che cosa. Si spera che cambino le situazioni ma le situazioni rimangono immobili oppure diventano peggiori. Se si trasferiscono gli elementi della realtà soggettiva ad una realtà collettiva, a quella di una nazione, si avrà il risultato di una società frenata, che non si esprime, che non si realizza.
Sono decenni ormai che questo Paese vive in condizioni di precarietà sociale come esito delle precarietà individuale. La precarietà è uno di quei casi in cui l’unione non fa la forza ma la debolezza.
La precarietà comporta la conseguenza della paura dell’investimento. Così non si investe più, in nessun contesto. Quando si sa che il carretto su cui si viaggia può perdere una ruota da un momento all’altro, prima di lanciare al galoppo il cavallo si pensa cento volte o non si pensa affatto e si tengono le redini strette, si porta il cavallo al passo.
Non saprei dire in che cosa si investe oggi in Italia. Però so che non si investe più nella formazione, per esempio. Ammesso che le famiglie abbiano i mezzi per farlo, o che siano disposte a farlo con i sacrifici di sempre, non riescono a vedere i benefici che possono trarne, i normali vantaggi che possono maturare. Il calo delle immatricolazioni all’università, o l’abbandono del corso di studi, derivano in gran parte dalla demotivazione, dalla prospettiva di precarietà.
Poi c’è la precarietà di chi si sente vacillare per l’insicurezza di un lavoro che sembrava strutturato, vede smottare il terreno su cui ha costruito qualcosa.
A quel punto comincia l’assedio dell’ansia, dell’incertezza, del dubbio sul futuro, la crisi che dentro, nell’anima.
Del male di vivere esistono innumerevoli manifestazioni, molto spesso determinate dalle contingenze, dalle circostanze storiche, dalla fisionomia dei tempi.
Probabilmente in questi tempi la condizione di precarietà è l’espressione più diffusa del male di vivere. Forse non c’è nessuno che non ne sia contagiato, perché non c’è nessuno che direttamente o indirettamente non ne venga in contatto. In fondo una società è coinvolta dai destini di ciascuno e ciascuno da quelli della società. Nessuno può restarsene in disparte e soprattutto nessuno indifferente. Non fosse altro che per il fatto che la solidarietà è prima di ogni altra cosa un istinto, un naturale movimento di avvicinamento all’altro.
Certo, la precarietà non è una condizione che appartiene solo a questi tempi. Ma forse in questi tempi è dilagata, ha invaso tutti gli spazi del sociale, si è caricata di tutta la complessità dell’epoca, di conseguenza è meno facilmente governabile.
Ma se è vero che è più complessa, meno facilmente governabile, è altrettanto vero che dev’essere affrontata con interventi più decisi, coordinati, coesi, coerenti, congiunti, convergenti, sistematici, con metodi più efficaci, che si devono cercare formule di soluzione diverse considerato che quelle adottate finora non hanno funzionato.
Non so quanti sono i precari in Italia, nei vari settori del lavoro pubblico e privato. Quanti sono i sottoccupati, i cassintegrati, gli esodati, non mettendo nel conto i disoccupati, che è un dramma che si svolge parallelamente nel teatro accanto, con un pubblico diverso e con altri attori. Posso fare soltanto l’esempio dei precari della scuola: più di trecentomila. Con un’età media che va oltre i quarant’anni. Si sono aggirati per decenni tra fasce di graduatorie di ogni tipo, tra master, perfezionamenti, Siss, Tfa, concorsi. Quando arrivano al contratto a tempo indeterminato – cioè all’assunzione in ruolo- sono sfiancati.
Il male di vivere della precarietà contrae il tessuto sociale, lo rattrappisce, lo lacera. Nella precarietà non c’è ricerca, sviluppo, progresso.
Non si può pensare a un Paese così. Non si può pensare che questo Paese possa restare nella precarietà per molto tempo ancora: nella paura di quello che sarà domani, di come sarà domani, nel malessere, nel malcontento, nella disperazione che viene dalla mancanza delle prospettive, dentro l’ombra grigia del disagio che si spande nello spazio dell’esistenza.
La precarietà allontana dagli altri, ma anche da se stessi. Provoca crisi di identità e quindi senso di inappartenenza, emarginazione, autoemarginazione, solitudine, isolamento, passività. Disuguaglianza. Rabbia e rassegnazione.
Allora c’è urgente bisogno di un grande progetto pensato e realizzato da tutte le componenti del sociale, ai diversi livelli, ciascuna con le proprie capacità e le proprie funzioni, con un’analisi accurata delle diverse situazioni, obiettivi definiti chiaramente e piani d’intervento rapidi, essenziali.
Si dirà che non è facile. Ma si sa che non è facile. La precarietà è diventata il più complesso e il più drammatico dei problemi, per cui deve assumere il ogni contesto politico, economico, culturale, una priorità assoluta. Basta semplicemente guardarsi intorno per capire che in questo modo non si può continuare. Si tratta del futuro di una nazione. Di questa nazione.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di lunedì 15 aprile 2013]
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Tutti eroi per salvarci
Al tempo che noi si andava in quinta elementare, allorché si avvicinò la fine di aprile, il maestro ci fece imparare a memoria alcuni versi di quell’umile e onesto poeta che fu Renzo Pezzani, che dicevano così: “Oh, sì, chi lavora è felice. /Lo dice il martello, lo dice la pialla, la vanga, la sega,/ ché, lavorando, si prega./ Chi non lavora è scontento/ ha l’animo torbido e cupo/e se lo guardi, spavento!/ Gli vedi due occhi da lupo”.
La poesia incorniciata in una pagina del libro di lettura corredata da un’immagine di uomini piegati alla mietitura, s’intitolava “ Il lavoro”.
Erano gli anni Sessanta, sul finire. Da un giorno all’altro la gente emigrava al Nord, a Milano, Torino, o all’estero, in Belgio, Svizzera, Germania, lasciava la terra secca e avara e se ne andava a cercare un lavoro perché i paesi, qui, non diventassero boschi affollati di uomini con occhi da lupo.
Adesso è ritornato lo spavento. Il lavoro che manca, il sentimento di disagio, la condizione di precarietà diffusa, l’incertezza del futuro, l’orizzonte oscurato dalla fuliggine delle crisi, rendono torbido e cupo questo tempo di secolo nuovo.
C’è un impegno che ogni civiltà deve assumere, con priorità, con urgenza; c’è una scommessa da lanciare e da vincere, necessariamente, che consiste nel garantire la stabilità del lavoro a tutti, ma forse soprattutto una prospettiva ai giovani, un’attribuzione di senso concreto al loro studio, alla loro coscienza di cittadinanza attiva e responsabile, di appartenenza ad un Paese. Senza di questo la civiltà è destinata alla decadenza. Senza la consapevolezza di una presenza significativa nei contesti del sociale, della propria funzione essenziale nei processi di sviluppo, si spalancano voragini di marginalità e di emarginazione, si aprono le porte all’indifferenza, all’antipolitica, al qualunquismo, all’apatia, all’egoismo. Si accende il fuoco delle tensioni, delle contrapposizioni. Si avvelena la stessa sostanza della democrazia.
La disoccupazione paralizza un Paese; quella dei giovani lo sbanda, lo disorienta; provoca il deragliamento dai suoi percorsi di progresso.
Quando si leggono i dati sulla disoccupazione giovanile, si sente una sorta di tremore nelle ossa. Poi ci si domanda quali siano le cause che ci hanno fatto precipitare in questa situazione, a chi spetterebbe dare una risposta, come mai per decenni non si sia stati capaci di trovare una soluzione.
Poi ci si dice anche che le domande sono inutili e inutili potrebbero essere perfino le risposte, che adesso è il tempo di buttarsi il brutto passato alle spalle per rifondare un presente proiettato verso il futuro diverso e migliore.
Il Primo Maggio non può essere soltanto la festa della speranza; dev’essere anche responsabilità per la realizzazione di un progetto di crescita.
L’elemento forse più drammatico della situazione attuale è quello della rinuncia alla ricerca di un lavoro. È la percezione d’impotenza che porta alla resa. L’avvilimento che corrode la personalità. La mancata realizzazione che provoca la depressione esistenziale.
Non è un caso – non può essere un caso – che l’incipit del più bel romanzo del Novecento italiano sia questo: “l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”. Allora mi domando se l’assenza di questo fondamento possa garantire l’esistenza di una repubblica democratica.
Se così non dovesse essere – e Dio e gli uomini non vogliano mai – quale sarebbe l’alternativa, se non il contrario di una repubblica democratica.
Si è sempre detto che il valore, e forse anche l’eroismo, degli italiani si manifesta nelle situazioni difficili.
Ecco, viviamo una stagione di difficoltà drammatica.
In questa situazione, chiunque, secondo le proprie possibilità, il proprio dovere, le proprie competenze, le proprie funzioni, secondo le proprie passioni e le proprie ragioni, secondo l’amore che prova per se stesso e per gli altri, deve dimostrare il valore che ha, l’eroismo di cui è capace.
Certo, ha ragione Brecht quando alla fine della tredicesima scena della
“Vita di Galileo”, fa dire al suo personaggio che è sventurata la terra che ha bisogno di eroi. Ma ora, qui, ci troviamo nella condizione di aver bisogno degli eroi. Purtroppo. Ci troviamo nella necessità di dover essere tutti eroi, nessuno escluso, ad ogni età, quale che sia il ruolo di ciascuno. Abbiamo il dovere di un eroismo collettivo, perché è importante – essenziale – che non salti sulla scena un eroe solitario. Degli eroi solitari abbiamo terribilmente paura.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di mercoledì 1 maggio 2013]
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Quel nesso tra libro, scuola e democrazia
A conclusione di un articolo su “Repubblica”, Gustavo Zagrebelsky sostiene che , a differenza di altri mezzi di cui si avvale oggi la cultura, il libro appartiene al mondo della durata, della formazione che si alimenta nel tempo. Dice: “il libro – saggio, romanzo, poesia; cartaceo o elettronico – nasce e vive in un tempo disteso, di studio e riflessione. Se sul bancone d’una libreria incontri L’uomo senza qualità o Moby Dick, innanzitutto è come se ti chiedessero: sai quanto tempo ho impiegato a essere pensato e scritto? E tu, quanto tempo e quanta concentrazione pensi di potermi dedicare?”.
Se fra il tempo e la formazione esiste una relazione intrinseca e strutturale, dunque, se nessuna formazione può essere possibile senza una profondità della conoscenza e senza una elaborazione concettuale dell’esperienza, e se un libro rappresenta proprio questa profondità, questa elaborazione, di conseguenza il libro rappresenta non uno degli strumenti ma lo strumento essenziale della formazione.
Che sia un libro di carta, che sia un e-book, probabilmente non importa o importa in modo relativo; quello che conta è che sia un libro.
Allora, se un libro serve alla formazione e la formazione serve alla consapevolezza della partecipazione e la partecipazione consapevole serve alla democrazia, si può considerare che ci sia un nesso tra il libro e la democrazia?
Se c’è questo nesso tra il libro e la democrazia, è giusto che una democrazia non solo difenda ma promuova il libro e quei luoghi dove vivono i libri, come le biblioteche pubbliche, le librerie, le case editrici?
Dovrebbe essere giusto.
Ma è la scuola il luogo nel quale più che in ogni altro si sviluppa e matura la formazione orientata alla partecipazione e alla democrazia, per cui è nella scuola che si deve difendere e promuovere il libro. In modo implicito ed esplicito, sostanziale, sistematico, costante, trasversale, con la dimostrazione che solo il libro consente la profondità e la stratificazione delle conoscenze, l’organizzazione delle esperienze in strutture cognitive e sistemi di pensiero. Non c’è un altro mezzo con il quale si possa realizzare un apprendimento consistente. Tutto il resto, ogni altro strumento, può servire da supporto, può contribuire allo svolgersi del processo, può essere necessario ma non indispensabile, se ne può anche fare a meno. Del libro non si può fare a meno. Se la storia ha un senso, allora essa dimostra esattamente questo.
Se si commettesse l’errore di assoggettarsi alla superficialità di cui è pervaso l’universo della comunicazione prodotta attraverso i mezzi dell’immediatezza che producono messaggi e informazioni privi di quella consistenza indispensabile all’apprendimento, si otterrebbe non solo un abbassamento del livello di conoscenza ma anche un appiattimento, una omologazione culturale che rappresenta la negazione del pensiero critico e quindi abbassa la tensione alla partecipazione, ridimensiona il contributo di ciascuno alla democrazia.
Certo non si tratta di rifiutare i mezzi diversi dal libro. Sarebbe quantomeno culturalmente limitante. Si tratta semplicemente di usarli nel tempo che servono e per quello che servono. Si sa che l’uso improprio di qualcosa non produce effetti o produce effetti negativi.
Però c’è una condizione che in questo tempo può decidere le sorti del libro nella scuola, con la consapevolezza che tutto quello che accade in un’aula di scuola poi si riverbera in ogni altro luogo del sociale: la loro scelta. I libri non sono tutti giusti. Si devono scegliere quelli giusti. I libri giusti sono quelli che attraggono, coinvolgono, consentono di ricercarsi, di rispecchiarsi, riconoscersi. Sono i libri che portano nei luoghi dove non si è mai stati e probabilmente non si sarà mai. Che fanno conoscere creature nella realtà mai conosciute e che non si conosceranno mai. Soprattutto sono quei pozzi di idee che rigenerano la memoria e disegnano scenari di futuro. Sono i libri che con il passare del tempo si caricano di significati e sensi ulteriori. Forse i libri così si chiamano classici.
La salvezza del libro nella scuola, la salvezza del libro in generale, è probabilmente rappresentata dai classici.
Però i classici occorre saperli insegnare. Bisogna saperli sbrigliare dal contesto che li ha generati per ricondurli e riconfigurarli nei contesti e tra i testi culturali delle generazioni che cambiano in continuazione.
Se è vero – ed è vero- che come diceva Calvino un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire, allora bisogna scavarci dentro per scoprire il non detto oppure per ripensare quello che è stato già detto in modo nuovo e diverso, aderente ad un nuovo e diverso lettore, alla sua fisionomia esistenziale e culturale, alla sua identità e alla sua visione del mondo e dell’uomo, di sé e dell’altro da sé, della Storia, del progresso, della civiltà.
Forse è questa pluralità, questo costante riprodursi delle idee, il nodo che stringe il libro in genere e i classici in particolare alla democrazia. Non è un caso che ogni dittatura abbia messo all’indice alcuni classici e abbia cercato di addomesticarne altri, imponendone un’interpretazione conformata e assorbita nel proprio sistema di propaganda. Non è neppure un caso che per questa operazione si sia servita soprattutto della scuola, in considerazione del fatto che è in quel luogo che il pensiero assume una configurazione.
Se una democrazia deve essere e fare l’esatto contrario di quello che è e di quello che fa una dittatura, allora deve nutrire le sue generazioni di libere, rinnovate, creative interpretazioni dei classici.
La pluralità delle idee che essi proiettano orienta il pensiero al confronto, all’analisi critica dei fatti e dei fenomeni e quindi tiene in qualche modo al riparo dall’adesione incondizionata a mode e modelli di massa, dalla persuasione più o meno occulta, dal consenso ottuso, dai falsi bisogni, dalle false certezze, dai miti effimeri, dagli slogan coniati dall’opinione comune, dall’ottimismo incosciente, dall’indottrinamento che offende la dignità di una persona e di un popolo.
Poi, c’è una sostanza vitale, un sangue pulito, che scorre tanto in un classico quanto in un democrazia, ed è la bellezza delle loro espressioni, l’estetica e l’etica che manifestano.
Insegnare questa bellezza viene prima di qualsiasi altra cosa.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di lunedì 6 maggio 2013]
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Aiutare i giovani a riconoscere le sirene digitali
Per la prima volta nella storia della civiltà, gli adulti si trovano nella condizione di non poter insegnare ai giovani l’uso degli strumenti con i quali si accede al sapere.
Per secoli gli strumenti si sono tramandati di generazione in generazione; pur se con varianti dovute all’evoluzione, sia la struttura che le modalità d’uso rimanevano piuttosto identici.
Poi, dalla generazione Gutemberg è nata la generazione digitale e da quel punto in avanti si è scardinata la relazione di insegnamento, perché la generazione digitale si è appropriata dei metodi di acquisizione delle conoscenze attraverso i nuovi strumenti.
Non c’è assolutamente nulla di male in questo. Anzi, si tratta di una condizione che ha un fascino straordinario, che finalmente scardina il processo di trasmissione fondato su pratiche e linguaggi consueti. I nativi digitali riescono a fare molte cose contemporaneamente: navigano in rete, ascoltano musica, leggono, mandano messaggi, guardano la tv e fanno zapping. Con rapidità incredibile si aggirano tra forum, blog, social network. Per loro le forme di comunicazione sono complementari, coesistono, si sovrappongono. Mettono insieme vecchi e nuovi media, li integrano, li fanno interagire.
Finalmente si verifica una condizione di autoapprendimento che come si sa è l’apprendimento più efficace, quello che consente di portarsi verso le conoscenze nei modi più coerenti con la personalità e più aderenti alle necessità di formazione.
Pochi fenomeni hanno la stessa bellezza di quello che rappresenta un bambino che da sé fa un’esperienza di conoscenza usando strumenti che governa quasi per un dono di natura.
Così sembra che il sapere di genitori e maestri non abbia più funzione, che sia destinato a consumarsi senza riprodursi, che le loro esperienze si debbano esaurire senza tramandarsi.
Potrebbe anche accadere: accadrebbe nel caso in cui i genitori, i maestri, adottassero i metodi e gli strumenti che non appartengono alla loro formazione, nei confronti dei quali si ritroverebbero inevitabilmente inadeguati o comunque meno competenti rispetto alle competenze che hanno le generazioni digitali.
Sarebbe un errore storico, oltre che pedagogico. Da sempre, gli adulti insegnano quello che i giovani e i ragazzi non sanno, in termini di conoscenze, di metodi, di esperienze. Nella dimensione formativa di questo tempo c’è una condizione che le generazioni digitali non hanno. A loro mancano le forme del sapere. Mai nessuno ha avuto la quantità di informazioni che adesso hanno i giovani, i ragazzi. Mai nessuno ha avuto la possibilità di avere quelle informazioni con una rapidità sbalordente. Mai nessuno ha avuto tanti strumenti e occasioni e possibilità di cercarsele oppure di riceverle senza neppure cercarle. Però non sanno metterle insieme, selezionarle, connetterle, sistematizzarle, contestualizzarle. Non sanno organizzarle in una forma.
Non lo sanno semplicemente perché i mezzi che usano non sono fatti per questo.
Allora gli adulti possono insegnare a costruire forme di sapere, ad intrecciare i fili che provengono da gomitoli diversi, a condurre le informazioni nei loro contesti, a verificarle, a valutarle. Perché un’informazione priva di contesto, di cui non si conosce la consistenza e la fonte, può essere falsa ed un’informazione falsa può essere pericolosa, può plagiare, può ridurre o azzerare la capacità di reazione psicologica, critica, culturale.
Insegnare ad attribuire una forma, a ricostruire i contesti, consente di verificare quale fra di esse risulta fuori posto, non si connette alle altre. In particolare permette di riscontrare se e quanto sia aderente alla propria personalità o semplicemente a quello che si intende cercare e comprendere.
L’eccesso di informazione disorganica è, probabilmente, la condizione più pericolosa in cui possono ritrovarsi le generazioni digitali. In fondo l’età è quella in cui alquanto facilmente si diventa preda di sirene d’ogni sorta, dei loro canti che provengono dalle cosiddette nuove tendenze. Ne esistono in ogni settore: nella politica, nella moda, nelle credenze, nell’economia, nel sistema delle relazioni, e attirano “colui che ignaro s’accosta”, come dice Circe a Ulisse.
Solo il non essere ignaro, dunque, solo l’aver acquisito la competenza a dare una forma all’informe può salvare dal fascino malefico del loro canto.
Allora gli adulti devono insegnare a configurare forme di sapere consapevole e critico in modo che i giovani possano evitare le innumerevoli isole delle sirene disseminate e occultate nello sterminato oceano virtuale.
Saper riconoscere le isole avvelenate ed essere in grado di non subire l’incantamento delle sirene, in questo tempo diventa essenziale forse più che in qualsiasi altro tempo. Perché il loro numero cresce in modo incontrollato, le loro voci si moltiplicano in continuazione, si spandono a dismisura, diventano sempre meno identificabili, sempre più incontrollabili.
Probabilmente non è un caso che Omero non le abbia descritte fisicamente. Probabilmente intuiva che le loro sembianze si sarebbero trasformate in base al tempo, alle intelligenze degli uomini, alle loro esperienze di conoscenza, alle ambizioni, ai desideri. Aveva intuito anche che a un certo punto, in una certa epoca, una volta che fosse stato completamente svelato l’inganno mortale del loro canto, avrebbero trovato un altro richiamo. E’ stato Kafka a intuire che l’ altro richiamo delle sirene, ancora più terribile del canto, fosse il loro silenzio .
Quello che occorre insegnare e il modo in cui lo si insegna sono definiti dalla cultura del tempo presente considerato in relazione tanto alle espressioni del passato quanto alle prospettive del futuro.
L’insegnamento non può essere mai indifferente. Quando è indifferente è anche sterile.
Ora è il tempo in cui agli adulti è assegnato il compito di insegnare a chi adulto non è in che modo salvarsi dalla malia del canto o del silenzio delle sirene virtuali. Per farlo non hanno altro che quei vecchi strumenti che sono le discipline: la filosofia, la storia, la fisica, la biologia, la chimica, il diritto, e quell’altra strana cosa che si chiama letteratura. Sono ancora questi vecchi strumenti che possono delineare forme, elaborare categorie con le quali orientarsi evitando la deriva o il naufragio nell’indefinito dell’informazione.
[“Nuovo quotidiano di Puglia” di martedì 21 maggio 2013]
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La scoperta della deprivazione
Talvolta la realtà riprende dai dizionari parole che si pensava fossero diventate degli arcaismi e che invece si ripresentano con drammatica attualità e si incidono sulla pelle delle persone. La parola “deprivazione”, per esempio.
La famiglia deprivata, il bambino deprivato, la condizione deprivata; ci si illudeva che fossero espressioni che gli anni Sessanta avevano cancellato dal linguaggio corrente, che appartenessero ad un passato al quale eravamo riusciti a voltare definitivamente le spalle.
Invece l’Istat riprende questo termine, rappresentando con esso una situazione che coinvolge circa il 25% della popolazione italiana; ma al Sud la percentuale sale al 40%, come una febbre. Che il Sud debba sempre pagare tutto a prezzo più caro è una maledizione della Storia.
Deprivati. Sono quelli che non possono sostenere spese impreviste, che devono fare i calcoli al centesimo, che hanno il mutuo in arretrato, affitti e bollette non pagate alla scadenza, che non si possono permettere un pasto adeguato ogni due giorni, non possono riscaldare casa, non hanno la possibilità di mantenere gli studi dei figli, non si possono permettere di avere un’auto, di fare una settimana di ferie in un anno. Niente pizzeria al sabato. Niente cinema la domenica.
Deprivazione è una di quelle parole che fanno una grande paura, che significano che si sta tornando indietro – che si è tornati indietro- , che i colori dell’affresco sociale si fanno sempre più scuri.
Deprivazione è una di quelle parole che dicono una lacerazione del tessuto sociale, uno spappolamento della coesione, un disagio, un malessere, un malcontento, che significano amarezza, depressione, sconforto.
Appartengono al lessico dell’arretratezza, dell’involuzione, della marginalità. Impediscono di considerarsi ad un dignitoso livello di civiltà.
Così, e non all’improvviso, anno dopo anno, ci siamo ritrovati nelle nostre giornate la parola deprivazione. Cioè mancanza di quello che è necessario. Non il superfluo, il sovrabbondante, l’eccedente. Ma il necessario. La situazione è ad un punto tale, dice l’Istat, che in due anni, tra il 2011 e il 2012, le famiglie italiane hanno ridotto la quantità e la qualità dei prodotti alimentari acquistati.
La crisi economica che ci sta accerchiando, certo non è la prima e purtroppo non sarà l’ultima. Però, probabilmente, è quella che sta contagiando e sconcertando quelle generazioni che di crisi non hanno mai avuto esperienza: abituate al benessere, molto spesso reale, qualche volta apparente, cresciute senza difficoltà, senza troppi ostacoli, sotto la grande luminaria che per tre decenni è stata come il simbolo di una continua festa, con il mito del denaro facile, del tutto sempre pronto, lì, a portata di mano, che un po’ era vero e un po’ era una favola, ora, quelle generazioni, si ritrovano a doversi confrontare con parole sconosciute, come appunto la deprivazione. Mentre economisti e sociologi e politici, spiegano, indubbiamente, quali sono state le cause che hanno portato a questa situazione ma non sono in grado di dire quali saranno i rimedi. Perché l’altro elemento di novità della crisi in cui stiamo annaspando è proprio questo: c’è stato sempre qualcuno dagli anni Sessanta in poi che ha spiegato quali erano le soluzioni dei problemi, anche se spesso quelle soluzioni rimanevano pura teoria, esercizio d’ accademia.
Adesso nessuno sa più spiegare niente. Adesso si formulano ipotesi neanche molto definite; si fanno previsioni a brevissimo termine; si procede nel buio a tentoni sbattendo la faccia contro porte chiuse. Così la gente comune non capisce che cosa potrà accadere, domani, domani l’altro. E’ tutto molto incerto, traballante, non c’è nessun riferimento sicuro, nessun punto fermo. Non si sa come sanare la piaga della disoccupazione giovanile, quell’altra del precariato, quell’altra ancora delle imprese che chiudono, delle botteghe artigiane che una sera abbassano la saracinesca e non la rialzano più, quell’altra dei pensionati che non arrivano neanche a metà mese, quella di altri ancora che il mese non lo cominciano nemmeno. Sono tanti i problemi che non si sa come affrontare. Sono troppi.
Allora le statistiche, le indagini, le rilevazioni, recuperano termini spettrali come povertà, indigenza, deprivazione.
Dicono: i poveri in Italia sono 4 milioni e anche di più.
Dice Giorgio Squinzi, presidente di Confindustria: siamo sull’orlo di un baratro economico.
Ma come. Non eravamo – non siamo- una potenza mondiale?
Probabilmente, a questo punto, c’è bisogno di pensieri diversi, di azioni nuove e convergenti verso obiettivi precisi, concreti; ma c’è anche bisogno di un coraggio antico: come quello che abbiamo avuto dopo la fine della seconda guerra mondiale, per esempio.
Abbiamo bisogno di un progetto di sviluppo che sia, ad un tempo, complessivo e analitico, che affronti i problemi particolari di ciascun settore ma all’interno di una processo coerente e coeso che eviti lo smottamento dell’orlo e il precipitare sul fondo dell’abisso.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di domenica 2 giugno 2013]
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Un passaggio per il futuro
A volte ritornano nei ricordi o nei sogni con una sensazione di leggerezza, di sollievo, o come paura che si rinnova, inconsciamente. E’ una di quelle esperienze che attraversano gli anni, che hanno una connotazione di emotività così forte da risultare determinanti nella configurazione della personalità.
Gli esami di maturità – che ufficialmente si chiamano esami di Stato – rappresentano ancora la linea d’ombra del passaggio dall’adolescenza innocentemente imprudente alla responsabilità di un’altra età. Forse per la prima volta, nei giorni, nei mesi che precedono l’esame, si avverte la tensione provocata dall’attesa di qualcosa che traccerà le strade da percorrere nella vita. Per la prima volta ci si confronta con decisioni da prendere con riflessione, con cognizione. Davanti a questo esame tutte le generazioni si rassomigliano: sono uguali le ansie, le speranze, i tremori. Sono uguali perfino le imprecazioni. Poche situazioni hanno l’umana bellezza che ha il ritrovarsi in una classe quinta la mattina in cui si ha notizia delle commissioni. Allora negli sguardi si condensa tutta l’espressione dell’incertezza, dell’incognita. I nomi dei commissari esterni galleggiano nel vuoto come fantasmi inquietanti. La ricerca di informazioni viene dopo. Quella mattina esiste soltanto quel vuoto che non si riempie con nessuna rassicurazione: non serve a niente cercare di convincere che in fondo si tratta di esseri umani non dissimili da tutti gli altri conosciuti finora. Nella fantasia dei ragazzi i commissari esterni hanno fisionomie deformi, provengono da un universo alieno, dalle profondità di gironi danteschi.
Poi gli esami arrivano, e passano, e induriscono le ossa. Diventano il lasciapassare per altri esami: per tutti quelli che si faranno nella vita. Poi ci si dirà: se ho fatto quelli posso fare questi altri; se sono andato oltre quella frontiera posso oltrepassare molte altre frontiere: esami all’università, concorsi, colloqui di lavoro. Forse per la prima volta si studia fino alle soglie dell’alba, cercando di macinare programmi, di tessere la famosa tesina.
Quest’anno si comincia il 19, mercoledì. Ma gli interrogativi, le ipotesi, le congetture fantasiose sugli argomenti delle tracce sono cominciati da tempo. Inutilmente. Perché quasi sempre viene fuori qualcosa di non previsto e se pure è stato previsto si presenta con una formula che non corrisponde a quella che si era immaginata. Non bisogna impaurirsi per questo. Non c’è un argomento che non si conosce, semplicemente perché non c’è un argomento sul quale non si abbia un proprio pensiero. La cosa che conta è questa, in fondo: avere un proprio pensiero capace di generarne altri, organizzarli, metterli in relazione alle proprie conoscenze, rintracciare i nessi, definire contesti, leggere i testi. I testi non sono cose astratte: sono corpi vivi, ti vengono incontro e chiedono che gli si vada incontro. Così, attraverso l’incontro tra chi fa l’esame e il testo, si elabora la prova. Basta un incontro di sensibilità, di esperienze diverse, un contemperarsi di conoscenze.
(Ho letto da qualche parte che un marchingegno chiamato maturapp è in grado di fornire in tempo reale le soluzioni alla prima e alla seconda prova. Non serve. E’ soltanto un modo per strozzare il fascino degli esami. Però sono convinto che i ragazzi non lo useranno. Sono troppo intelligenti e troppo seri per farlo.)
Poi. Che per l’esame di Stato si riveli indispensabile procedere alla revisione della struttura, è una considerazione ampiamente diffusa. Per renderlo coerente alle Indicazioni Nazionali per i licei e alle Linee Guida per i tecnici e i professionali, per adottare nuovi criteri di valutazione e modalità di certificazione delle competenze orientate tanto al proseguimento degli studi quanto all’accesso al mondo del lavoro. Bisogna superare la valutazione attraverso il voto, sostituendola – o quantomeno integrandola – con una sostanziale certificazione di quello che lo studente sa e sa fare. Oltretutto, sarebbe anche un modo per evitare le annuali e ormai fastidiose polemiche sulla differenza dei risultati tra Nord e Sud. Ma non è certo questa la ragione fondamentale; anzi, questa è del tutto marginale, rientra nella sfera delle pregiudiziali. E’ essenziale, invece, riuscire a delineare nel modo più oggettivo che si possa trovare il profilo formativo di ogni studente, la qualità e la consistenza dei suoi apprendimenti, perché sono questi gli elementi che gli serviranno il giorno dopo che ha finito l’esame.
Allora, in questo tempo forse più che per il passato, diventa indispensabile individuare criteri di valutazione e formule di certificazione funzionali allo studio o al lavoro che i ragazzi intraprenderanno; occorre che l’esame si costituisca come un ponte verso l’università o verso un mestiere, che il titolo di studio assuma un valore concreto.
Non è escluso, peraltro, che un sistema del genere possa diventare un ulteriore elemento di motivazione che, come si sa, rappresenta la radice di ogni atto di apprendimento e di ogni impegno per qualsiasi cosa si faccia.
Sarebbe sbagliato e fuorviante pensare che gli studenti siano lontani da questi interessi.
Loro hanno lucida consapevolezza dell’importanza che ha questo passaggio della loro esistenza.
Sanno perfettamente che questo esame rappresenta una conclusione e un inizio allo stesso tempo. Quello che non sanno – che non possono sapere – è che da questo esame in poi i giorni passeranno più in fretta, che avranno nostalgia di questi anni e anche dell’ansia che adesso li accerchia. Quello che non sanno, che non possono sapere, è che la maturità si paga con un prezzo forse un po’ più alto di quello con cui si fa pagare l’adolescenza. Ci saranno occasioni in cui non si potranno trovare giustificazioni per non aver studiato, per non aver fatto tutto quello che era possibile fare, per non affrontare un’interrogazione, perché sarà soltanto la propria coscienza a giudicare.
Ma si cresce così: esame dopo esame. Se in qualche modo può servire da conforto, possono provare a pensare che non sono i primi e non saranno gli ultimi a confrontarsi con quello di maturità. Possono, volendo, anche ripensare a quel verso di Virgilio in cui Enea dice: forsan et haec olim meminisse iuvabit .
Forse un giorno ci farà piacere ricordare anche queste cose. Non c’è bisogno di conoscere il latino per capire il suo significato.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di lunedì 10 giugno 2013]
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L’esercizio di interpretare
S’inizia con un viaggio: nel tempo, nello spazio, soprattutto in interiore. S’inizia con un viaggio e s’incontrano frontiere d’ogni sorta, talvolta invisibili, che occorre valicare, per andare oltre, per predisporsi ad altri incontri di esistenze, di storie, di passioni.
Il viaggio come confronto con la Storia. Il viaggio come nostos nell’infanzia: nel punto in cui ha avuto origine la visione del mondo di ciascuno, si è profilata l’identità, si è cominciata a tessere la relazione con l’altro, con gli altri, sono fiorite le passioni che hanno conformato l’esistenza. Nel punto del’infanzia in cui si è avvertito lo stupore delle prime felicità e i primi dolori hanno dato punture al cuore.
S’inizia con L’infinito viaggiatore di Claudio Magris. La bellezza di un’avventura che coinvolge riflessioni sull’idea del viaggio – del continuo, incessante andare -, sul concetto di frontiera che richiama interpretazioni di espressioni come: benevolenza per se stessi, piacere del mondo. Perché il mondo esiste per essere conosciuto attraverso l’esperienza concreta o attraverso l’immaginazione. Indifferentemente. Il viaggio come transito da una riva ad un’altra. Reale o metaforica.
Forse la conoscenza non è altro che questo: un costante passaggio dal noto verso l’ignoto, una costante sfida delle Colonne d’Ercole che ci circondano, che s’innalzano a volte incombenti e misteriose intorno alle nostre culture, alle nostre convinzioni, intorno ai luoghi che abitiamo e che ci accade di scoprire e riscoprire, istante dopo istante.
Scriveva Claudio Magris, proprio nell’introduzione all’Infinito viaggiatore, che fin dall’Odissea, viaggio e letteratura appaiono strettamente legati; un’analoga esplorazione, decostruzione e ricognizione del mondo e dell’io.
Diceva, ancora, che il viaggio sempre ricomincia, ha sempre da ricominciare, come l’esistenza.
Poi l’ambito artistico- letterario che pone la problematica del rapporto tra individuo e società di massa, con testi di Pasolini, Elias Canetti, Remo Bodei, Eugenio Montale.
Pasolini – un intellettuale del quale a questo Paese, oggi, mancano le incursioni corsare – fu profeta facile, in fondo. Con la visionarietà di ogni grande poeta, con lo sguardo che perfora la confusione nebbiosa del presente, vide, negli anni Settanta, quello che sarebbe accaduto negli anni a venire. Lucidamente. Nitidamente. Vide l’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza, la cancellazione di ogni diversità culturale, di ogni autonomia e originalità di pensiero, l’asservimento dell’uomo al consumo, l’edonismo neolaico che rinnega o dimentica ogni valore umanistico.
Il passo proposto è una sintesi essenziale dell’ideologia e delle battaglie pasoliniane in difesa di una civiltà autentica, semanticamente, umanamente pregnante.
Remo Bodei rileva il rischio della creazione di uomini e donne di allevamento, dell’anestetizzazione e della banalizzazione dell’esperienza, dell’inflazione dei desideri, delle inevitabili frustrazioni prodotte dalla promiscuità informe, dall’indistinto esistenziale.
( Alle dieci la calura già galleggia nei corridoi. Ma anche il caldo fa parte del rituale dell’esame).
Stato, mercato e democrazia è l’argomento dell’ambito socio-economico con documenti tutti datati 2012 e centrati sulle problematiche relative al nesso – al nodo – tra la buona politica e la buona economia; alla sofferenza che sta causando l’attuale depressione, che comporta anche la distruzione di vite umane; all’effetto corrosivo della disoccupazione di lungo termine e della situazione di neolaureati costretti ad accettare lavori che non richiedono le competenze che hanno maturato studiando con responsabilità, con sacrificio.
Attualità. Bruciante.
Poi l’ambito storico- politico con l’argomento sugli omicidi politici: quelli dell’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono asburgico, di Giacomo Matteotti, di Kennedy a Dallas, di Aldo Moro.
Alcuni degli esempi di come la Storia sia attraversata da un fiume di sangue che scorre a volte sotterraneo, a volte in superficie.
L’argomento di carattere tecnico- scientifico mette a fuoco la reciprocità della formazione, delle idee, dello sviluppo, del progresso, della civiltà.
Il tema di argomento storico con molta probabilità avrà avuto pochissime, eccezionali, adesioni. Chiede di illustrare la vicenda politica nel corso del ventesimo secolo di due Paesi fra Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica ( Brics).
Neanche quello di ordine generale consente un agevole varco di elaborazione perché implica una trama di riferimenti coerenti e coesi di natura scientifica e storica.
In definitiva, tutte le tracce non richiedevano solo conoscenze: consentivano la possibilità di espressione di un’interpretazione individuale, di una sensibilità nella lettura dei fatti e dei fenomeni. Com’è giusto che sia. D’altra parte, una maturità non può che esprimersi in modo personale.
In bocca al lupo per la prova di oggi, ragazzi.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di giovedì 20 giugno 2013]
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Più fiducia nelle idee dei giovani
Ogni uomo avverte il bisogno profondo di provare fiducia nei confronti di chi gli sta intorno, di quello che gli accade intorno, di chi in qualche modo decide il suo destino e quello del suo Paese, di chi può rassicurarlo sul tempo che verrà, sulle cose che saranno.
C’è stato un tempo in cui gli italiani avevano fiducia. Per i due decenni, forse anche di più, che seguirono l’ultima guerra, gli uomini, le donne di questo Paese hanno avuto fiducia. Non erano tempi facili ma all’orizzonte si componevano scenari di possibilità: si pensava a ricostruire, si intravedevano prospettive, si confidava nell’impegno di tutti e di ciascuno. Si crescevano speranze anche se costavano sacrifici. L’emigrazione è stata anche un sacrificio motivato dalla speranza. Si pensava che gli studi dei figli rappresentassero un investimento; si confidava nel fatto che le generazioni che arrivavano avrebbero avuto il benessere che non avevano avuto quelle che stavano passando.
Si avvertiva fiducia verso il futuro.
La condizione che in questo tempo fa più spavento è lo sgretolamento di quella fiducia. Non ha fiducia chi è giovane. Non ne ha chi non lo è più. Si è creata una condizione di disorientamento; spesso non si comprende il senso dei fenomeni, dei fatti che accadono, le turbolenze improvvise, le incoerenze, le instabilità.
E’ la mancanza di fiducia che provoca la depressione, lo scoraggiamento, la paura di osare, di investire. Lo smottamento generale della sviluppo paralizza ogni ragione e passione d’intraprendere percorsi nuovi o di potenziare quelli conosciuti.
La disoccupazione provoca l’avvilimento, il crollo dell’autostima e quindi la mancanza di fiducia in se stessi, nelle proprie capacità e possibilità, la percezione dell’inutilità dell’impegno nello studio, della ricerca di un lavoro.
Così aumenta il numero di chi rinuncia a studiare e a cercare lavoro. Non per indolenza, nemmeno per delusione. Si rinuncia per sfiducia, e non c’è nessuno che abbia possibilità di rigenerare la fiducia, di trasmetterla, di contagiarla. Perché gli adulti non hanno esperienza del generare fiducia. Chi è adulto in questo tempo è cresciuto, generalmente, in un contesto personale e sociale di benessere. Si è trovato in una condizione creata dalla fiducia che avevano i padri. Ora non sa come comportarsi. Non sa dire cosa e come si fa quando è il tempo di ricominciare. Non è una colpa. Non si può chiedere a nessuno di fare qualcosa che non è stato educato a fare.
Solitamente è così. Ma quando le situazioni sono insolite, allora occorre affrontarle con modi nuovi, insoliti. La situazione che vive l’Italia – che vive l’Europa – è insolita. Allora, insolitamente, gli adulti devono fare quello che nessuno gli ha insegnato. Devono trasmettere, contagiare fiducia, e devono imparare a farlo da soli.
Ma non si può insegnare qualcosa a qualcuno senza credere in quello che si insegna. Meno che mai si può insegnare un valore che riguarda l’esistenza.
La fiducia è un valore dell’esistenza. E’ possibile insegnarla soltanto credendoci e adottando l’unico metodo con cui si può insegnare un valore: l’esempio. Si può insegnare soltanto partecipando con passione al progetto di esistenza che i giovani devono elaborare e realizzare, condividendo le loro preoccupazioni, le disillusioni, ma usando la condivisione come strumento di trasformazione della condizione negativa in condizione positiva, del disagio in determinazione, del pessimismo in perseveranza.
Per avere fiducia non ci si deve sentire soli. La solitudine è il contesto in cui si genera e si sviluppa la depressione. Per avere fiducia è indispensabile sentire una significativa presenza dell’altro, sapere che l’altro ha gli stessi interessi, gli stessi obiettivi.
Probabilmente oggi questa presenza e questa condivisione di interessi non si sente. I giovani vivono in una individualità senza contatto. Sono scomparse le forme di aggregazione o, se esistono, sono episodiche, non organizzate, non strutturate e di conseguenza non possono costituirsi come situazioni che sviluppano un progetto che per la sua complessità deve necessariamente essere sistematico.
Allora, la prima cosa che gli adulti devono insegnare è la costruzione di forme di aggregazioni sociale. A cominciare dalla scuola e dall’università, che sono i luoghi nei quali, in modo più naturale, si possono configurare aggregazioni intorno alle idee. Perché è essenziale che esistano le idee. La Storia dimostra che quando esistono le idee poi si trovano anche i modi per portarle avanti, per concretizzarle. In questo senso, i luoghi in cui si fa formazione sono quelli che meglio di ogni altro possono realizzare aggregazioni in modo sistematico e costante.
Si potrebbe anche dire che, di fatto, tutto questo già accade. Allora quello che bisogna costruire è un ponte attraverso il quale le idee elaborate all’interno delle scuole e delle università possano transitare nei diversi contesti del sociale.
C’è bisogno che i giovani abbiano una fiducia sulla effettiva valorizzazione delle idee che elaborano per lo sviluppo di questo Paese.
D’altra parte, quando si devono trovare le soluzioni ad un problema, è giusto, è democratico che innanzitutto si valutino le proposte che vengono da parte di coloro che da quel problema sono coinvolti.
Allora, se si vuole insegnare ai giovani ad avere fiducia si deve prima di ogni altra cosa dimostrare loro che quello che dicono, quello che fanno, viene considerato come un valore.
Né possiamo più riferirci all’esperienza come condizione che ci autorizza ad agire senza confronto, perché l’esperienza di questi anni è stata, per molti aspetti, una somma di errori.
Forse questo è un tempo che ci chiede di riporre meno fiducia nell’esperienza e più fiducia nella passione.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di venerdì 28 giugno 2013]
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Ragazzi, sognate per scegliere la facoltà
Ci sono età in cui i sogni contano più dei ragionamenti: i sogni considerati come desideri profondi, come aspirazioni, passioni.
A vent’anni – o poco giù o poco su di lì – i sogni contano di più: quelle figurazioni che si fanno del proprio futuro, quella tensione che si avverte verso qualcosa, il credere in se stessi senza condizionamenti, con la forza e la purezza che si hanno solo a quell’età, contano di più.
A volte può anche accadere che si combini la fortuna della coincidenza di sogni e di ragionamenti, ma quando non accade dovrebbero essere i sogni a tracciare la direzione, probabilmente.
Poi, certo, tutto o comunque molto dipende dalla personalità di ciascuno; tutto o comunque molto dipende dalla determinazione, dalla convinzione delle scelte. Come nel caso degli studi universitari da intraprendere dopo la scuola superiore.
Adesso è il tempo delle scelte. Finiti gli esami di maturità ci si ritrova a confrontarsi con le intenzioni, con gli interessi. Con i dubbi: che di anno in anno si fanno sempre più forti. Con le previsioni sul concreto valore di una laurea che si fanno sempre più incerte. Con gli scenari del lavoro che cambiano continuamente.
Scegliere l’università adesso è indubbiamente più difficile rispetto a trent’anni fa, a venti. Non si sa quali saranno effettivamente le richieste del mercato del lavoro nei prossimi tempi. Certo, ci sono quelli che ritengono che alcuni settori richiederanno maggiori risorse, maggiori investimenti, ma l’orientamento di massa verso questi settori potrà determinarne l’intasamento. Ci sono quelli che prevedono stravolgimenti, altri che prevedono assestamenti, nuovi equilibri. Ci sono quelli che dicono che la crisi si riassorbirà a breve, altri a lungo termine. Ma da qualche tempo a questa parte le previsioni molto spesso si sono rivelate completamente sbagliate. Intanto le immatricolazioni diminuiscono e gli abbandoni aumentano. Anche le tasse aumentano, intanto.
Una delle cause che incidono significativamente sul calo delle immatricolazioni consiste proprio nell’incertezza che riguarda le prospettive di lavoro dopo la laurea.
Una delle cause degli abbandoni è l’inadeguatezza della scelta rispetto agli interessi personali.
Sempre più spesso si sentono giovani che dicono che vorrebbero studiare questo ma siccome non dà prospettive di lavoro allora studieranno quello. Ma questo e quello comportano sacrifici. Per qualcosa che si sente come propria i sacrifici si fanno, per quello che non si sente appartenente si rinuncia alla prima difficoltà.
Allora forse non si dovrebbe ragionare considerando che cosa sia più conveniente ma che cosa sia confacente, aderente al proprio modo di pensare, di essere.
Sarebbe probabilmente un errore ritenere che studiare questo o quello sia indifferente. Quando si studia veramente lo si fa coinvolgendo ogni componente di sé. Se è vero che si studia per il futuro è anche vero che attraverso il presente si studia con tutto il proprio passato: con le conoscenze, le competenze, i metodi che si sono acquisiti fino a quel momento. Tutte le esperienze maturate si presentano e agiscono positivamente o negativamente sulla qualità degli apprendimenti.
Allora la scelta dell’università non può essere casuale ma nemmeno fondata esclusivamente sul calcolo delle probabilità.
Conviene molto di più ricordare quello che diceva Derek Bok, che per più di vent’anni è stato presidente dell’università di Harvard. Diceva: cari ragazzi, non chiedeteci quali saranno le professioni del futuro, perché non lo sappiamo. Chiedeteci cultura, cultura, cultura. E a chi vi dice che la cultura costa molto, ditegli di provare quanto costa l’ignoranza.
Forse la modalità più opportuna è quella di disegnare con l’immaginazione la propria presenza sulla scena del domani. Spostarsi negli anni. Domandarsi quanto si è disposti a fare un lavoro che non si sente e quanto si è disposti a fare sacrifici per un lavoro che rientra nel proprio progetto di vita. Perché il lavoro è una delle cose più importanti della vita. Non si può fare una cosa pensando ogni giorno che se ne vorrebbe fare un’altra. Bisogna sentirsi attratto dal lavoro ogni mattina. Non provare invidia per il lavoro degli altri, di nessun altro, e poter pensare, dopo quarant’anni, che si è fatto quello che si sognava di fare da bambino. Anche se si è guadagnato un po’ di meno.
Ecco, dunque, che ritornano i sogni. I sogni esistono per essere realizzati. Non si può – non si deve – rinunciare; soprattutto non si può, non si deve, a vent’anni. Poi verranno altre età che costringeranno a rinunciare ai sogni.
Certo, questo è un tempo in cui è diventato difficile sognare. Per tutti, in generale, e per i giovani in particolare. Ma se un Paese si priva dei sogni dei giovani diventa un deserto.
Allora bisogna scegliere l’università facendo in modo di combinare prospettive e sentimenti. Ascoltando i consigli, certo, ma selezionando, perché non è detto che tutti i consigli siano buoni e meno che mai che siano saggi. Ce ne sono alcuni che si fondano su logiche vecchie, su visioni superate. Ma soprattutto è fondamentale, indispensabile, diffidare degli indovini: di quelli che sanno già come andranno i fatti, che cosa accadrà. Troppe volte i loro vaticini si sono rivelati soltanto sterili esercizi d’accademia. D’altra parte, non sempre la strada più dritta risulta la migliore, e poi uno la strada da fare deve sceglierla da solo, con la propria testa e anche con il proprio cuore.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di domenica 7 luglio 2013]
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Quegli eroi che chiamiamo anziani
Vivono con 1000 euro al mese. A volte con 500. A volte con meno. Pagano le bollette della luce, del gas, dell’acqua, del telefono, l’Imu, la Tarsu. Pagano anche il canone della Rai. Pagano tutto quello che c’è da pagare. Fanno la fila, in silenzio, e pagano. Eppure riescono a infilare venti euro nella tasca del nipote che studia o che non studia più e non lavora. Spesso cinquanta in quella del figlio disoccupato o in cassa integrazione, o che non ce la fa a tirare avanti. Riescono perfino a mettere qualcosa da parte, per la bisogna che può venire all’improvviso. Risparmiano su tutto, fino all’incredibile. Sono abituati, in fondo. Hanno sempre risparmiato. Con una dignità che per loro è un onore e per gli altri una vergogna senza misura. Ascoltano in tv, leggono sui giornali di quelli che prendono pensioni da strabilio, una, due, tre pensioni, anche se qualcuno in realtà non ha mai lavorato nei modi in cui davvero si lavora. Loro invece sì, hanno lavorato come comandò Dio. Guadagnandosi il pane col sudore della fronte. Quarant’anni almeno. Tutti i giorni. Per poi ritrovarsi su quella che si chiama la soglia della povertà. Oltre quella soglia che cosa c’è, si chiedono. Oltre quella soglia che cosa riserva il destino. Oltre quella soglia in quale baratro si precipita. Sperano di non doversi affidare a una badante, a una casa di riposo; sperano di riuscire a reggersi in piedi oppure di chiudere in breve tempo il conto. Per non dare fastidio, dicono. Per non pesare su nessuno. Perché il loro assillo è quello di dover pesare su qualcuno.
I pensionati sono la rappresentazione vivente di un’ingiustizia sociale: probabilmente di una delle più basse ingiustizie sociali. Perché produce l’effetto di emarginare chi a questo Paese ha dato un contributo sostanziale in quelle stagioni in cui il Paese cresceva e si sviluppava. Mentre i bisogni sono aumentati con scientifica costanza, le pensioni sono rimaste in una immobilità drammatica. Ci sono uomini e donne che si aggirano per i mercati rionali e con gli occhi calcolano il peso di tre arance per capire se le possono comprare. Il cappotto è quello che hanno preso molti anni fa. Grigio o blu. Forse per il fatto che prevedevano come sarebbe andata a finire, e il grigio e il blu non passano mai di moda. Poi, siccome al cinema ci sono andati una volta ogni sei anni, e in pizzeria soltanto il giorno della cresima del figlio, e viaggi e vacanze sono stati niente di più di una innocente fantasia, sono riusciti a farsi una casa in modo da poterci pagare le tasse e contribuire alla stabilità economica di una Nazione che li maltratta.
Li chiamano inattivi. Ma come sarebbe a dire inattivi. Accompagnano i nipoti a scuola e poi li riprendono. Fanno la spesa per i figli e spesso cucinano per loro. Poi riaccompagnano il nipote in palestra, in piscina, a ripetizione, e pagano sempre loro. In casa cercano di sfaccendare quanto più possono.
Come sarebbe a dire inattivi. E’ un lessico anacronistico e pure stupidamente irrispettoso; è una formula che la realtà ha reso incoerente e inadeguata.
I pensionati che si ritrovano su quella soglia ghiacciata e scivolosa di povertà si domandano come mai negli anni, nei molti anni, in cui si dilapidava il denaro, non si è mai pensato, nessuno ha mai pensato – oppure qualcuno sì, ci ha pensato, e lo ha detto rimanendo inascoltato – a consegnare un riconoscimento dignitoso al loro impegno, al loro lavoro. Talvolta qualcuno ha dato e dà delle risposte, certo: elabora calcoli incomprensibili di contribuzione, riferisce di una spesa pensionistica generale che straripa. Ma a che cosa sia dovuta questa spesa loro non capiscono. Apprendono che il 30,8% percepisce una pensione che va dai 500 ai 1000 euro mensili, che il 13,3% non supera i 500 euro.
Considerando che la soglia di povertà relativa per una famiglia di due componenti è pari a 1.011,03 euro al mese, centesimo più, centesimo meno, deducono che se la pensione rappresenta l’unico reddito, i pensionati poveri sono tanti: sono proprio tanti. Troppi per un paese che si dice civile. Non hanno la certezza che i numeri siano aggiornati. Ma importa poco. Tanto la sostanza rimane invariata.
Però il conto della spesa che straripa non gli torna. Non capiscono quali elementi abbiano determinato lo straripamento. Quali canali prenda la spesa per le pensioni visto che il canale di tanti di loro è secco. Pensano che sia sbagliato il principio, il procedimento, il calcolo, il concetto e il valore che si attribuisce al lavoro di tutta la vita. Probabilmente è sbagliato il rapporto che si stabilisce tra l’impresa realizzata da ciascuno a favore del Paese e la spesa che il Paese impegna per ciascuno. Eppure non protestano. Si lamentano sommessamente. O nemmeno si lamentano. Si sforzano di non pensare o di non lasciar trapelare le amarezze, le delusioni, le tristezze, le sofferenze, le paure per l’imprevisto, per l’eventualità che da un momento all’altro scappi un piede. Come dicono i vecchi.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di martedì 16 luglio 2013]
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Le amicizie d’estate così vere e così fugaci
Li conosci una mattina o una sera, d’estate. Non sai chi sono, non sai che cosa fanno. Li incontri così, per caso, sulla spiaggia, in un bar, oppure nella noia appiccicosa di una festa, nel club dove ti hanno trascinato, in casa di amici antichi.
Li incontri e ti sono indifferenti. Non hai niente da dirgli. Non hanno niente da dirti. C’è una frontiera di disinteresse che ti sembra invalicabile. Sai che dopo quella mattina, dopo quella sera, probabilmente non li rivedrai mai più, oppure che li ritroverai in un’altra futile occasione, nella quale si potrà manifestare ancora la stessa indifferenza reciproca, senza nessun rammarico.
Poi ad un certo punto, per non saper che fare, ti rivolgono la parola, gli rivolgi la parola: una di quelle frasi dette così per dire, magari per non affogare nel vuoto imbarazzante: che caldo che fa, com’è calmo il mare. Banalità stucchevoli.
Si parla, dunque, e parlando si scopre, lentamente, un’affinità, un comune interesse. Si parla e l’indifferenza comincia a stemperarsi. Passano pochi minuti e non sai spiegarti com’è che quella persona ti sta raccontando i fatti suoi, com’è che tu gli racconti i tuoi: forse quelli che non racconti nemmeno all’amico più caro, a quello che conosci da sempre.
Cerchi una spiegazione e forse la trovi nel fatto che tanto sai che probabilmente non ci si rivedrà più, così ti sembra di parlare a te stesso, che quello che stai raccontando a quello sconosciuto, a quella sconosciuta, era da tempo che volevi raccontarlo a te stesso.
Si parla e il tempo passa e non ti accorgi che passa; anzi, dopo un poco cerchi di allontanarti dal frastuono, dal vociare indistinto, per poter comprendere meglio quello che dice, per far comprendere meglio quello che dici.
Gli amici dell’estate. Quelli che ci sono per una settimana o per un solo giorno. Che dimentichi appena se ne vanno o che a volte ricordi per sempre perché ti hanno lasciato qualcosa di autentico, ai quali hai lasciato la stessa autenticità.
Ci sono quelli che hai conosciuto una volta, nell’estate della giovinezza, quando l’estate era diversa proprio perché era quella della giovinezza, che di tanto in tanto ricordi con una certa tenue nostalgia, magari quando ti ritrovi nel luogo dove li hai conosciuti, o quando rivedi persone in qualche modo legate a loro. A volte c’era anche qualche passione leggera, che però allora sembrava bruciante, uno di quegli amori che pensavi si sarebbero annidati nel tuo cuore, di cui però adesso ricordi a malapena il nome, e il sorriso.
Ci sono quelli che conosci ora, con una consapevolezza diversa, in una differente condizione.
Adesso sai che sono una delle innumerevoli rappresentazioni delle stagioni della vita, che vengono e vanno, che sembrano ripetersi e che invece hanno una unicità assoluta. Gli amici dell’estate sono la metafora delle creature che entrano nella tua esistenza e che poi scompaiono, senza lasciare traccia di sé, senza che abbiano nessuna traccia di te, se non un filamento di memoria. Sono proprio come l’estate: così vaga, così indistinta, così confusa, così caotica, così effimera. Forse come la vita.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di sabato 20 luglio 2013]
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La scuola e il dialogo a tre
La scuola promuove, non boccia. Questa è la regola, la consuetudine. Il contrario è –deve essere- un’eccezione che, peraltro, deve comunque avere come principio e come finalità un vantaggio dello studente, che consiste nel metterlo nelle condizioni di recuperare le aree di apprendimento in cui ha evidenziato sostanziali carenze e quindi di continuare agevolmente nel corso di studi.
Ma accade che si bocci, anche se sempre più di rado, fortunatamente. Secondo gli ultimi dati –ancora parziali- forniti dal Ministero dell’istruzione, la percentuale dei promossi nelle scuole medie è del 96,3% (il 96,8% in Puglia), mentre nelle superiori è del 63,5% ( la Puglia registra il 69,5%).Promozione e bocciatura sono espressioni e modalità che provengono da una scuola antica e rappresentano una incoerenza rispetto ad un sistema di programmazione e di valutazione finalizzato ad assicurare l’acquisizione di conoscenze, abilità e competenze. La coerenza richiederebbe una forma di certificazione delle competenze che, fra l’altro, si rivelerebbe funzionale anche all’orientamento verso la scuola superiore e gli studi universitari.
Probabilmente si arriverà anche a questo ma, al momento, qualche volta si boccia. Purtroppo.
C’è sempre molta sofferenza dietro ogni bocciatura. Da parte di tutti: studenti, padri, madri, professori, presidi. Non c’è atto amministrativo, non c’è verbale di consiglio di classe, non c’è nessun registro che sia in grado di dimostrare la sofferenza.
Una richiesta di accesso agli atti non potrà mai documentare il malessere che ghiaccia un consiglio di classe quando si deve scrivere la formula “ non ammesso”.
Ma una richiesta di accesso agli atti in fondo è una possibilità di trasparenza che si dà alla scuola. Non è solo giusto che ci sia; forse è anche bene che ci sia. Fa parte delle bellezze straordinarie della democrazia. Certo, non ce ne sarebbe bisogno (e infatti non succede) se dopo i primi due mesi di scuola e poi dopo i quattro mesi, e poi a metà del secondo quadrimestre e poi ancora verso la fine di aprile, e comunque ad ogni necessità, si chiamassero a scuola i genitori e si dicesse, e si dimostrasse, in che modo procedono gli studi del figlio. Possibilmente con il figlio presente, perché abbia modo di motivare qual è la ragione del quattro in latino, del tre in matematica, delle assenze a compiti e interrogazioni programmate con finissima intelligenza di stratega.
L’autovalutazione è la forma più efficace di valutazione, e gli studenti sono estremamente seri e sono onesti quando valutano se stessi. Ma sono onesti anche quei professori che giorno dopo giorno danno conto delle loro valutazioni, le argomentano, le circostanziano. Sono onesti quei presidi che seguono l’evolversi di situazioni difficili. Molti di noi hanno memoria di professori che mettevano il voto sul registro facendosi schermo con la mano per nasconderlo. Molti di noi hanno memoria di ardite acrobazie per cercare di intravedere i voti in un attimo di distrazione del professore. Nascondere i voti non aveva nessun senso allora. Meno che mai ce l’avrebbe ora. Una valutazione dev’essere anche condivisa, rientrare in un patto formativo che tutti i soggetti coinvolti sono tenuti a rispettare.
Si richiedono gli atti se una bocciatura arriva a sorpresa: quando stupisce, destabilizza, disorienta. Quando accade nell’assenza di un dialogo tra scuola e famiglia. E’ la richiesta del dialogo durante tutto l’anno non degli atti quando l’anno è concluso, che risolve i problemi. Ma nessun dialogo si verifica per caso; dev’essere tessuto con disponibilità, con costanza; deve fondarsi sulla consapevolezza di un interesse comune, di una prossimità reciproca. Una richiesta degli atti è finalizzata all’accertamento della legittimità e della correttezza di forme e di procedure, non all’accertamento della sostanza dell’apprendimento. Ma è questa, credo, la cosa che conta più di ogni altra, che più di ogni altra ha un significato essenziale: la consistenza delle strutture di conoscenza e competenza. Perché è con quelle strutture, con quello che ciascuno sa e sa fare, che si devono affrontare non solo gli impegni di scuola ma tutti quegli altri – assai più difficili, assai più complessi – che cominciano l’istante dopo che la scuola è finita.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di domenica 21 luglio 2013]
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Quelli che in vacanza non ci sanno stare
Ci sono quelli che in vacanza non ci sanno stare. Cominciano a soffrire già all’idea, quando si profilano vagamente all’orizzonte, quando tutti gli altri sono presi dalla fregola del programmarle, loro vengono travolti da un fiume di dubbi, da interrogativi lancinanti su che cosa faranno nei tragici giorni di vacanza, come passeranno il tempo, i mattini, le sere, come sopravviveranno lontani dal lavoro. Allora elaborano congetture per tentare di evitarle, o almeno di ridurle; pianificano strategie finalizzate a dimostrare che sono indispensabili anche in luglio e agosto, che quello che c’è da fare è proprio tanto e non si può assolutamente rinviare.
Niente. La vacanza arriva, inesorabilmente.
Così vengono assaliti una sorta di taedium vitae, di horror vacui, da una spossatezza. In quel modo non si sono mai sentiti. Mai, quando si sono alzati alle sei del mattino, quando si sono fatte otto ore di lavoro e più, quando avevano la testa annegata negli impegni. Quando li ha assaliti l’insonnia per i pensieri. Mai così stanchi. Mai così depressi. Non sanno cosa fare. Si aggirano disorientati, persi, in casa, tra l’edicola e la piazza del paese, sentendosi ridicoli con i calzoni corti, i sandali, la maglietta o, ancora peggio, in qualche posto dove si sono trasferiti, uno di quei luoghi invasi dalla folla vacanziera.
Alle otto di mattina hanno già letto i giornali, che di solito leggono intorno a mezzanotte, e il loro pensiero invidioso corre a chi a quell’ora sta già lavorando oppure comincia a lavorare. Loro invece sono lì, in vacanza, divisi tra un senso di colpa e una sensazione di inutilità nei confronti di se stessi, degli altri, del mondo. Già dal primo giorno cominciano a fare il conto alla rovescia. Si distraggono solo quando fantasticano una telefonata dal posto di lavoro che annunci un’emergenza, la necessità immediata del loro rientro.
Un po’ come il calzolaio che una volta conoscevo.
Il 14 e il 15 di agosto lui chiudeva bottega e si sedeva sul limitare di una casa di fronte. A chi gli chiedeva perché non se ne andasse al mare, rispondeva: casomai la gente ha bisogno.
Ci sono quelli che in vacanza non ci sanno proprio stare.
Vengono presi da un’ansia di cui non riescono a individuare precisamente la ragione, diventano irascibili, nervosi, non hanno interesse per quello che fanno, per le persone che frequentano, per i luoghi in cui si trovano. Cercano in ogni modo di procurarsi un’occupazione, qualcosa che li tenga impegnati con la mente, improvvisano azzardati bricolage, operazioni maldestre di tinteggiatura, di giardinaggio, di manutenzione, si caricano di libri che non riescono a leggere. Si autoflagellano con le parole crociate. Aprono ogni mezz’ora la posta elettronica. Vuota. Allora pensano che gli amici, i colleghi, si siano dimenticati di loro. Che tutto il mondo si sia dimenticato di loro.
Di solito sono quelli che per undici mesi hanno ritmi serrati, corrono sul filo dei minuti, si confrontano continuamente con problemi. Sono quelli per i quali il lavoro rappresenta un elemento essenziale dell’esistenza, che lo antepongono se non a tutto il resto comunque a molto. Se sia giusto o sbagliato non importa. Così è per loro.
Sono quelli che non hanno hobby perché quello che fanno li coinvolge completamente, perché quello che fanno oltretutto li diverte.
Per loro la vacanza è un estraniamento, un esilio da cui vorrebbero fare ritorno. L’unico pensiero che gli dà sollievo è appunto quello del ritorno al lavoro: se lo crescono dentro, il pensiero, segretamente. Perché rivelarlo comporta l’ira degli altri, o il dileggio. Perché spesso gli altri, quelli che, beati loro, in vacanza invece sanno starci, non riescono a capire, non possono capire. Allora, per tutto il tempo della vacanza assumono comportamenti di simulazione: fingono di rilassarsi, di divertirsi; certe volte arrivano perfino alla sfrontatezza di tessere l’elogio della vacanza.
Intanto soffrono.
Perché pensano che non è vero – non è per niente vero – che la vacanza rigenera, ritempra. Per loro è un carico di stress, un affaticamento di cui farebbero tranquillamente a meno. L’espressione staccare la spina non sanno che significa e non la sopportano. Loro vogliono restare costantemente con la spina attaccata all’energia che gli dà il lavoro.
Eppure una volta adoravano le vacanze, anche loro. Come tutte le persone normali. Se le sognavano ad occhi chiusi e aperti. Le aspettavano con un batticuore di piacere. Desideravano i giorni dell’estate: i mattini che si va al mare, i pomeriggi in cui non si fa niente, le sere ciondolanti senza direzione finché non si fa notte alta.
Adoravano le vacanze, anche loro. Quando erano bambini, quando avevano vent’anni.
Allora si persuadono che le vacanze esistono solo per i bambini, solo per chi ha vent’anni. Quando i pensieri sono striature bianche di nuvole. Quando si pensa che la vita, tutta la vita, per quanto dura, sia una vacanza meravigliosa.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di mercoledì 24 luglio 2013]
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La memoria aiuta a vivere meglio
Non abbiamo più memoria. Né del passato lontano, né di quello vicino. Ci muoviamo in un presente che sembra sospeso nel vuoto, come se non avesse provenienza e neppure destinazione. La Storia, quella condizione che dovrebbe insegnarci a pensare e ad agire senza ripetere errori , non è che una vaga percezione di eventi casuali.
Abbiamo l’impressione che tutto quello che accade intorno a noi stia accadendo per la prima volta: nei fatti della politica, in quelli del sociale, nelle vicende dell’economia, negli eventi di ogni giorno, perfino nell’arte, nella letteratura, nella formazione.
Allora non siamo capaci di orientarci perché ci manca l’esperienza. Tutto quello che viviamo, i problemi con cui ci confrontiamo, i disagi che affrontiamo, spesso assumono una fisionomia spettrale perché non abbiamo memoria degli stessi problemi, degli stessi disagi, che altri hanno vissuto prima di noi, o che noi stessi abbiamo vissuto. E’ come se qualcosa ci avesse privato della coscienza del passato, e forse è così. Ma non è stato qualcosa, qualcuno a noi estraneo a privarci. Ce ne siamo privati da soli. Ci ha fatto buon gioco vivere stagioni in cui si pensava che la condizione di benessere ci chiedesse il prezzo di una rimozione del passato. Così quel prezzo lo abbiamo pagato. Per cui ci siamo ritrovati senza memoria e senza l’esperienza custodita dalla memoria. Non abbiamo memoria personale, non abbiamo memoria collettiva. Oppure: ricordiamo soltanto quello che ci fa comodo, trasformandolo in atmosfera che ci spensiera, ci distrae dalla realtà, ci fa mitizzare una parte di passato e dimenticare tutto il resto. Andiamo alla ricerca della festa ma non della riflessione.
I fenomeni di revival sono un esempio. Abbiamo ormai celebrato molti decenni: gli anni Sessanta, Settanta, Ottanta. Ne abbiamo ripreso le mode, le canzoni, tutto quello che abbiamo considerato bello oppure, soprattutto, leggero, ballabile. Abbiamo scelto esclusivamente l’apparente, l’esteriore, ignorando più o meno consapevolmente le condizioni che avrebbero potuto consentirci di realizzare situazioni migliori di quelle in cui ci troviamo. Probabilmente, ora non stiamo meglio di come siamo stati negli anni dai quali ciclicamente riprendiamo simboli e aspetti effimeri, e questo è dovuto anche al fatto che non abbiamo conservato memoria di molto altro, di quello che in questo tempo potrebbe servirci da insegnamento.
L’uomo smemorato non sa cosa fa nel presente, non sa perché lo fa. Non sa qual è la logica, la ragione del suo fare. Una società smemorata si ritrova nella stessa condizione. Si muove alla cieca, senza logica, senza ragione oppure con logiche e ragioni circoscritte al contingente, frammentate. Se ci guardiamo intorno possiamo renderci facilmente conto che è così. Sono anni, ormai, che questo Paese si ritrova ad affrontare soltanto le emergenze, che cerca di riparare ad errori, di recuperare il terreno perso in ogni contesto, in ogni settore. Deve recuperare nelle cose della cultura, in quelle dell’economia; talvolta, semplicemente, deve recuperare espressioni e regole che sono costitutive della democrazia. Certo, i motivi sono tanti e di diverso genere, ma fra i tanti non secondariamente c’è quello della perdita della memoria.
Alla perdita della memoria corrisponde una perdita o almeno un indebolimento dell’identità. Non si può escludere che dipenda anche da questo lo sfilacciamento del tessuto sociale che da alcuni anni in Italia si verifica o s’intensifica, la contrapposizione tra il Nord e il Sud per la quale diventa buono ogni motivo, ogni pregiudizio, ogni pretesto, dagli esiti degli esami di maturità alle tasse. Probabilmente la mancanza di una memoria storica condivisa produce l’effetto di un offuscamento dell’identità di un popolo. Ci si riconosce in una piccola comunità che si pensa autosufficiente, in un villaggio ideale con interessi particolari, e non in una comunità aperta e vasta, in una nazione con interessi generali. Di conseguenza, anche quando un progetto esiste, si rivela frammentato e i frammenti non possono comporre un insieme coerente e coeso, per cui molto spesso l’incoerenza e l’incoesione generano il conflitto o comunque la tensione.
Quasi sempre la perdita della memoria di un uomo o di un popolo è determinata da una indifferenza nei confronti della Storia. A volte non si tratta di ignoranza della Storia, ma proprio di indifferenza, di un disinteresse. Soprattutto di una insensibilità.
Noi non abbiamo più una sensibilità nei confronti della Storia, nemmeno nei confronti di quella più recente. Ci aggiriamo indaffarati in un presente che pensiamo si sia generato così, improvvisamente, dal niente. E’ come se qualsiasi fenomeno accadesse casualmente, non avesse ragioni, radici. Si avverte – si soffre- il problema della disoccupazione – non solo giovanile – ma chi deve non si chiede perché accade, da dove proviene, da quali percorsi sbagliati. Non si chiede che cosa non si è fatto che si possa ancora fare, né che cosa si è fatto in modo sbagliato per poterlo correggere. Non individuare le ragioni e le radici di un problema può compromettere i metodi di soluzione, e lasciare il problema irrisolto, complicarlo ulteriormente.
Ha detto Eric J. Hobsbawm che “la distruzione del passato, o meglio la distruzione dei meccanismi sociali che connettono l’esperienza dei contemporanei a quello delle generazioni precedenti, è uno dei fenomeni più tipici e insieme più strani degli ultimi anni del Novecento. La maggior parte dei giovani alla fine del secolo è cresciuta in una sorta di presente permanente, nel quale manca ogni rapporto organico con il passato storico del tempo in cui essi vivono”.
Ecco. Probabilmente il grande impegno da assumere, il grande lavoro da fare, consiste nella ricostruzione dei meccanismi sociali che integrano le esperienze delle generazioni, nella ricomposizione di un rapporto organico con il passato storico. Perché questo possa accadere occorre una nuova sensibilità nei confronti della Storia, una nuova e forse più profonda consapevolezza della funzione essenziale che la memoria assume per un uomo e per un popolo. Senza memoria, per ogni cosa da fare si deve ricominciare sempre daccapo, e quando si ricomincia ogni volta daccapo non c’è sviluppo, non c’è progresso, non c’è evoluzione.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di mercoledì 7 agosto 2013”]
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Quei giovanissimi allo sbando che la società deve salvare
Li chiamano neet. Not in Education, Employment or Training. Hanno tra i quindici e i ventinove anni. Non studiano, non lavorano. Dalla scuola ne sono usciti, chi per un motivo, chi per un altro. Spesso il lavoro hanno anche smesso di cercarlo. Vagano in un deserto di prospettive. La loro giornata è vuota, senza scopo. Non sanno cosa fare oggi, cosa faranno domani. Hanno subito sconfitte. Si sono arresi alla malignità del caso. Pensano che quella situazione sia irreversibile. A volte hanno una famiglia che in qualche modo cerca di assorbire il loro disagio. Molto più spesso una famiglia che riesca a fare questo non ce l’hanno: è un dramma che deriva da altri drammi e ad essi si aggiunge, complicandoli, esasperandoli.
In Italia sono 2 milioni e 250 mila – unità in più, unità in meno – pari al 24% dei giovani disoccupati.
Neet. Anche gli altri Paesi d’Europa ce l’hanno ma da noi sono di più, e sono in crescita, e al Sud sono di più che al Centro e al Nord.
Ma da dove vengono i neet. Probabilmente nessun fenomeno sociale si verifica per caso e all’improvviso. Si genera sempre da una o più cause, si consolida, si stratifica. Quando il fenomeno si presenta come problema e non viene controllato, gestito, governato, affrontato, risolto o ridotto, allora si spande e può diventare incontrollabile, ingestibile.
Forse il fenomeno dei neet ora è diventato difficilmente controllabile, difficilmente gestibile, perché la disoccupazione generale rende più complicato un intervento mirato. Ora deve essere affrontato nell’ambito di un fenomeno aggrovigliato di mancanza di lavoro o di lavoro precario o di lavoro inadeguato.
Ma da dove vengono i neet.
Non è che la risposta sia proprio facile, e forse bisognerebbe anche diffidare di chi le risposte facili e sicure fa finta di averle nelle tasche di questa o quell’altra teoria.
A mio molto modesto avviso il primo sentiero che conduce nella terra desolata dei neet è l’abbandono scolastico, che è un fenomeno in contrasto con qualsiasi idea di modernità o di civiltà che procede con il passo che il progresso richiede.
Uno dei motivi più diffusi per cui si abbandona la scuola sulla soglia dell’obbligo d’istruzione è la mancanza di una risposta alla domanda – che frequentemente si esprime in maniera silenziosa – su che cosa si può fare quando si è conclusa la scuola superiore. E’ una domanda che ai ragazzi viene spontanea non appena si guardano intorno, e i ragazzi si guardano intorno, vedono, comprendono, valutano. Anche le famiglie si guardano intorno, e vedono, comprendono, valutano.
Per l’accesso al mondo del lavoro, l’attuale sistema richiede, nella maggior parte dei casi, un titolo di studio post secondario. Ma la possibilità d’investimento da parte delle famiglie è crollata, per cui genitori e figli si fanno due conti e terra terra ( che significa realisticamente) decidono di lasciar perdere la scuola e di cercare una qualche occupazione temporanea, un qualche mestiere da imparare.
Poi l’occupazione temporanea, il mestiere da imparare, non si trovano, e invece ci si ritrova nel numero e con l’ angoscia dei neet.
Una simile argomentazione può valere anche a conclusione della scuola superiore: ci si guarda intorno, si capisce che la laurea non garantisce più un’occupazione, si fanno i conti e si arriva alla conclusione che è meglio cercarsi un lavoro, quale che sia, pur se non risponde alle aspirazioni o al percorso di formazione.
Ma anche in questo caso il lavoro non si trova e si va ad infoltire la folla dei neet.
L’altro sentiero riguarda l’abbandono degli studi universitari. In questo caso l’aggravante, che può anche provocare la depressione, è costituita dalla rinuncia al proprio progetto di vita o, al contrario, dalla consapevolezza di aver sbagliato il tipo di studi e dalla sensazione che sia troppo tardi per cominciare daccapo. Non c’è più entusiasmo, non c’è più tensione. Si avverte un senso di fallimento.
Si riduce o si azzera l’autostima. Si è sopraffatti da una sensazione di inutilità.
Non ci sono facili soluzioni, si diceva. Comunque non possono essere di breve periodo. Occorre un progetto complessivo, una convergenza di interventi che coinvolgano tutti i soggetti che operano sul territorio: le scuole, le università, le diverse componenti del mondo del lavoro, gli enti locali, tutti coloro che hanno la possibilità di offrire un’opportunità. Occorrono azioni efficaci di orientamento e di riorientamento tanto all’interno dei contesti di formazione quanto fra questi e i contesti di produzione.
Occorre una appassionata oltre che razionale e sistematica attenzione da parte della politica ai vari livelli di decisione e di gestione, soprattutto per quanto riguarda l’individuazione degli ambiti che nei territori possano consentire la valorizzazione delle energie.
Non è solo un problema di civiltà, di risposta ai diritti della persona, di esercizio della cittadinanza, di tenuta del tessuto sociale, di occupazione.
E’ anche un’occasione di utilizzazione efficace, strategica, funzionale, delle energie di persone che si trovano in una stagione della vita nella quale possono dare a se stesse e agli altri una quantità e una qualità di impegno che nelle stagioni che verranno non potranno più dare.
Certo, qualcuno deve cominciare e non può che essere la politica a cominciare perché ha la funzione istituzionale di programmare, coordinare e poi verificare che i progetti di sviluppo del Paese che ha la responsabilità di governare si realizzino nei modi che risultano più vantaggiosi per il Paese stesso e per ciascuno di coloro che lo abitano.
Ma quando si tratta di un progetto di sviluppo e di attribuzione di valore all’esistenza e alle sue espressioni, la politica non può fare a meno di dialogare costantemente con quei luoghi della formazione che esistono proprio per dare ad ogni persona le competenze e gli strumenti per pensare e per agire in funzione del progresso e del benessere comune.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di mercoledì 14 agosto 2013”]
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L’insostenibile leggerezza della inconsistenza
Come tutti i fatti della vita, anche quelli della cultura assumono senso e valore in relazione alla loro consistenza: alla qualità, allo spessore, alla compattezza, alla rilevanza che assumono nei contesti in cui intervengono, alle visioni del mondo e dell’esistenza che generano, all’immaginario individuale e collettivo che conformano, ai riflessi che riescono a spandere nell’età alla quale appartengono.
Le forme della cultura, le espressioni del pensiero, la pittura, la scultura, la filosofia, la poesia, la narrativa, la musica, il teatro, che costituiscono ancora – più o meno consapevolmente – i nostri elementi di riferimento sono appunto quelli che hanno una consistenza semantica con la quale il tempo che viviamo si confronta e nella quale a volte si rispecchia. Molto spesso questi riferimenti provengono dal passato, e nemmeno da quello recente. Perché il presente, invece, altrettanto spesso, si propone con la fisionomia dell’inconsistenza. La televisione costituisce l’esempio di maggiore evidenza. I programmi che si fondano sulla zuffa, il litigio, la rissa, i talk show, i reality, le fiction che ripetono la stessa formula, sono sempre più frequenti, sempre più invadenti. Rispondono alla logica dell’audience. Appunto. Per cui, fondamentalmente, la domanda da porsi è per quale motivo li stiamo a guardare. Forse una delle risposte possibili potrebbe essere che quest’epoca ci ha abituato all’inconsistenza. La nostra mente rifiuta quello che ci consente di approfondire, che a volte ci costringe, anche, a riflettere. Quello che può in qualche modo corrodere le nostre più o meno false certezze. Quello che ci permette di tenere il pensiero in superficie, che non disturba la nostra tranquillità personale e sociale. Stiamo bene in un villaggio globale in cui tutto quello che accade, compreso anche il dramma, appare sotto la forma dello spettacolo, sempre finto e comunque sempre lontano dal luogo e dalla condizione in cui noi ci troviamo.
Non vogliamo consistenza, senso concreto delle cose. Vogliamo l’effimera leggerezza, l’inconsistenza, la vaporosità del senso, in modo che sia difficile o impossibile farlo stratificare, che possa sfuggirci dal pensiero un attimo dopo. Quanto più il senso è sfilacciato, frammentario, disarticolato, tanto più agevolmente si lascia scivolare nella palude dell’inconsistenza.
Ma la cultura serve a provocare il pensiero. Se non a questo, a cos’altro. Italo Calvino non fece in tempo a scrivere la sesta delle sue Lezioni americane; si sa soltanto che avrebbe avuto per nucleo semantico la “Consistency” e per riferimento di base Bartleby lo scrivano di Melville. Però si può ipotizzare che, come è successo per le lezioni sulla leggerezza, la rapidità, l’esattezza, la visibilità, la molteplicità, anche in quella sulla “consistency” avrebbe individuato quei principi fondamentali per la letteratura del terzo millennio che inevitabilmente si riverberano sul pensiero del millennio.
Anche la lettura, ora, è prevalentemente orientata verso l’intrattenimento. Compriamo un libro che già si vende, il fenomeno del momento, decidendo in base alle classifiche oppure, peggio, ai passaggi in tv. La logica del mercato, del consumo, prevale sulle nostre logiche e anche sulle nostre preferenze.
La pubblicità non è più soltanto l’anima del commercio; è diventata anche l’anima del gusto, perché il consumo di massa inevitabilmente determina il gusto di massa.
Si può obiettare che la letteratura esista proprio per intrattenere. Per molti aspetti è vero: la sua funzione originaria è questa, anche se poi si è andata caricando di altre funzioni.
Infatti, non dispiace il successo planetario di Dan Brown; dispiace che anche Mario Luzi non abbia lo stesso successo. Ovvero che la funzione originaria della letteratura sia prevalente, se non addirittura esclusiva, in una civiltà che ha tutte le condizioni che servono a far agire ad alto livello le altre funzioni che la letteratura ha acquisito nel tempo.
Potremmo farci le stesse domande e darci pressappoco le stesse risposte per quanto riguarda le altre forme della cultura.
Non c’è nulla di male in tutto questo, forse. Ogni epoca genera la propria cultura.
Quindi è sufficiente prendere atto che quest’epoca ci richiama e ci attrae con le forme dell’inconsistenza.
Però, poi, dobbiamo anche chiederci quale esito produca questa attrazione. Se, per esempio, non produca l’indifferenza nei confronti di quello che ha consistenza, che ha pregnante sostanza.
La Storia dimostra che di un’epoca rimangono quelle espressioni del pensiero che sono state più consistenti. Se questa legge della Storia varrà anche nei secoli che verranno, si può immaginare che nulla, o davvero poco, resterà dell’inconsistenza di quel pensiero che oggi risulta dominante. La cosa certamente non ci conforta perché significa che come civiltà abbiamo dissipato il tempo. Già siamo noi stessi a destinare all’oblio molti fenomeni che nel momento in cui si presentano sembrano doversi costituire come pietre miliare della conoscenza. Poi riusciamo a stento a ricordare l’autore e il titolo della maggior parte dei tanti best sellers degli ultimi dieci anni, che comunque molto spesso abbiamo in casa, che abbiamo comprato per il gran vociare che se ne faceva. Facciamo fatica a ricordare molti dei film per i quali ci siamo messi in fila al botteghino, e le canzoni con cui ci hanno martellato per tutta un’estate, e gli innumerevoli eventi sparsi nelle piazze. Evento è una delle parole di cui da qualche tempo si fa un abuso ridicolo: il nulla viene travestito da evento e noi diventiamo i protagonisti dell’evento del nulla.
Prima della legge della Storia esiste quella naturale della memoria che trattiene soltanto quello che è consistente; il resto lo macina e ne espelle i rimasugli.
Le cose di quest’epoca che invece resteranno certamente sono le scoperte delle scienza. Perché hanno una straordinaria consistenza. Perché hanno cambiato il nostro modo di stare sulla Terra e quello di guardare il cielo, di immaginare la luna.
La loro consistenza ci perdona il nostro stupido lasciarci sedurre dalle sirene dell’inconsistenza.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di lunedì 26 agosto 2013]
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E’ il primo settembre: ricominciamo!
Il primo giorno di settembre ha il senso particolare di un passaggio che forse non ha il primo giorno di nessun altro mese. E’ come se il pensiero, all’improvviso, ritornasse ad un tempo precedente che i giorni di agosto avevano sospeso. Ogni cosa diventa diversa da com’è stata in quella sospensione, nel frangente di una distanza dalle occupazioni di sempre. E’ il ritorno della mente ad una condizione di realtà, ad un’appartenenza esistenziale che ci riprende, ci riaccoglie, ci riconsegna ai compiti che non avevamo concluso, a quelli che si devono ancora intraprendere.
A volte i pensieri degli uomini cambiano da un giorno all’altro, da un’ora all’altra, anche da un solo istante all’altro. Mutano oggetto e orientamento, profondità e sentimento.
Per molti, per tanti, accade probabilmente così il primo giorno di settembre. Agosto ha distolto, ha distratto, indipendentemente dalla circostanza che si sia rimasti nei luoghi consueti, che ci si sia occupati delle consuete faccende. Agosto ha comunque un’energia che frastorna i pensieri, disegna orizzonti differenti: non necessariamente più leggeri, non necessariamente più attraenti. Semplicemente differenti. A volte sono orizzonti che si configurano soltanto come fantasia. Per qualche tempo tra i paesaggi della fantasia si sta bene. Poi però si avverte l’esigenza di ritornare dentro i paesaggi della realtà, anche se meno attraenti. Perché, in fondo, è dentro questi paesaggi che ci si sente se stessi.
Il primo giorno di settembre avviene il ritorno nei paesaggi reali, in se stessi.
Si riprendono i discorsi interrotti, si restituisce intensità ai ritmi che si sono lasciati un po’ rallentare. Qualcuno lo fa rapidamente; qualcuno si concede ancora qualche giorno, qualche ora di meridiana lentezza, però poi si accorge che intorno tutto ha ripreso a girare a volte anche vorticosamente, e allora si lascia prendere da quel vortice che se in qualche caso provoca la stessa sensazione di un brusco risveglio, o di una vertigine, solitamente restituisce vigore.
D’altra parte, una sospensione dell’ordinario che andasse oltre il mese di agosto, probabilmente sarebbe terribilmente noiosa. Noi abbiamo bisogno dell’occupazione responsabile, del confronto con la concretezza delle storie di cui siamo protagonisti o anche solo spettatori, delle esperienze che ci consentono di verificare la nostra capacità di costruire qualcosa, di realizzare, e si può costruire, realizzare, soltanto in una condizione di impegno costante, nella dimensione della realtà. Un lungo disimpegno potrebbe spersonalizzare, mettere in crisi la percezione che abbiamo della condizione in cui ci troviamo, della dimensione esistenziale alla quale apparteniamo.
E’ nel passaggio del primo giorno di settembre che riconfermiamo il nostro essere presenti al tempo che attraversiamo. Nel giro di qualche giorno, agosto diventa lontano: in qualche occasione ne sentiamo il rimpianto, come accade che si rimpianga il vissuto di un’infanzia, di una giovinezza, come accade che si rimpianga comunque il passato soltanto perché è passato. Settembre invece restituisce il senso di una maturità consapevole, di un presente che ci pone domande non di rado pressanti alle quali siamo comunque tenuti a rispondere.
Settembre è il mese di un transito verso un’altra stagione, e il primo giorno del mese è quello in cui il transito ha inizio. Come ogni inizio porta con sé entusiasmi e timori, incertezze e certezze, prospettive e tensioni. Ma molto spesso, quasi sempre, si tratta di un ricominciamento, e si ricomincia facendo un resoconto ed elaborando un progetto. Non c’è nessuno che non abbia un resoconto da fare, un progetto da elaborare. Sostanzialmente i progetti si fondano sui resoconti, sulla ponderazione delle esperienze e sulla prefigurazione, sulla proiezione. Sostanzialmente niente viene dal niente: piuttosto si riconsidera, si rimodula, si riformula. In agosto abbiamo lasciato che fosse il caso a portarci, quasi aderendo ad una metafora di quello che è il destino; da settembre ricominciamo a tentare di governare il caso, nella consapevolezza che possiamo riuscirci solo in minima parte, ma che non possiamo fare a meno di tentare.
Allora facciamo bilanci, valutiamo prospettive, abbozziamo un percorso con un’organizzazione complessiva, cerchiamo di definire finalità, individuare obiettivi, lasciandoci aperti i varchi per il nuovo che può venire, per l’imprevisto, per un diverso nostro modo di essere nei confronti dei fatti e delle persone, dell’esistenza e del mestiere, per un più forte credere in quello che si fa, soprattutto in quello che fanno gli altri.
Così il primo di settembre si ricomincia. Anche se è domenica. Anche se è domenica il pensiero si proietta già verso il giorno successivo, alla mattina presto in cui prenderemo il caffè al solito bar con i soliti amici, compreremo il giornale alla solita edicola, faremo quello che facciamo di solito per undici mesi. Magari aspettando che venga ancora agosto. Per poi aspettare settembre un’altra volta.
Però pare che sia in questo modo che va la vita.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di domenica 1° settembre 2013]
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La scuola serve a diventare uomini
In un Paese ci sono problemi molto gravi e altri meno gravi. Se chi sta leggendo in questo momento questo articolo pensa che l’abbandono scolastico sia un problema molto grave, allora può continuare. Se invece pensa che sia poco o per nulla grave, può risparmiare tempo e fermarsi a questa riga.
Allora, i numeri: nel 2012 in Europa la media degli abbandoni scolastici è stata del 12,8%; in Italia del 17,6. Di più, quindi.
In Europa la media dei diplomati è del 35,8%; in Italia del 21, 7%. Quindi di meno.
In Europa il 36% dei giovani fra i 30 e i 34 anni conclude il percorso universitario; in Italia nel 2012 ha completato il percorso universitario e si è laureato entro i 34 anni il 21,7%. Anche in questo caso di meno.
Considerando la costanza del dato negativo, diventa inevitabile chiedersi che cos’è che non va in questo Paese. Se abbiamo un’intelligenza inferiore a quella degli altri; se abbiamo scuole che funzionano meno di quelle di tutti gli altri; se le politiche formative siano meno adeguate rispetto a quelle degli altri; se i padri e le madri di questo Paese credono nel futuro dei loro figli meno di quanto ci credono gli altri; se i cittadini di questo Paese pensano che la formazione non sia – non sia più- una condizione essenziale per lavorare o, semplicemente, per essere o, banalmente, per leggere le istruzioni di un elettrodomestico, il foglietto informativo di un medicinale.
Poi viene ancora da chiedersi dove vanno, cosa fanno questi ragazzi, queste ragazze, quando lasciano la scuola.
Se chi non crede che l’abbandono scolastico sia un problema molto grave ha comunque continuato a leggere per non saper che altro fare, con buona probabilità risponderà che in Italia la scuola non funziona.
E’ un pensiero e in quanto tale va considerato e rispettato, senza alcun dubbio.
Però ragioniamo.
Ci sono quartieri in cui le aule di una scuola sono gli unici luoghi in cui si offrono condizioni di serenità e di decoro, modelli di riferimenti costanti e positivi. Fuori è degrado e inquietudine.
Le scuole in Italia sono gli unici luoghi pubblici in cui spesso, in autunno e in inverno, le luci restano accese fino a pomeriggio inoltrato, a volte fino a sera.
Chi lavora in una scuola commette errori come chiunque faccia qualsiasi altro lavoro, soprattutto se si tratta di un lavoro che si fa con e per le persone. Commette errori, dunque, ma senza averne l’intenzione e soprattutto con la disponibilità e l’umiltà di riparare all’errore.
In poche parole: la scuola fa tutto quello che può e non di rado lo fa con i pochi mezzi che ha a disposizione.
Le eccezioni confermano le regole e molto spesso, quasi sempre, si tratta di eccezioni circoscritte nel tempo e nello spazio.
Allora, che cosa c’è che non va in questo Paese, cos’è che determina un tasso così consistente di abbandoni, più alto di quello degli altri Paesi d’Europa.
Si possono dare molte risposte, indubbiamente. Si possono formulare serie di ipotesi, si possono individuare cause e concause, le più diverse.
Ma c’è una circostanza che, probabilmente, le attraversa tutte.
Non si crede più che il titolo di studio possa risultare funzionale al lavoro. Ci si guarda intorno e ci si accorge del dilagare della disoccupazione di persone che hanno un diploma, una laurea, anche due, master, stage, specializzazioni.
E’ questa la ragione che sostanzialmente determina il livello di abbandono che, purtroppo, è destinato a salire se non si prospetteranno significative trasformazioni positive della situazione, se non si apriranno varchi, canali, se non si faranno vedere gli sbocchi. Spero di sbagliarmi, ovviamente, ma mi sembra che la condizione in cui si trova questo Paese non consenta di gettare in tempo breve un ponte tra la scuola e il lavoro. Però la scuola deve comunque alzare argini al fenomeno, deve cercare modi per attrarre, per far capire alle generazioni che arrivano l’importanza che la formazione assume per l’essere e l’esistere, comunque, indipendentemente dalla relazione che la conoscenza ha con il lavoro.
Una storia. Peter Pan si accosta alle case degli uomini per ascoltare quello che la signora Darling racconta ai suoi figli.
Nel Paese-che-non- c’è nessuno racconta storie ai bambini smarriti. Per convincere Wendy a seguirlo nel Paese-che-non-c’è, Peter le dice che potrebbe raccontare storie a quei bambini. Ed è raccontando storie che Wendy muove nei bambini smarriti il desiderio del ritorno.
Ecco. Probabilmente la scuola deve attrarre proponendo quello che i ragazzi non conoscono e che soltanto la scuola può dare.
Quanti possono insegnare come si usa il computer? Tanti.
Quanti possono insegnare come non si usa, l’etica della tecnologia? Pochi. Questo la scuola deve fare, per esempio.
Quanti possono insegnare la condizione di cittadinanza? Nessuno, forse.
La scuola deve insegnare la condizione di cittadinanza, i diritti e i doveri che questa condizione comporta.
Quanti possono insegnare a pensare in modo critico, libero, a sottrarsi ai condizionamenti, agli indottrinamenti; quanti possono insegnare a comprendere il presente interpretando la storia, ad elaborare un’idea di futuro interpretando il presente, quanti possono insegnare a vedere la bellezza di un dipinto, di una poesia, oppure quella dei fenomeni del cielo, quanti possono insegnare ad imparare come si impara?
Quanti possono riuscire a far comprendere che “L’Infinito” di Leopardi non serve a niente se non ad apprendere a portare il proprio pensiero oltre ogni possibile siepe, al di là di tante possibili barriere, ma che potrebbe anche succedere che durante la prova di un concorso, un colloquio di lavoro, diventi necessario portare il pensiero oltre i confini di quello che si conosce?
Quanti riescono a insegnare ad arrivare ai luoghi del sapere sconosciuti seguendo i sentieri del sapere di cui si è già fatta esperienza?
La scuola deve insegnare le cose che gli altri non sanno o non possono insegnare, con i metodi che gli altri non sono in grado di usare. Deve creare situazioni di attrazione più forti, molto più forti, di quelle della distrazione. Deve anche riuscire a far capire che le sirene che cantano fuori portano le navi a sfracellarsi sugli scogli.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di mercoledì 11 settembre 2013]
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I giovani senza lavoro umiliati dalla società
Non dovrebbero bussare. Mai. Per loro dovrebbero spalancarsi le porte e i portoni, si dovrebbero stendere tappeti preziosi per ogni punto dove poggiano i piedi, si dovrebbero gettare ponti d’oro per farli transitare fra sponde lontane. Loro hanno idee belle e nuove, entusiasmi, energie, impeti, passioni; spesso hanno anche stupendi astratti furori, hanno l’innocenza e la lucida incoscienza che serve, il coraggio di commettere errori, l’imprudenza dell’età che li porta a saltare a piè pari le barriere; hanno l’inesperienza che gli permette di incamminarsi per strade non battute, di osare, sperimentare, scardinare le serrature che impediscono di penetrare in luoghi del sapere sconosciuti.
Una civiltà che ha un progetto di sviluppo, che intende progredire, che non vuole pestare i piedi nelle pozzanghere di quello che ha acquisito, che vuole raccontarsi storie diverse da quelle che da decenni, o da secoli, si racconta, non consente che i giovani vadano alla ricerca di un lavoro, lascia che lo chiedano come un favore, che aspettino come i braccianti del Sud di una volta che il fattore li chiami alla giornata.
Una civiltà che ha una tensione per la crescita offre un lavoro ai giovani, li prega di accettare, pensa l’impensabile perché possano restare nella terra dove vivono, perché possano renderla più forte, renderla migliore.
Non li umilia con la disoccupazione, la sottoccupazione, il precariato infinito, con l’attesa estenuante, con le speranze deluse.
La nostra è una civiltà che umilia i giovani. Anziché far brillare talento e valore, li smorza o li spegne. Non dà possibilità. Nega prospettive. Li sfianca con l’incertezza. Li deprime. Li fa andare via, soprattutto dal Sud. Così ogni luogo dal quale i giovani vanno via si immiserisce di cultura e di economia. Soprattutto si impoverisce di umanità.
Non so se per un uomo, una donna, esista una cosa più umiliante del dover cercare lavoro, a qualsiasi età. Non mi viene in mente un’altra cosa. Ma non so neanche se esista per una società una cosa più umiliante del costringere qualcuno a cercare un lavoro: qualcuno in generale, senza dubbio, i giovani in particolare.
La nostra è una società che, ad un tempo, umilia chi cerca lavoro e umilia se stessa, perché non è riuscita e non riesce a rendere onore alla sua umanità soprattutto e poi anche a quella Costituzione su cui si fonda. Qualche volta fa dei tentativi che cercano in qualche modo di rattoppare un tessuto sociale lacerato, smembrato, senza una programmazione organica, un’organizzazione dei tempi e delle modalità, una relazione strutturata tra i contesti della formazione e quelli del lavoro.
Dovremmo tutti provare vergogna ogni volta che ci troviamo davanti ad un giovane – uno solo – che cerca lavoro. Ogni volta dovremmo pensare che la civiltà che abbiamo realizzato e nella quale viviamo si sta suicidando. Dovremmo sentire un brivido di paura che ci scorre lungo la schiena ogni volta che i giornali, le televisioni, ci riferiscono i dati della disoccupazione che sale, che sale costantemente. Tutte le volte che ci accade di pensare che i giovani non saranno giovani per sempre, che si faranno grandi, che diventeranno vecchi e non avranno una pensione, e non avranno un’assistenza, e non sapranno dove buttare le mani all’occorrenza. Giorno per giorno ci preoccupiamo di guadare il fiume della contingenza e dell’emergenza per cui ci costringiamo a non pensare allo tsunami che ci spazzerà via in un futuro non proprio lontano. Se non alziamo argini poderosi.
Se c’è qualcuno che pensa che si tratti di pessimismo, di catastrofismo, rifletta un attimo sui dati della disoccupazione giovanile forniti dall’Istat.
Tra il 2010 e il 2013 il numero degli occupati fino a 35 anni è passato da 6,3 a 5,3 milioni.
La sofferenza maggiore si registra nella fascia tra i 25 e i 34 anni, cioè tra coloro che hanno concluso gli studi e cominciano a cercare lavoro. Nel secondo trimestre di quest’anno, in questa fascia lavoravano appena 4,329 milioni di persone mentre tre anni fa erano 5,089.
Se al Nord la situazione è preoccupante, al Sud, manco a dirlo, è drammatica.
Qual è la prospettiva di un Paese e di un Sud del Paese che si ritrova in questa condizione. Qual è quella dei giovani di questo Paese e di quelli del Sud di questo Paese. E’ possibile che non smetta di propagarsi l’eco di quella parola che disse una volta Eduardo De Filippo? Disse ai giovani del Sud: fuitevenne. Andate via. Scappate da qui. Se avete sogni, desideri, speranze, entusiasmo, arte, mestiere,competenze, scappate via da qui.
Quale destino si riserva una società in cui la disoccupazione aumenta, che nel giro di tre anni perde un milione di lavoratori nell’età in cui si può dare il meglio in termini di idee e di energie.
Se si tratta di pessimismo, di catastrofismo, se non è così, sono immensamente felice.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di lunedì 16 settembre 2013]
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La professionalità esibita e il dilettantismo creativo
Ci sono quelli che ad ogni occasione che gli si presenta, al primo pretesto che gli si dà, appena gli capita l’opportunità, tirano fuori dal taschino o dalla borsetta, evocano, invocano, la loro professionalità.
“La mia professionalità non si mette in discussione”; “lei sta offendendo la mia professionalità”; “ il mio profilo di professionalità”.
Così dicono, sventolando l’attestato che nessuno gli ha chiesto della loro professionalità. Poi ci sono quegli altri: i dilettanti. Quelli che a fare il loro mestiere si dilettano un sacco. Quelli che provano soddisfazione, piacere, entusiasmo. Quelli che pensano che ci sia sempre qualcosa da imparare dalle situazioni che accadono, dagli altri. Quelli che scrivono per diletto, dipingono per diletto, suonano per diletto, giocano a pallone senza aspirare alla nazionale, vanno in bicicletta senza pensare di vincere il giro d’Italia. I dilettanti che sono estremamente seri ma che non si prendono mai sul serio, che non sono seriosi, compunti, grevi; i dilettanti che tutta la notte studiano come fare e il mattino fanno finta di improvvisare. I dilettanti che si sentono eterni studenti, che sono sempre pronti a rimettersi in gioco, che intraprendono un’opera con impegno allegro, che non rispondono a schemi, a mode, modelli, a stili predefiniti, a gusti correnti, che sono liberi, che non appartengono a nessuna scuola se non a quella del sapere per il sapere: senza altre pretese, senza altri scopi. I dilettanti che pensano che qualsiasi mestiere sia parte essenziale della vita e nella vita non si è mai professionisti ma sempre e soltanto dilettanti. Ogni giorno si comincia daccapo. Anche se si ha l’illusione che si stia continuando qualcosa che si è cominciata il giorno prima, in realtà si sta cominciando daccapo. E’ tutto da ripensare, da rifare, e ci vuole coraggio e fantasia. Ogni volta è sempre la prima volta. Ogni giorno un debutto sulla scena. Ogni giorno una parte diversa. Ricordo una frase che Charlie Chaplin dice in “Luci della ribalta” (mi pare): in fondo siamo tutti dilettanti perché non viviamo abbastanza per diventare di più. Ma è chiaro che i dilettanti non sono tutti uguali. Ci sono quelli veri e quelli falsi. Il dilettante vero non va mai allo sbaraglio. Prepara il suo diletto con accuratezza. Sa che non può e non deve far brutta figura con chi ha la spocchia del professionista, a chi fa proclami di professionalità, a chi ha l’arroganza della certificata competenza. Allora si diletta a confondere le carte, a scombinare le regole del gioco, e scombinando inventa cose nuove, propone altre regole: è la creatività del dilettante, di chi si diletta, di chi ha la ferma convinzione che non esista persona più seria di un bambino che si diletta con un gioco. Perché mentre gioca sta apprendendo. Così il dilettante si tiene stretta dentro la serietà del gioco di un bambino, e con le costruzioni crea forme nuove, con i pastelli fa un cielo di colore diverso, e nel cielo invece dei gabbiani ci mette se stesso che vola in compagnia di qualche amico. Tanto, nessuno può dirgli niente: è un dilettante, in fondo.
[Nuovo Quotidiano di Puglia di sabato 21 settembre 2013]
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La bellezza perduta delle città
In un passo di quello straordinario romanzo che è Le memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar, l’imperatore dice: “Mi sentivo responsabile della bellezza del mondo. Volevo che le città fossero splendide, piene di luce, irrigate d’acque limpide, popolate da esseri umani il cui corpo non fosse deturpato né dal marchio della miseria o della schiavitù, né dal turgore d’una ricchezza volgare; che gli alunni recitassero con voce ben intonata lezioni non fatue; che le donne al focolare avessero nei loro gesti una sorta di dignità materna, una calma possente; che i ginnasi fossero frequentati da giovinetti non ignari dei giochi né delle arti; che i frutteti producessero la più bella frutta, i campi le messi più opime”.
Forse ciascuno di noi prova, più o meno inconsciamente, lo stesso desiderio di bellezza di Adriano; ciascuno di noi vorrebbe più bellezza nei paesi, nelle città; vorrebbe affacciarsi dalla finestra una mattina e accorgersi che tutta la volgarità si è prosciugata: tutta la volgarità delle costruzioni, e anche delle parole, e anche delle storie, tutta quella volgarità di cui ci siamo circondati, spesso perfino senza volerlo, la grossolanità, la rozzezza alle quali ci siamo abituati tanto da non farci più nemmeno caso. Tutti vorrebbero ricomporre la bellezza frantumata o potere e sapere costruirne una nuova: una nuova bellezza per i bambini, per i vecchi, per chiunque.
Anche se non esiste un’idea o un canone di bellezza immutabile, certa bellezza delle forme rimane riconoscibile in ogni tempo e in ogni luogo. La bellezza ha una relazione profonda con un’epoca e con gli uomini di quell’epoca, ma in quest’epoca la bellezza alla quale noi facciamo riferimento molto spesso – quasi sempre – appartiene al passato. Non siamo stati noi a realizzarla. Quando siamo stati virtuosi abbiamo avuto la capacità di conservarla; quando non lo siamo stati l’abbiamo abbattuta o deturpata o trascurata. La nuova – poca – bellezza che talvolta siamo in grado di costruire intorno a noi costituisce l’esito di un’imitazione o di una rielaborazione della bellezza antica.
Non è un caso che la bellezza di una città sia raccolta tutta nel centro storico, che oltre quel confine molto spesso si distenda un deserto senza bellezza. Ma non intendo l’opera d’arte, quella bellezza che si va a cercare quasi sempre con consapevolezza, con una conoscenza di cui si vuole fare esperienza. Intendo quella bellezza che si manifesta ad una svolta d’angolo, improvvisa, inaspettata, che risplende con la sua stessa materia, che richiama irresistibilmente chiunque, anche chi non sa da dove essa provenga, chi non ne conosce l’autore e il tempo dell’origine e il senso. A volte non si sa dire per quale motivo incantino certi vicoli, perché provochino stupore la semplicità di certi balconi, qual è la ragione per cui si rimane sbalorditi a guardare l’essenziale geometria di una minuscola piazza che si apre a sorpresa nello spazio tra due palazzi, né si riesce ad esprimere che cosa spinga quasi a spiare in una corte dove non ci sono altro che gerani e panni stesi al sole ad asciugare, oppure a restarsene nella penombra di una chiesa vuota, affondando gli occhi in una tela del Seicento e ascoltando il silenzio screziato soltanto dal crepitio delle candele.
Nelle ultime righe di un suo libro che s’intitola Ecologia della bellezza, Ferdinando Boero si chiede perché quando si va in una città si visita il centro e i musei, e si risponde: perché le periferie sono brutte. Poi aggiunge: “Ma quando i centri sono stati edificati non c’erano periferie, tutto veniva concepito per assolvere una funzione e avere comunque requisiti di bellezza. Ora non più. I nostri antenati ci hanno lasciato un patrimonio di bellezza, noi stiamo lasciando un patrimonio di bruttezza”.
Esiste senza dubbio una relazione tra la bellezza del particolare e quella del contesto, tra la parte e il tutto.
Forse anche una “Pietà” di Michelangelo tra i viali tutti uguali che separano le catene di oscuri casermoni in una periferia, un po’ si abbruttisce.
Forse fra le viuzze barocche, brevi, tortuose, si trasforma in un monumento anche un gallo segnavento.
Certo, esiste una relazione fra la cosa e l’insieme, e può essere stata la frattura che si è aperta in questa relazione la causa della nostra incapacità di costruire bellezza. Può essere stata la disarmonia, la contraddizione, il contrasto, l’incoerenza, la sproporzione, lo squilibrio, a determinare il ritrarsi della bellezza e l’avanzare del suo contrario.
Talvolta si avverte la sensazione che tutt’intorno la bruttezza s’intrometta e ci insidi e ci assedi. Che ci offenda, anche. Nel giugno del Settanta, sei mesi prima di morire, Vittorio Bodini scrive “Rapporto del consumo industriale”. In questa poesia dice dei nidi di plastica e di cemento che si sarebbero alzati dov’erano anfiteatri d’uve e dizionari d’ombre; dice di pinete ridotte a cimiteri di alberi, alti scheletri arsi in un incendio senza canti, di spiagge come millepiedi invase dal turismo di massa, di un mare sporco di nafta.
Dice che “il numero nemico dell’uomo e della bellezza/ coordina coiti prolifici che assicurano all’industria/ un più grande mercato di consumatori”.
Già prima, con la sua potenza visionaria, aveva intuito lo “sgocciolio suicida di questo paesaggio”, aveva perforato l’evidenza del presente per figurarsi quello che poi sarebbe stato.
Così, da tempo ormai, lo sguardo di questa civiltà si è assuefatto – a volte con tristezza, a volte con inconsapevolezza – ad un paesaggio straformato, deformato; si schianta sulle pareti di un luogo chiuso e asfissiante, ha la percezione di una corrosione inarrestabile, di uno sfacelo incombente.
Eppure si può avere ancora una speranza. Si può – si deve- sperare che la scuola di questo Paese (ri)cominci ad insegnare in che modo si costruisce la bellezza e, prima ancora, a farla scoprire e a far capire in che modo non si distrugge. Perché domani si possano avere uomini diversi e migliori di quelli che noi, oggi, siamo. L’ultima speranza forse è questa.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di martedì 24 settembre 2013]
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Esperienza e memoria: valori da recuperare
Narra la leggenda che in un tempo lontano, tanto lontano che non si può sapere quanto, allorché gli uomini raggiungevano un’età che allora si diceva fosse di vecchiaia, venivano portati dai figli ad un pizzo di mare o sopra una montagna e da lì scaraventati in fondo a un precipizio.
Ma una volta i figli ebbero pietà di un padre e lo nascosero dentro ad un pagliaio.
Accadde che in quel paese venne la malaria. Ma nessuno sapeva curarla perché nessuno ne aveva memoria, nessuno aveva esperienza. Allora i figli che avevano nascosto il padre, gli chiesero se si ricordasse di un altro tempo di malaria. Il vecchio si ricordava e ricordava anche quali fossero i modi per curarla, sicché il paese riuscì a salvarsi.
Così la legge che imponeva di uccidere i vecchi fu cancellata in quello stesso giorno.
Ora noi viviamo in una società, una condizione, un tempo che più o meno consapevolmente ignora o non tiene comunque in conto il senso e il valore che assume l’esperienza. Riteniamo di essere in grado di fare tutto da soli, che non ci occorrano i riferimenti, che le cose fatte bene o gli errori degli altri non possano servirci a niente. Cominciamo qualsiasi arte, qualsiasi mestiere, con l’arroganza di possedere – quando la possediamo- una infallibile teoria, che nelle sue formule siano contenute tutte le chiavi, senza riflettere sulla circostanza che ogni porta vuole la sua chiave, che senza di essa rimane serrata, impedendo di vedere cosa c’è dietro.
Accade più o meno in ogni settore. Non abbiamo più bisogno di maestri. I maestri appartengono al passato, e con il passato non vogliamo avere alcun confronto, perché ci infastidisce, ci annoia, ci fa perdere tempo. Uno entra in un campo di calcio e si sente Pelè; un altro in un giornale e si sente Montanelli, a volte senza neppure aver letto Montanelli; l’altro suona la chitarra ma non s’incanta a guardare le dita di qualcuno che fanno magie con gli accordi. Si fanno studi sui più diversi argomenti senza consultare gli studi precedenti e così si scopre l’ampiamente rivelato. Si fa sperimentazione teatrale sperimentando quello che è puntualmente riportato nei manuali di storia del teatro, e la stessa cosa vale per la pittura, la scultura, la letteratura.
C’è sempre un politico che in uno dei tanti salotti televisivi espone la propria teoria del governo perfetto, fornisce il miracoloso medicamento per la crisi economica, e si capisce subito che non conosce i danni irreparabili che talvolta quella sua idea di governo perfetto ha prodotto, che non ha cognizione del fatto che in altre situazioni il suo medicamento ha fatto crepare il malato.
Si potrebbero fare esempi per ogni contesto del sociale. L’esperienza degli altri non conta nulla oppure è un errore da cancellare.
Così si procede con la presunzione di fare quello che nessuno è riuscito mai a fare, ignorando che quello che appare inedito e nuovo è vecchio di anni, di secoli a volte.
In alcune circostanze ci si chiede da dov’è che provenga questa presunzione: ce lo si chiede spesso in situazioni quotidiane, quando si è presi dallo stupore che suscitano certi comportamenti, certe parole che traducono la totale ignoranza della piccola storia: di tutta quella piccola storia che poi intrecciata fa la Storia grande.
Probabilmente, in Italia la trascuranza dell’esperienza è cominciata al principio degli anni Sessanta: quando sulla civiltà contadina, che da sempre costituiva la struttura portante di questo Paese, si è repentinamente passata una vernice che voleva rappresentare un simbolo inequivocabile di modernità, o, forse più esattamente, di convenzionale adeguamento ad un nuovo costume determinato da una nuova condizione sociale ed economica.
Con la vernice è stata cancellata anche una forma di pensiero che aveva il suo nucleo essenziale nell’esperienza trasmessa da generazione in generazione e nella saggezza che l’esperienza poteva portare nell’esistenza di tutti e di ciascuno, in quella di una sola persona e in quella di un popolo intero.
Così si è dimenticato – o non si è più voluto considerare- che se si guadagnano cento lire al giorno, dieci bisogna metterle da parte, che questo deve farlo ogni uomo e ogni nazione, ed è superfluo spiegarne la ragione; che i passi si devono fare uno alla volta sapendo bene dov’è che si vuole andare; che si può comprare qualcosa quando si ha il denaro per comprare, che se non se ne ha si aspetta il tempo d’averlo oppure la cosa non si compra, anche perché il più delle volte non è fondamentale; che le chiacchiere devono essere nettamente distinte dai fatti; che la solidarietà è principio fondamentale di ogni convivenza; che le generazioni che passano devono lasciare a quelle che vengono una sostanza da cui cominciare. Non si tratta soltanto di sostanze materiali. Si tratta anche di idee, di visioni, di valori, di virtù ( si può ancora usare questa parola?), di conoscenze che derivano dall’aver vissuto di più e quindi dall’aver pensato e agito di più. Dall’esperienza, dunque.
Il termine esperienza viene dal greco “pèiro” che significa passare, attraversare, e da “pèira”, tentativo, prova, esperimento (chiedo scusa per l’eventuale approssimazione ma ho frequentato il magistrale e non ho fatto il greco). In latino “experior” vuol dire sperimentare, provare, conoscere per esperienza, affrontare, sapere.
Una società senza esperienza è superficiale: manca di quella stratificazione di concetti e di significati che consente di comprenderne la Storia, le cause delle situazioni in cui si trova, degli effetti che quelle situazioni possono produrre, dei rimedi da adottare per risolverle.
Una società senza esperienza si ritrova a dover improvvisare giorno dopo giorno i modi per far fronte ai problemi che le si pongono da ogni parte. Ma le soluzioni improvvisate non sono mai durature, per cui poi i problemi si ripresentano con l’ulteriore peso delle mancate o inadeguate soluzioni, e accerchiano, e pongono l’assedio.
Allora si rivela necessario – indispensabile – recuperare l’esperienza.
Allora, talvolta, oltre che guardarsi intorno, è necessario saper guardare indietro. Ogni progresso di cui il presente trae vantaggio, deriva dal passato. Sempre.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di martedì 8 ottobre 2013]
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Mediterraneo ed Europa: è da qui che si parte
La prima sessione del “Progetto di formazione per gli insegnanti sulla cittadinanza europea” che la Provincia di Lecce ospita il 22 ottobre, costituisce anche l’occasione per uno sguardo ulteriore verso l’Europa: in particolare di uno sguardo da Sud. La Storia vista da Sud ha sempre una fisionomia diversa; talvolta si carica anche di significati diversi.
C’era una volta, qui, a Sud del Sud, un poeta che scriveva così: “ Il Sud ci fu padre / e nostra madre l’Europa”. Era Vittorio Bodini, ed era il principio degli anni Cinquanta. L’Europa era molto lontana, allora, dal Sud, ma questi versi rappresentavano una esplicita dichiarazione di cittadinanza naturale, profondamente radicata nella dimensione antropologica, una condizione che riconosceva l’origine di una identità.
Ma qui, al Sud, la condizione di cittadinanza europea si rispecchia con quella di cittadinanza mediterranea e questo rispecchiamento rappresenta in modo probabilmente più evidente la complessità dei concetti e delle forme delle identità che il postmoderno va profilando in maniera sempre più marcata.
Forse diventa molto difficile individuare i nuclei culturali dai quali si genera la pluralità delle forme di cittadinanza europea se non si mette in relazione l’Europa con il Mediterraneo.
La storia dell’Europa si è fatta su questo mare. Questo mare ha inciso e continua a incidere sulle sorti degli uomini che la abitano, e sono le sorti degli uomini che determinano quelle dei luoghi e delle idee.
Allora definire un’identità europea autentica, nella quale ciascuno possa riconoscersi non è più soltanto una necessità. E’ un’urgenza. Perché se è vero che si può vivere in un paese anche se non lo si conosce, è ancora più vero che in un paese che non si conosce si può vivere soltanto da straniero, ai margini. Fuori. Ma il compito della formazione è – innanzitutto- quello di creare appartenenze, far maturare persone e personalità capaci di sentirsi dentro una cultura, un territorio, un tempo presente che attribuisce senso al passato e al futuro.
D’altra parte, come si fa a pensare di poter comprendere la storia nazionale, la realtà e l’immaginario di quel luogo in cui si vive, se non si annoda tutto questo alla Storia europea, e per noi, qui, in Italia, qui, a Sud, a quel crocevia di lingue e di culture, di modi di pensare e di guardare il mondo, che è il Mediterraneo. Come può svilupparsi una cittadinanza consapevole se non si acquisiscono le strutture e gli strumenti per comprendere una civiltà nel suo progresso, nelle sue coerenze, nelle sue contraddizioni. Non è bastata e non potrà bastare mai una moneta per costruire una comunità. Un comunità si può costruire su un progetto di esistenze, per le esistenze. La Storia e la cronaca drammatica del Mediterraneo, che si ripete come una maledizione, riguarda l’Europa, inevitabilmente. Quindi occorre saper comprendere quello che accade perché quegli accadimenti riguardano i nostri destini; occorre un pensiero capace di scrutare gli scenari sociali, politici, economici, di indagare e interpretare i fatti, i fenomeni, le storie. Senza conoscenza, una cittadinanza consapevole, attiva, diventa impossibile. Senza un sentimento comune di appartenenza non si potrà costruire un’Europa della solidarietà, della cooperazione, dello sviluppo, della democrazia, del progresso, dell’integrazione, della libera ricerca e del libero lavoro. Essere comunità significa mettere in comune, in comunione.
Il senso e il sentimento di appartenenza sono quasi sempre una conseguenza di una condizione naturale o di una condizione culturale, o dell’una e dell’altra che si richiamano reciprocamente: si sente di appartenere a qualcosa, a qualcuno, oppure si comprende di appartenere, e spesso si comprende perché un sentimento, un’emozione, sospinge verso la comprensione.
Ci sono millenni di storia che annodano il Mediterraneo all’Europa, per cui la dimensione nella quale diventa indispensabile agire dev’essere necessariamente quella culturale: si deve penetrare nel sistema che mette in relazione lingue, diritti, doveri, religioni, tradizioni, politiche, economie, mercati, identità, espressioni di pensiero, visioni del mondo, immaginari collettivi, processi formativi, riconoscendo le potenzialità sia delle loro specificità che della loro integrazione. Una cultura dell’Europa, per l’ Europa, non può che configurarsi come la sintesi virtuosa di una integrazione di connotazioni culturali.
Dice Predrag Matvejevic che non si costruisce l’Europa senza riferimenti al Mediterraneo. Un’Europa separata dalla culla dell’Europa. E’ come se si volesse formare una persona privandola della sua infanzia e adolescenza.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di lunedì 21 ottobre 2013]
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L’insopprimibile necessità di trovare nuove certezze
Se si escludono alcune certezze che ci ha dato e continua a darci la scienza, tutto il resto – ogni sfera della nostra esistenza, qualsiasi contesto del sociale – è attraversato da una costante, forte vibrazione di incertezza.
Fino a un certo punto della Storia, abbiamo avuto la possibilità di riconoscere bandiere, di individuare confini, di riferirci a idee, ideologie, valori, dottrine, teorie, sistemi; fino a un certo punto siamo stati in grado non di configurarci il futuro, certamente, ma comunque di formulare ipotesi intorno ad esso, di delineare prospettive, di intuire quello che sarebbe accaduto domani o domani l’altro, di investire il tempo e le energie per l’elaborazione di un progetto in quanto le situazioni intorno a noi erano tali da lasciarci pensare di poterlo realizzare.
Fino a un certo punto ci si è potuti affidare ad una continuità dei processi che riguardavano per esempio la politica, l’economia, le forme, le modalità, i canali di accesso al lavoro, i sistemi del comunicare, le prassi quotidiane, le espressioni della cultura e della formazione.
Si poteva contare su una certa durata delle cose: se non per decenni, almeno per qualche anno, in modo da poterne strutturare la conoscenza, consolidare la competenza, con la consapevolezza che quella conoscenza, quella competenza, si sarebbe potuta approfondire, migliorare, applicare in altre circostanze.
Fino a un certo punto è stato possibile verificare la loro compatibilità con le proprie esigenze.
Da molto tempo, ormai, non si può più fare. L’incertezza è diventata una realtà con la quale confrontarsi costantemente: ogni giorno, ogni minuto.
Le cose cambiano, si trasformano, con una rapidità impressionante.
C’è una bellezza in tutto questo, indubbiamente; c’è il fascino del costante ripensare i fatti e le storie che ci riguardano e quindi un costante ripensarsi; c’è la seduzione che esercitano su di noi i nuovi eventi, le piccole e grandi avventure; c’è la curiosità per le strade mai percorse, l’attrazione per l’incognita, per l’esplorazione di nuovi territori.
Ma esiste anche un rischio in tutto questo.
Il rischio del disorientamento, per esempio, che attraversa qualsiasi dimensione dell’esistenza, quelle con cui si impatta continuamente: un disorientamento che coinvolge tutti, che condiziona il nostro pensiero e conseguentemente le nostre scelte.
Non c’è bisogno di sfogliare il catalogo delle paure postmoderne compilato da Zigmunt Bauman nel suo saggio La società dell’incertezza per rendersi conto delle condizioni di insicurezza con cui ci si ritrova a convivere ininterrottamente. Ma forse conviene ricordare la sua affermazione secondo la quale la versione postmoderna dell’incertezza non si presenta come un semplice fastidio temporaneo che può essere mitigato o risolto; “il mondo postmoderno si sta preparando a vivere una condizione di incertezza permanente e irresolubile”. Sono passati quasi quindici anni da quando Bauman scriveva queste cose. Ci siamo, dunque.
Diciamo: l’incertezza della situazione politica, intendendo per politica una realtà che offre garanzie di cittadinanza, di benessere diffuso, sociale. Mentre pronunciamo questa espressione, se non siamo direttamente coinvolti nelle vicende della politica, ci sembra che quella incertezza non ci riguardi, che sia lontana da noi, che non possa costituire un elemento di condizionamento della nostra vita. Poi, a volte nel giro di poche ore, ci si rende conto che le sue conseguenze si rovesciano addosso a ciascuno, che si trasformano in condizioni da sopportare, che cambiano la nostra visione del Paese, le nostre aspettative, le nostre speranze. Così, il crollo delle aspettative, delle speranze, provoca disorientamento, ci costringe a procedere alla cieca, almeno per un tratto di strada. Se poi quella situazione politica incerta si protrae, il tratto da percorrere alla cieca si allunga e il disorientamento aumenta fino a che uno non si ritrova in un Paese che non riconosce.
Diciamo: l’incertezza dei mercati. Anche in questo caso può sembrare, così, a prima impressione, una frase quasi astratta che non incide sui nostri giorni.
Poi, però, chi con il lavoro sudato di una vita ha messo da parte qualche centesimo per la bisogna, si rende conto che quell’astrazione si carica di una drammatica concretezza.
Ma il concetto che, probabilmente più di ogni altro, sembra avere un significato vaporoso, quasi inconsistente, è quello che viene sintetizzato con l’espressione dell’incertezza del futuro. E’ l’incertezza che fa più male, anche se a fare più male dovrebbe essere l’altra che riguarda l’incertezza del presente.
Perché il futuro nessuno può conoscerlo, nessuno sa come potrà essere; sul futuro nessuno può farsi dei conti, nemmeno per percorsi a breve termine. C’è chi pensa che in fondo noi non andiamo da nessuna parte, ma che da qualche parte siamo soltanto trascinati. Al futuro si dovrebbe non pensare perché molto spesso non si fa altro che distogliere dal presente energie di pensiero e di sentimento. Si dovrebbe saper riuscire a cogliere le occasioni e le opportunità del presente, sperando che possano proiettarsi nel futuro. Così forse si dovrebbe di tanto in tanto ripassare quello che dice il coro alla fine delle “Baccanti” di Euripide: le cose che ci aspettiamo non si compiono, per quelle inattese un dio trova la via.
Eppure l’idea di futuro è l’unica che dà motivazione o giustificazione al presente: al pensare e all’agire nel tempo che si vive.
Però i pensieri e le azioni del tempo che viviamo sono assediati e insidiati dall’incertezza.
Allora possiamo rassegnarci e subire l’assedio oppure cercare di romperlo rifondando antiche certezze o fondandone altre attraverso nuove idee, una più marcata flessibilità, una adattabilità che consenta di governare l’instabilità, le turbolenze, una forma di creatività ancora sconosciuta, una capacità di riprogettazione, anche una prudente intraprendenza nell’individuazione delle strade da percorrere. Senza alcuna pretesa di certezze ma confidando un poco in se stessi, molto negli altri, e in fondo anche nella buona sorte.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di lunedì 28 ottobre 2013]
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Memoria e futuro: la domanda del Papa
Ci sono giorni – ci sono tanti giorni – in cui non si fa in tempo a leggere i giornali. Si sfogliano rapidamente, a sera tardi, si strappano le pagine con gli articoli che hanno necessità di una lettura attenta, di una riflessione approfondita, e si mettono da parte.
Avevo messo da parte le tre pagine di “Repubblica” con il dialogo fra Papa Francesco e Eugenio Scalfari: una fitta trama di idee, di riferimenti, un confronto su grandi temi e su problemi quotidiani, che già nella prima affermazione di Francesco pone una questione fondamentale, che da sola esprime la sintesi di quelle che sono le condizioni sulle quali si fonda una civiltà, in assenza delle quali ogni civiltà non riesce neppure a sopravvivere.
Sostiene Francesco, dunque, che i più gravi dei mali che affliggono il mondo in questi anni sono la disoccupazione dei giovani e la solitudine in cui vengono lasciati i vecchi. I vecchi hanno bisogno di cure e di compagnia; i giovani di lavoro e di speranza, ma non hanno né l’uno né l’altro, e il guaio è che non li cercano più. Sono stati schiacciati sul presente. Senza memoria del passato e senza desiderio di proiettarsi nel futuro. E’ possibile continuare così, domanda Francesco a Scalfari, a se stesso, a tutti.
In fondo è quello che ognuno si chiede continuamente: è possibile continuare così? E ammesso che sia possibile, per quale scopo, a quale prezzo, per quanto tempo, con quanta depressione, con quanto avvilimento.
Le parole del Papa mostrano nitidamente le condizioni che hanno portato questa civiltà fino alla soglia della decadenza: l’assenza di memoria, l’assenza di futuro, un presente sfilacciato, senza legami con il passato, senza tensione di prospettive.
Quando Francesco si chiede “è possibile continuare così?”, manifesta l’urgenza dell’inderogabile necessità di maturare una consapevolezza, di trasformare le nostre interpretazioni dell’esistenza, di riscoprire la differenza tra l’essenziale e il superfluo, tra quello che conta di più e quello che conta di meno, oppure niente.
La domanda è un’esortazione al mutamento dei modi di pensare e di fare nei confronti dei giovani e dei vecchi. I due riferimenti che rappresentano concretamente una condizione di precarietà e di abbandono, si costituiscono come espressioni simboliche di una civiltà che ha relegato la memoria e oscurato i panorami di futuro, che ha cancellato dai suoi codici il sentimento di riconoscenza e quello di speranza. Ci siamo appiattiti sul presente, dice Francesco. Ci ritroviamo ignavi, indolenti, indifferenti.
E’ possibile continuare così? Il modo in cui si risponderà a questa domanda implica una scelta radicale che determinerà la sorte della civiltà in cui viviamo.
Si potrà rispondere sì: che si può andare avanti così. E’ la risposta più semplice, in fondo. Si può andare avanti così, appiattendosi sempre di più sul presente, prendendo le cose come sono. Ma si deve avere la consapevolezza che il procedere in questo modo produrrà inevitabilmente l’effetto di uno sgretolamento sociale.
Allora ci si domanda chi può volere questo. A chi mai gioverebbe il disastro.
Certamente a nessuno. Nessuno potrà trarne un vantaggio. Non c’è benessere individuale se non nel contesto di un benessere generale, se non in una condizione sociale che, almeno, azzera o riduce al minimo il bisogno.
La disoccupazione e la solitudine urlano un bisogno che non si può, non si deve ignorare.
La risposta certamente più difficile, complessa, che implica e impone l’assunzione di una responsabilità, è questa: no, non si può andare avanti così. Si deve cambiare il corso del fiume melmoso del disagio, e bisogna anche farlo in fretta. Bisogna che si faccia tutti insieme, perché tutti insieme ci si muove nelle situazioni di emergenza. Deve farlo la politica, indubbiamente. La politica esiste proprio per rimuovere il disagio e promuovere il benessere di tutti e di ciascuno. Deve farlo la scuola, assicurando una formazione fondata su conoscenze e competenze che consentano di comprendere e governare le dinamiche del sociale e quindi del lavoro.
Deve farlo la Chiesa. Quando nel dialogo Papa Francesco sostiene che questo è il problema più urgente e più drammatico che la Chiesa ha di fronte a sé, Scalfari replica che è un problema soprattutto politico ed economico, che riguarda gli Stati, i governi, i partiti, le associazioni sindacali.
Francesco ribadisce che riguarda anche la Chiesa, “anzi soprattutto la Chiesa perché questa situazione non ferisce solo i corpi ma anche le anime”.
Ha ragione. La disoccupazione dei giovani, la disoccupazione in generale, la solitudine dei vecchi, ferisce l’anima, il pensiero, la percezione di sé, la stima di sé, la dignità, l’amor proprio, la personalità nella sua natura, in ogni sua espressione. Poi, semplicemente, se la Chiesa è fatta di uomini, non c’è uomo che non deve sentire un morso alla coscienza, che non deve sentirsi coinvolto nell’impegno di una soluzione. La Chiesa ha anche – o soprattutto?- una funzione sociale, e quindi non può evitare di confrontarsi con un problema che affonda le radici esclusivamente nel sociale.
Il futuro e la memoria, dunque. Una civiltà si costruisce e si sviluppa sulla relazione e sulla reciprocità tra questi due termini. Di nessuno dei due può privarsi. Quando se ne priva diventa una civiltà mutilata. La solitudine dei vecchi rappresenta la relegazione della memoria; la negazione del lavoro e quindi della realizzazione dei giovani rappresenta la dissipazione delle energie e quindi l’inceppamento dello sviluppo, della crescita.
Quando si cerca di individuare quale o quali settori si dovrebbero occupare della soluzione di questi problemi, forse si commette l’errore metodologico di non considerare che si tratta di condizioni che riguardano, innanzitutto, la sfera della coscienza dell’appartenere ad un tempo, per cui chiunque senta l’appartenenza al tempo che vive deve avvertire la necessità di preoccuparsene e di occuparsene.
Perché è chiaro che alla domanda di Francesco “ è possibile continuare così”, ci può essere una risposta sola, ed è una risposta che richiama e reclama la partecipazione ad un’azione comune, serrata, che non deve darsi tregua, se si vuole che questa civiltà non si inabissi in una fangosa miseria.
[Nuovo Quotidiano di Puglia di lunedì 4 novembre 2013]
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Il vero progresso crea uguaglianza
Talvolta, mentre ci si guarda intorno e si riflette sui fatti che accadono, sulle storie che attraversano il presente, si viene sorpresi dal sospetto che alcuni concetti che si ritengono acquisiti profondamente, in realtà nascondano tra i loro significati ambiguità e indeterminatezze che in qualche maniera insidiano convincimenti che sembrano granitici.
Poi quei sospetti derivanti dall’osservazione, o da una percezione vaga, trovano una conferma – spesso anche indesiderata – in opinioni autorevoli che ritornano alla memoria.
Può essere il caso del sospetto che sopraggiunge quando si mette in relazione il concetto di progresso con il senso di tanti eventi, situazioni, circostanze della contemporaneità, per esempio.
Allora si pensa a quello che Zygmunt Bauman dice nelle prime pagine del suo Modus vivendi, a quel progresso che da promessa di felicità universalmente condivisa si è trasformato in minaccia di un cambiamento inesorabile e ineludibile che invece di promettere pace e sollievo non preannuncia altro che crisi e affanni continui, senza un attimo di tregua. Il progresso è diventato una sorta di “gioco delle sedie” senza fine e senza sosta, dice, “in cui un momento di distrazione si traduce in sconfitta irreversibile ed esclusione irrevocabile. Invece di grandi aspettative di sogni d’oro, il ‘progresso’ evoca un’insonnia piena di incubi di ‘essere lasciati indietro’, di perdere il treno, o di cadere dal finestrino di un veicolo che accelera in fretta”.
Nessuno può avere dubbi sul fatto che il progresso della scienza, della tecnica, della tecnologia, della medicina, della fisica, consenta una qualità della vita che è davvero imparagonabile anche solo con quella di cinquant’anni fa.
Ma il problema è determinato dal fatto che il progresso ha lasciato indietro intere zone del mondo e la loro gente, mentre in altre zone dilaga il superfluo. Non solo: anche nella parte di mondo in cui la condizione di progresso sconfina nell’eccedente, esiste una differenza fra chi ha e chi non ha la possibilità culturale ed economica di avvalersi delle situazioni e degli strumenti che il progresso mette a disposizione.
Se può sembrare ingenuo, semplicistico, naif, pensare che qualsiasi tipo di progresso dovrebbe innanzitutto promuovere e agevolare un’uguaglianza sociale, non abbiamo nessun timore di sembrare ingenui. Anzi, è un’ingenuità che consideriamo come un onore. Vogliamo essere ingenui e pensare e dire che se il progresso mette a disposizione un medicamento o uno strumento per curare, di quel farmaco, di quello strumento, deve poter trarre un beneficio chiunque: in qualsiasi parte del mondo, in qualsiasi angolo di un qualsiasi paese.
Se invece di creare uguaglianza, apre baratri di differenze, provoca o aggrava le forme di emarginazione, lascia indietro qualcuno, allora a nessuno può essere impedito di pensare che quel progresso tecnicamente perfetto è umanamente uno schifo.
Ingenuamente, semplicisticamente, uno si chiede: com’è che il progresso ci ha portati sulla Luna, ci induce a tentare di arrivare a Marte, ma non riesce a portare l’acqua dove non ce n’è, a costruire gli ospedali dove ci vogliono, le scuole dove ci vogliono. Si chiede se sia più complicato di un viaggio sulla Luna, se costi tanto di più da essere costretti a rinunciare.
Poi chi si chiede queste cose si sente un po’ meno ingenuo, un po’ meno sempliciotto quando legge che Bill Gates – che non è ingenuo né sempliciotto- in un’intervista ha detto che le cose importanti della vita sono quelle legate alla sopravvivenza e alla salute, soprattutto dei bambini; che il vaccino per la malaria è più importante della connettività mondiale; che nella gerarchia dei bisogni umani, i computer non sono, nei primi cinque posti.
Uno si sente meno ingenuo, meno anacronistico, quando nell’ultimo libro di Eugenio Scalfari – L’amore, la sfida, il destino– trova scritto che con il progredire delle tecnologie la mente è stata sempre più accantonata e ad essa è stato riservato un solo compito: la furbizia. “Non la conoscenza, non l’elaborazione dei sentimenti e non la sapienza e la saggezza. Niente di tutto questo, ma unicamente la furbizia, inventando i modi per ingannare il prossimo e garantirsi un vantaggio”.
Lasciando indietro il prossimo, quindi. Emarginandolo.
Allora i dubbi sul concetto di progresso diventano sempre più legittimi.
Allora si ripresenta – nitida e grandiosa- quella figura dell’angelo della storia di Paul Klee che Walter Benjamin interpreta magistralmente in un frammento di Angelus Novus: metafora di questo tempo di crisi, di incertezze, di mutazioni vorticose.
L’angelo della storia sembra che si allontani da qualcosa verso cui rivolge lo sguardo: ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese, il viso rivolto al passato. Un cumulo immenso di rovine è rovesciato ai suoi piedi. Tra queste rovine egli vorrebbe intrattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto, dice Benjamin. Ma una tempesta che spira dal paradiso si è impigliata nelle sue ali. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro. “ Ciò che chiamiamo il progresso è questa tempesta”.
Con questa tempesta ci ritroviamo dunque a fare i conti: con le contraddizioni, le deformazioni, le incoerenze, con le cose che ci dona e quelle che ci nega.
Nel progresso ciascuno di noi vorrebbe riporre una fiducia incondizionata e smisurata. Ma ancora, in questo tempo, in questa civiltà delle grandi conquiste, migliaia e migliaia di persone al giorno muoiono di fame, o per malattie che si potrebbero curare con molto poco, o per le guerre che si accendono da qualche parte con una frequenza stupefacente; ancora a 50 milioni di bambini si nega l’istruzione.
Di quale progresso parliamo, dunque, si chiede di nuovo l’ingenuo, il sempliciotto. Di quello che riguarda le funzioni degli strumenti, delle macchine, degli elettrodomestici? Di quello che ogni giorno tira fuori un computer più sofisticato, un telefono con innumerevoli inutili funzioni, un’auto più accessoriata? Di quello che riguarda la perfezione delle armi, le bombe intelligenti, i missili supersonici? Dovremmo forse esaltarci per questo progresso? O dovremmo chiederci se esiste anche un progresso della dimensione dell’umano, della sfera della coscienza?
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di lunedì 11 novembre 2013]
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Più creatività per affrontare il futuro
Si dice – e quello che si dice è vero – che la formazione costituisca la condizione essenziale per risolvere i problemi di una società e per garantire ad essa uno sviluppo: per risolvere le crisi e per creare occupazione, per esempio. Lo dicono tutti: politici, economisti, sociologi. Tutti. Gli uomini – e le donne- di scuola non lo dicono perché lo danno per scontato, perché per loro è un pensiero spontaneo, un concetto connaturato.
Poi, certo, in base ai tempi e alla temperie culturale, bisogna calibrare il concetto, scegliere percorsi che consentano una formazione aderente non solo alle fisionomie culturali del presente ma anche (o soprattutto) agli scenari che si profilano all’orizzonte, che non sempre è nitido, che anzi, a volte, come adesso, è fosco.
Probabilmente non sarebbe pedagogicamente corretto investire ogni risorsa tenendo conto esclusivamente delle situazioni che si presentano come contingenti, meno che mai di quelle che hanno il carattere delle emergenze per le quali occorre la formazione già acquisita, la competenza che sia in grado di risolvere i problemi più o meno immediatamente. Probabilmente occorre chiedersi di quale formazione avrà bisogno fra quindici anni chi adesso ne ha dieci, o fra dieci chi adesso ne ha quindici, e progettare i processi formativi in conseguenza di quei bisogni. Forse guardarsi intorno non è sufficiente. Forse è indispensabile riuscire a vedere oltre l’intorno.
Già. Di quale formazione ci sarà bisogno in un futuro più o meno prossimo: quando le competenze tecnologiche, che in questo tempo sembrano necessarie, saranno di gran lunga superate perché cambieranno inevitabilmente le modalità di impiego e gli strumenti, ma soprattutto i codici, i linguaggi; quando il mercato del lavoro si sarà completamente trasformato; quando anche le forme dell’economia si saranno trasformate; quando sarà indispensabile conoscere altre lingue; quando anche il rapporto tra le persone e la relazione con il lontano e con il vicino avverranno attraverso canali diversi da quelli con cui avvengono ora; quando saranno cambiate le logiche della politica, le forme di governo e di partecipazione, le regole e le norme sulle quali si strutturano le convivenze.
Risposte certe non ce ne ha nessuno, e chi eventualmente dicesse di averne sarebbe un impostore. Forse si può soltanto ipotizzare che ci sarà bisogno di una formazione capace di rigenerarsi continuamente, di un pensiero che sia in grado di rimodularsi in base alle situazioni culturali, politiche, sociali, di una disponibilità al continuo confronto con se stessi, con gli altri, con il nuovo, l’incognito, l’inatteso.
Quasi vent’anni fa, Lanfranco Rosati riprendeva un concetto di Ascani secondo cui i saperi settoriali diventano un ostacolo quando i contesti lavorativi subiscono cambiamenti rapidi e profondi, quando la mobilità geografica diventa una possibilità reale, quando l’occupazione diventa un progetto da costruire e da inventare e non una realtà da attendere, quando il benessere diventa una condizione precaria e si fanno pressanti le nuove povertà, quando la marginalità sociale si diffonde e solleva l’interrogativo del senso dell’esistenza, quando nella formazione – anche professionale – si diffonde una domanda di nuova qualità della vita, di nuovi modelli di esistenza, di nuova cittadinanza sociale.
In vent’anni le condizioni cui si riferiva Ascani sono diventate strutturali. I contesti di lavoro richiedono e pretendono una disponibilità alla riconfigurazione, alla riconversione, al riadattamento, anche alla mobilità geografica talvolta spontanea, altre volte indotta dalla mancanza o dalla scarsità delle possibilità, delle occasioni. Non solo: il concetto di precarietà è penetrato, purtroppo, nella dimensione esistenziale e il lavoro molto spesso occorre costruirselo giorno dopo giorno con coraggio e fantasia. I territori delle povertà si sono allargati. Le figure della povertà si sono ingigantite. Le ombre del disagio si sono fatte più lunghe, incombenti. ( Ci si dice cambierà. Certo che deve cambiare. Ma bisogna che ciascuno faccia qualcosa perché cambino le cose, molte cose). Sono mutate o stanno mutando le percezioni e i significati di benessere, di qualità della vita. Forse un po’ si sta diradando tutta quella fumea di superficialità che negli anni Ottanta e Novanta ci ha annebbiato la vista.
Con questi mutamenti la formazione deve confrontarsi. Oltre che con una nuova e più ampia prospettiva che forse non può più limitarsi agli spazi sociali e culturali dell’Europa. Si deve peraltro prendere atto che l’integrazione delle culture deve superare gli ambiti delle teorie per farsi prassi quotidiana, perché si è fatta prassi quotidiana per le strade di ogni città, in molti luoghi di lavoro, attraverso l’incontro dei linguaggi, delle storie, delle esperienze.
Ma poi, e forse innanzitutto, non si può più fare a meno di pretendere una formazione sostanziale: apprendimenti che hanno sostanza, che hanno consistenza, durata nel tempo, che siano applicabili in contesti e circostanze diversi, che riescano a rispondere alle domande complesse che provengono dalle realtà del lavoro e dell’esistenza di cui il lavoro fa parte.
In questo, più che in ogni altro tempo, le conoscenze e le competenze diventano rapidamente obsolete. Allora diventa indispensabile una formazione che consenta l’innesto di altre conoscenze, di nuove esperienze di apprendimento. Quando si parla di apprendimento lungo tutto l’arco della vita, in fondo non si fa altro che determinare una coincidenza tra la conoscenza e l’esistenza. Che poi è una cosa antica, forse anche un fatto naturale. Non c’è un solo istante della vita in cui non si apprende, si sa. Ma, probabilmente, al di qua di quella che è la conoscenza delle cose ultime, definitive, che appartengono alla profondità dell’essere e della coscienza, l’esigenza che si avverte riguarda una consapevolezza al cambiamento, alla flessibilità di pensiero, a quella che qualcuno chiama con il vecchio nome di creatività. Il creare l’inesistente dall’esistente, il nuovo dal vecchio, o il trasformare, il trasfigurare, il trasmutare, il riformare, il rifondare il sapere. Di questa creatività oggi abbiamo bisogno. Di questa avremo sempre più bisogno domani, domani l’altro.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia di lunedì 18 novembre 2013]
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Risposte ai giovani che cercano lavoro
Non è una legge naturale e neppure una legge culturale che le generazioni che vengono si ritrovino in condizioni peggiori delle generazioni che vanno. Le leggi naturali, culturali, economiche, sociali, politiche anche, dicono solitamente ed esattamente il contrario: dicono che le generazioni che vanno lasciano a quelle che vengono una eredità di progresso.
Un esempio: nel Novecento l’Europa ha vissuto due guerre tremende, ha subito dittature devastanti, ma le generazioni che hanno attraversato le guerre, che hanno mangiato miseria, che sono cresciute sugli argini frananti, a quelle che giungevano dopo di loro hanno lasciato almeno tre cose fondamentali, essenziali: la libertà, la democrazia, il benessere.
Le generazioni che sono venute, delle tre cose sono riuscite a mantenere le prime due; il benessere, invece, in parte se lo sono già giocato, quello che resta se lo stanno giocando.
Fregandosene di quello che sarà dopo, di come sarà dopo. Vale a dire: fregandosene dei figli e dei figli dei figli, di come stanno, di come staranno.
In eredità non lasciamo niente: abbiamo dilapidato. Anzi, lasciamo debiti. Chi nasce oggi dovrà vivere e lavorare – se ci riesce – per pagare il debito pesante che si ritrova nella culla.
In eredità lasciamo precarietà, disoccupazione, incertezze del presente, incertezze del futuro, valori futili, effimeri, paure, e paesaggi deformati, e nemmeno un significato sostanziale dell’esistere.
Stiamo lasciando a quelli che già ci sono, a quelli che verranno, l’idea maligna che non serve la cultura, che non serve la formazione, che quello che conta è far denaro in fretta, senza tanti scrupoli, senza tanto impegno; abbiamo relegato in un dizionario di arcaismi parole come responsabilità, come dovere, oppure espressioni come essere con l’altro, essere per l’altro.
Soprattutto lasciamo in eredità esempi e modelli negativi, la confusione dei termini e dei concetti di finzione e realtà, la convinzione che l’importante sia apparire, l’attrazione per i cocci di bottiglia luccicanti.
Per accumulare tutta questa eredità ci abbiamo messo tre decenni.
Tre decenni di spensierata superficialità. Senza domandarsi mai quale corrente serpeggiasse sotto la superficie calma del mare. Oppure domandandoselo in segreto. Perché a quelli che esprimevano a voce alta la domanda, si affibbiava l’ingiuria di iettatore, menagramo, Cassandra invasata.
Anche ora come ora, che non c’è bisogno più nemmeno di guardarsi intorno per capire qual è la condizione in cui ci si ritrova, anche ora come ora se in un capannello qualcuno si permette di dire che, insomma, la situazione non è bella, che ancora non si capisce quand’è che comincerà la ripresa, la crescita,
subito viene accusato quantomeno di pessimismo cronico.
Non è vero, però. Quello che sembra pessimismo è il fantasma buono del realismo che abbiamo soffocato nei trent’anni di lungo carnevale, e che ritorna non per inquietarci ma per avvertirci di cambiare i modi di pensare e i modi di fare, se non vogliamo che questa società diventi un deserto, se non vogliamo lasciare soltanto il deserto.
Il fantasma buono dice anche che bisogna sbrigarsi, e che c’è una cosa dalla quale per mille ragioni e per mille sentimenti si deve necessariamente cominciare.
Il fantasma buono del realismo dice che bisogna cominciare dall’occupazione.
Costantemente il giornale che state leggendo si è occupato di questo argomento e continuerà ad occuparsene, sicuramente, nella consapevolezza che è il lavoro che consente non solo la dignità e il benessere della persona, ma la ripresa, la crescita, il progresso, lo sviluppo, l’energia, la cultura di un Paese.
Allora bisogna sconfiggere il drago della disoccupazione, in ogni settore, con una programmazione di interventi di brevissimo e medio termine.
Probabilmente, oggi, in Italia, ogni cittadino domanda e si aspetta questo: ogni cittadino di buon senso, chiunque abbia a cuore i destini individuali e collettivi.
Ogni cittadino di buon senso sa bene che non ci sono alternative, che non si può più perdere tempo, che non ha più nemmeno molto senso stare ad indagare quali siano state le cause che hanno determinato una situazione ormai insostenibile. Avverte fortemente l’urgenza di un progetto complessivo prima di risanamento e poi di potenziamento delle possibilità e delle opportunità di lavoro.
Sa bene che è soltanto – o comunque prevalentemente – dalle soluzioni che sapremo trovare – inventarci – che dipenderà la sorte di tutti e quella di ciascuno.
Si dirà che ogni investimento da qualche parte richiede il risparmio da un’altra. Certo. Ma sarebbe sufficiente chiedere ad ogni cittadino di buon senso di compilare un catalogo degli sprechi e dei privilegi su cui risparmiare per investire altrimenti.
Tanto nei piccoli quanto nei grandi contesti.
E’ convincimento alquanto radicato e diffuso che la volontà aguzza l’ingegno.
Qualche riga sopra si diceva che ci sono stati anni – decenni – di più o meno consapevole spensieratezza. Ma adesso è arrivato il tempo della riflessione, della ponderatezza. Anche della saggezza.
La saggezza impone di trovare una soluzione al problema dell’occupazione. Per tutti i motivi che i politici, gli economisti, gli specialisti del settore conoscono perfettamente. Ma anche perché al ragazzo, alla ragazza, che ogni mattina va a scuola e che si domanda e ti domanda per quale motivo deve impegnarsi, deve studiare, una risposta bisogna per forza darla: una risposta concreta, onesta. Indubbiamente, fino a un certo punto, fino a una certa età, può essere anche giusto e sufficiente dire che ci si impegna e si studia innanzitutto per se stessi. Ma dopo quel certo punto, quella certa età, si devono avere altre risposte, si deve poter dire che quello che ha studiato, quello che studierà, servirà anche agli altri.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di lunedì 25 novembre 2013]
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Camminare a occhi aperti nella “libreria” della vita
C’è un fascino a volte anche indecifrabile nelle cose che passano rapidamente. Forse perché in qualche modo sono metafora dell’esistenza; forse perché lasciano il posto ad altre cose, a nuove esperienze, che magari ci attraggono di più, che magari ci coinvolgono di più; forse perché in fondo, anche inconsciamente, non ci fa piacere che quello che l’uomo costruisce duri più a lungo del pensiero che lo ha generato, della mano che lo ha composto.
Passa tutto davvero molto in fretta, spesso senza nemmeno lasciare traccia, oppure lasciandone una così, indeterminata, confusa.
Le cose della cultura non fanno differenza. Passano rapidamente, come tutte le altre. Però in questo tempo passano assai più rapidamente che in qualsiasi altro tempo.
Si pubblicano libri che per una settimana esplodono in un successo planetario. Poi, dopo qualche mese, a malapena ricordiamo chi sia l’autore. Accade la stessa cosa per un film, un disco. Sembra che ogni cosa si consumi, che bruci in un fuoco di novità costantemente alimentato.
C’è un fascino in questo, certo. Ma se pensiamo alla funzione di energia collettiva che le espressioni della cultura assumono in un contesto sociale, allora viene il sospetto che in questo tempo manchino sistemi che si costituiscano come riferimento.
Si insinua il sospetto che la condizione che caratterizza la produzione e il consumo culturale sia quella della provvisorietà. Coerentemente con tutto il resto.
Se rivolgo a me stesso la domanda su quale sia in questi anni la corrente letteraria o filosofica, o sociologica, o pedagogica, o psicologica, o antropologica, che rispetto alle altre assume a livello sociale una più significativa rilevanza, ho molte difficoltà a trovare una risposta.
Quando l’ho chiesto ad altri che hanno molte e più approfondite conoscenze di quelle che ho io rispetto alla letteratura e alla pedagogia, per esempio, ho riscontrato la stessa difficoltà nella risposta.
Si dice: sono cambiato i sistemi, sono cambiati i linguaggi, sono cambiati le modalità e gli strumenti con cui vengono proposti i sistemi, vengono veicolati i linguaggi.
E’ vero. Ma la domanda ritorna: quale sistema, quale linguaggio, ha maggiore rilevanza; quale incide più decisamente nell’orientamento dei costumi, nella circolazione delle idee, nella conformazione dei comportamenti.
Se si volesse uscire dall’impasse, si potrebbe dire che la pluralità di forme, di manifestazioni, di teorie, con le quali si ci confronta, impedisce di trovarne una, o due, che rappresentino un modello.
Poi si potrebbe ripetere che anche questo è bello. Davvero. Molte idee e molte parole sono più belle di poche idee e di poche parole. Molti esemplari, molti modelli, sono più belli di pochi esemplari, pochi modelli. La pluralità argina l’egemonia, favorisce il confronto. Bello è un termine vago. Ma qui sta per attraente, e anche per opportuno, per favorevole, conveniente.
La predominanza massiccia di una teoria e di un metodo nell’educazione, nella formazione, nell’istruzione, per esempio, solitamente in passato ha prodotto distorsioni. In questo tempo, la molteplicità di teorie e di metodi nelle scienze umane, solitamente produce profili di cultura meglio articolati, formae mentis flessibili, creative, armoniose, intelligenze capaci di aprirsi al nuovo, all’altro, di andare oltre l’ordinario, l’acquisito.
Resta però il fatto che ogni espressione della cultura dura poco: non riesce a strutturarsi, a consolidarsi. Una proposta viene quasi immediatamente sostituita da un’altra, un’interpretazione da una interpretazione diversa e spesso contraria, una teoria da un’altra teoria.
Ma se, indubbiamente, c’è il rischio che la conoscenza rimanga sempre superficiale, altrettanto indubbiamente c’è il vantaggio di una possibilità di scegliere quale espressione abbia una più coerente relazione con la finalità, il bisogno, oppure soltanto con il desiderio. Si può scegliere quale strada percorrere, si può scegliere di percorrerne più di una, se farlo lentamente o in fretta. Si può scegliere in quale punto indugiare, che cosa approfondire.
Ecco, probabilmente la bellezza sta tutta nella possibilità di scegliere nella molteplicità.
Se si entra in una libreria con centinaia di volumi anche disordinatamente lasciati sui banconi, sugli scaffali, in un primo momento si avverte un senso di disorientamento. Ma subito dopo si avverte il piacere della scoperta inaspettata. Forse è proprio una libreria in cui tutti i libri sono confusi, senza le etichette che indicano il genere attaccate agli scaffali, la rappresentazione più efficace delle forme di sapere della contemporaneità. I generi si mescolano, si contaminano, si riproducono, e allora per scegliere c’è bisogno di intuire, e dopo aver intuito di verificare. E’ inevitabile che l’intuizione a volte sia ingannevole. Ma in ogni caso si è conosciuto qualcosa di cui non si avrebbe avuto conoscenza.
Andare ad occhi chiusi. Ecco, questo non possiamo permettercelo più. Non abbiamo più la possibilità di fare le scelte, come si dice, ad occhi chiusi, presumendo di conoscere perfettamente, per lunga consuetudine, quello che scegliamo. Anche perché andare ad occhi chiusi verso qualsiasi luogo della vita e quindi verso qualsiasi luogo della cultura, non di rado fa sbattere la testa contro qualche muro che qualcuno ha alzato solo un istante prima. Ripetere e ripetersi in esperienze senza rinnovarle e rinnovarsi, oltretutto annoia.
La cultura di questo tempo vuole occhi aperti. Con gli occhi aperti si vedono forme di sapere cangianti, variopinte, variegate, polivalenti, fascinose, continuamente in divenire, che proliferano, trasfigurano significanti, significati, simboli, che si protendono verso territori concettuali di frontiera o inesplorati, che si esprimono con grammatiche inedite.
A volte sono forme ambigue, sfuggenti; a volte fenomeni senza coesione, sfilacciati, anche effimeri.
Ma certamente un sapere fluido è preferibile ad un sapere codificato a tal punto da diventare un rigido vincolo del pensiero.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di lunedì 2 dicembre 2013]
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La solidarietà necessaria contro la povertà
A volte si ha l’impressione che sia tutto uno scherzo. Che quello che raccontano i giornali, che i resoconti di certe ricerche, provengano da una fantasia bizzarra, siano soltanto il prodotto di una fiction.
Per esempio si pensa che siano una burla i dati forniti da Eurostat, relativi al 2012: quelli secondo i quali il 29,9% della popolazione italiana è a rischio di esclusione sociale o di povertà.
Si stenta a crederci. Poi qualcuno ti dice che invece no, la notizia è vera, la cosa è seria.
Ma come seria, allora ci si chiede. Ma se fino a poco tempo fa eravamo il Belpaese, se credevamo e crediamo di essere una potenza economica, com’è che cresce, si spande la povertà. Com’è che dilaga. Perché quasi il trenta per certo della popolazione corrisponde a oltre diciotto milioni di persone.
Com’è che si è arrivati a questa condizione, a questi numeri che fanno girare la testa. Che cosa si sta facendo, che cosa si è fatto in questi anni, in questi decenni, se nel 2008 le persone in difficoltà erano poco più del 25%, se nel 2011 sono diventate poco più del 28%, e poi sono cresciute ancora, se aumentano di anno in anno, di mese in mese, di giorno in giorno, che cosa si è fatto, che cosa non si è fatto, che cosa e dove si è sbagliato.
Si potrebbe dire che in Italia i poveri ci sono sempre stati. È vero. Ma poi ci hanno raccontato la storia del boom economico, del benessere diffuso, della crescita costante. Era falsa quella storia? Se era falsa per quale motivo ce l’hanno raccontata? Volevano allietarci e incantarci con una fiaba?
Ma no. Quella storia era vera: almeno in parte era vera. Allora, se era vera, per quali ragioni la storia a un certo punto è finita, per quali cause si è tornati indietro.
Certamente ci sono coloro che a queste domande possono rispondere con cognizione di causa. Forse, però, sono in pochi quelli che hanno cognizione di causa. I molti hanno cognizione dell’effetto, e l’effetto provoca lo sbalordimento e il sospetto che sia tutto uno scherzo. I molti si rifiutano di crederci, più o meno inconsciamente. Quando gli si ribadisce che è proprio tutto vero non li consola nemmeno sapere che si tratta di una situazione generale a livello europeo, a livello mondiale, che nell’eurozona c’è anche chi sta peggio di noi. Come la Grecia, che arriva al 34,6% di persone che si sporgono sul baratro dell’indigenza.
Si dice che il numero dei poveri è cresciuto perché è cambiata anche la loro fisionomia.
Non sono più soltanto quelli che per un motivo o per un altro non hanno un lavoro. Sono quelli che hanno un lavoro alcuni giorni sì e altri giorni no, i precari, i sottoccupati, i provvisori, gli stagionali, i giornalieri, che non possono affrontare il minimo imprevisto, non sono in grado di pagare le bollette.
Sono quelli che un’occupazione fissa ce l’hanno ma che con quello che guadagnano non arrivano neanche a metà mese, magari perché hanno qualcuno da mantenere, l’affitto da pagare.
Sono quelli che prendono una pensione da far piangere: più di sette milioni meno di mille euro al mese, e, tra questi, molti, moltissimi, si fermano al di sotto dei cinquecento.
Sono quelli che sono poveri e non lo dicono. Ci sono tanti motivi per cui non lo dicono. Uno di questi motivi si chiama dignità. Non è difficile essere poveri; difficile è diventarlo.
Che cosa si è fatto, allora. Forse non importa più. Importa che cosa si fa, che cosa si può fare.
Ecco: che cosa si può fare.
Nel ritaglio di un articolo di giornale a firma di Chiara Lodi Rizzini, trovo questa dichiarazione di Giovanni Battista Sgritta, che insegna alla Sapienza. Dice che il grande errore è stato non aggredire la povertà quando ancora si avevano le risorse per produrre una politica strutturale di contrasto alla povertà veramente efficace, mentre la riforma si impone oggi che lo Stato è sovraccarico di problemi e sempre più povero di risorse, sia finanziarie che umane.
Allora, se lo Stato, se gli Stati, risorse per investire in lavoro o in aumento delle retribuzioni non ne hanno, che cosa rimane da fare. D’istinto, senza neanche pensarci, la prima parola che viene in mente è solidarietà. Cioè altruismo, disponibilità ad essere e a fare per l’altro. In fondo è stata questa la condizione che ha tenuto la coesione e ha consentito lo sviluppo della civiltà contadina, per esempio. In quella civiltà i poveri erano davvero tanti. Ma in quella civiltà la solidarietà rappresentava un valore, si costituiva come un elemento di legame forte. Però, il mutamento delle condizioni richiede anche una ridefinizione del concetto di solidarietà, che non può essere più circoscritto alla relazione interpersonale, intra e interfamiliare, ma deve trasformarsi in solidarietà tra le classi sociali.
Non si tratta di un passaggio facile. Oltre a una disponibilità umana, sentimentale, richiede una tendenza, o tensione, ideologica, un habitus mentale, una formazione. Nella società della globalizzazione anche la solidarietà deve essere globale. E’ stato Papa Francesco a parlare di solidarietà globale.
Ci sono generazioni che non possono fare più niente, perché una formazione non si inventa, ha bisogno di strutturarsi sistematicamente, gradualmente.
Ci sono generazioni che possono fare molto, che possono fare tutto. Quelle che non possono fare più niente dovrebbero sentire la responsabilità di insegnare a quelle che possono fare tutto, quali sono gli errori che non bisogna ripetere. Non ci sono molte alternative, probabilmente e purtroppo. Almeno in questo tempo di emergenze.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di lunedì 9 dicembre 2013]
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Babbo Natale è credere e sperare nel futuro
Quando veniva il tempo di Natale, il mio maestro della scuola elementare, ci faceva ripetere, ogni anno, a memoria, una poesia di Marino Moretti che aveva dei versi che facevano così: “A tutti il vecchio dalla barba bianca/ porta qualcosa, qualche bella cosa/ e cammina e cammina senza posa/ e cammina e cammina e non si stanca.”
Noi, segretamente, ci lamentavamo di dover fare la stessa poesia tutti gli anni, mentre nelle altre classi imparavano filastrocche nuove e divertenti, in italiano, in dialetto, provavano nuove canzoni per il coro della festa il giorno prima che cominciasse la vacanza.
Noi, invece, festa niente. Noi quella poesia, con il commento che doveva rispondere alla domanda: quale bella cosa vuoi che ti porti il vecchio con la barba bianca.
Ogni anno la stessa domanda. Ogni anno risposte diverse.
Allora il maestro ci diceva: vedete, i vostri desideri cambiano di anno in anno, non volete mai la stessa cosa, anche se non avete avuto quello che avete chiesto un anno fa. Nessun desiderio sarà uguale a un altro vostro stesso desiderio, e mai sarà uguale a quello di un altro.
Così diceva, mentre nei corridoi si alzavano i canti del coro inframmezzati dalle filastrocche.
Il senso vero di quella poesia, di quelle parole, non lo si capisce bene, quando si è bambini. Quando si è bambini non si capisce bene chi sia davvero Babbo Natale. Lo si capisce dopo: un po’ di tempo dopo: quando s’induriscono le ossa, quando passa acqua sotto i ponti.
Un po’ di tempo dopo si capisce che quel vecchio con la barba bianca che cammina e cammina e non si stanca, è la speranza che i desideri di ciascuno, che quelli di tutti, si possano realizzare. Babbo Natale è la figura della speranza che non si stanca. Più si diventa grandi e più si crede che Babbo Natale esista veramente. Non si può fare a meno di credere. Non si può smettere di credere. Soprattutto se i desideri non sono banali. Soprattutto se non sono capricciosi. Si deve credere che domani sarà meglio di oggi; che quando si alza la bufera poi passi senza fare danni; che si possa ricostruire sulle macerie.
Questo Paese non sarebbe risorto dalle macerie se non avesse creduto a Babbo Natale. Non avrebbe creato benessere se non ci avesse creduto. Solo che a un certo punto ha fatto confusione. Ha pensato che Babbo Natale sia un vecchio buontempone che porta in giro i doni, indifferentemente, e così si è messo ad aspettare doni e molto spesso ha addirittura preteso di riceverli senza ricambiare.
Babbo Natale non è un buontempone. In cambio del dono della speranza vuole l’impegno di ciascuno e di tutti per dare concretezza alla speranza.
Certo, c’è chi può fare di più, chi può fare di meno. Chi non possa fare nulla non c’è. Non c’è un luogo, un contesto, un lavoro, una casa, un ospedale, una carcere, non c’è una scuola, una fabbrica, una strada, in cui qualcuno non possa fare e dare qualcosa per rendere concreta la speranza. Che non può essere soltanto una dimensione spirituale, una condizione intima. La speranza è anche un fatto sociale. Ha anche un livello che si può misurare con le scelte politiche, economiche. Esistono accadimenti della vita per i quali si può sperare soltanto in Dio o nel caso, a seconda di quello a cui si crede. Ne esistono altri per i quali non si può che confidare negli uomini. Allora ognuno di noi dovrebbe essere Babbo Natale, giovane o vecchio, con la barba bianca o senza barba, che però cammina cammina e non si stanca.
Le stagioni che stiamo vivendo esprimono un forte bisogno di concreta speranza negli uomini, nei loro progetti di sviluppo, nella loro responsabilità. L’orizzonte di speranza non può profilarsi vagamente in lontananza, ma deve farsi sempre più prossimo, più vicino, più chiaro. Anche perché ci sono creature che non hanno nemmeno desideri ma soltanto bisogni: essenziali.
A volte le cronache, i resoconti, i dati delle statistiche fanno spavento. Le situazioni di povertà, di emarginazione, i disagi, le difficoltà, i malesseri di ogni genere che crescono, dilagano, fanno spavento.
Ma forse è proprio da questo spavento che devono generarsi azioni che diano una speranza di cambiamento. Non può essere un cambiamento immediato, certamente. Ma almeno deve cominciare, e la solidarietà, che pure è fondamentale, non basta. Bisogna potenziare la tensione verso l’equità sociale.
Aveva ragione il mio maestro quando diceva che i desideri cambiano continuamente. Basta pensare a quanto e a come sono cambiati i nostri desideri negli ultimi anni.
Non so se i bambini scrivano ancora la letterina a Babbo Natale. Forse è uno di quegli ingenui e fascinosi rituali che la postmodernità ha cancellato. Probabilmente adesso sono gli adulti che scrivono la letterina, senza penna, silenziosamente, nel pensiero. Per chiedere che passi presto la bufera. Perché non c’è nessuno che possa ritenersi al riparo. Sbalordisce sentir dire che la crisi ha prodotto gli stessi danni di una guerra.
Allora Babbo Natale deve aiutarci a ricostruire. Non possiamo e non dobbiamo chiedergli nient’altro. In un tempo passato ci siamo anche baloccati quanto basta. Ora si deve cominciare a fare sul serio. Ora abbiamo la necessità di rinvigorire la speranza. Tutti: giovani, adulti, donne, vecchi, bambini. Dare speranza agli altri, a noi stessi, è l’unico modo autentico per dirci sinceramente buon Natale.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di venerdì 27 dicembre 2013]
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Un buon lavoro è la chiave per costruire un buon futuro
Nel penultimo capitolo di un libro che s’intitola Cinque chiavi per il futuro, Howard Gardner, uno dei più grandi psicologi di questo tempo, professore di Scienze cognitive e dell’educazione all’università di Harvard, formula ai lettori e a se stesso questa domanda: in che genere di mondo vorremmo vivere, se ignorassimo quali saranno in quel mondo le nostre risorse e la nostra condizione?
Ora, sappiamo tutti che non esiste il migliore dei mondi possibili. Lo sappiamo perfettamente. Eppure ciascuno si figura l’immagine di un mondo in cui vorrebbe vivere e nel quale vorrebbe che vivessero almeno le persone che gli sono care. Spesso, in quella figurazione trasferisce alcune cose del mondo che conosce: certe creature, una bellezza, alcune storie, un paese, qualche incantevole contraddizione; se le porta dietro perché è da quelle cose che vuole generare un mondo migliore, da una combinazione sapiente di vecchio e di nuovo vorrebbe che si sviluppasse una condizione dalla inevitabile e attraente imperfezione, certo, ma che si trasforma in continuazione nel tentativo e nella tensione di esaudire i desideri di chi lo abita.
Non esiste il migliore dei mondi possibili ma il progresso è determinato sempre dal sogno ad occhi aperti che gli uomini fanno di quel mondo.
Quando Gardner risponde, per se stesso, alla sua domanda, dice che, potendo scegliere, vorrebbe vivere in un mondo caratterizzato dal “buon lavoro”.
Non è difficile comprendere i motivi della risposta. Freud ha identificato nell’amore e nel lavoro i fattori principali di una vita soddisfacente.
Ecco, dunque, che per ognuno il mondo migliore è quello che gli consente di realizzarsi nell’amore autentico e nel buon lavoro.
Probabilmente non esiste uomo, non esiste donna, che nella stagione dell’infanzia non abbia fantasticato il proprio buon lavoro. Poi, qualcuno riesce a dare concretezza a quella fantasia, qualcun altro no, forse perché a un certo punto si cambia idea o forse perché i casi della vita sono tanti e molto spesso anche indecifrabili, ma quella fantasia è una delle poche cose di cui rimane una traccia profonda nella memoria. Per sempre.
Non è un caso e non è insignificante che ad un bambino si domandi che cosa voglia fare da grande: lo si domanda perché si ha consapevolezza che un’idea – forse più di una- gli gira e gli rigira nella testa; lo si domanda perché si ha il nitido ricordo di un’idea che girava e rigirava nella nostra testa, quando abbiamo avuto la sua età.
Allora, pur nell’imperfezione, nella incoerenza, nella provvisorietà, il migliore dei mondi possibili può esistere. Sicuramente non può essere quello che assicura l’amore che si desidera, perché la realizzazione di quel desiderio probabilmente dipende da congiunture astrali, ma può essere quello che crea le condizioni, i presupposti, le opportunità, perché ogni bambino possa realizzare il desiderio del suo buon lavoro.
Così il migliore dei mondi possibili struttura un sistema di formazione in grado di garantire a ciascuno percorsi che assecondino l’inclinazione, per esempio; realizza canali per l’accesso al lavoro liberi dagli ingombri che sfiancano con la fatica della rimozione; favorisce l’approfondimento delle conoscenze, il costante adeguamento delle abilità alle nuove culture e alle diverse esigenze; sostiene la motivazione, sviluppa processi virtuosi di promozione delle personalità e delle competenze.
Il migliore dei mondi possibili compie ogni sforzo per evitare che si creino sacche di precarietà, di disoccupazione, di alienazione, programmando modalità razionali di inserimento nei contesti di lavoro e di uscita da essi, ma anche forme di mobilità fra i diversi settori.
Può sembrare anche alquanto paradossale assumere a riferimento le caratteristiche del buon lavoro in un tempo che richiede di confrontarsi con le emergenze.
Ma se adesso ci si trova nella condizione che tutti conoscono, se si abita in un mondo che se non è il peggiore comunque non è il migliore e neppure il più adeguato dei mondi possibili, è per il fatto indubitabile che si sono commessi degli errori.
Forse al migliore dei mondi possibili, inteso nel senso del buon lavoro, si tende cominciando a verificare quando e dove sono stati commessi gli errori, non tanto per attribuire responsabilità ma per fare in modo di non commetterli di nuovo.
Anche considerando la circostanza che è dal buon lavoro che deriva una buona società.
Ogni bambino pensa ad un buon lavoro non ad un cattivo lavoro. Pensa ad un lavoro che si volge a favore di se stesso e degli altri, non ad un lavoro che danneggia qualcuno o qualcosa. Per cui, creare un sistema che permetta ad ogni giovane, ad ogni adulto, di svolgere il buon lavoro dei suoi desideri, significa eliminare o comunque ridurre notevolmente le cause e le occasioni di devianza, di disadattamento, di emarginazione.
Allora bisogna coltivare l’utopia di costruire il migliore dei mondi possibili per poter poi ottenere un mondo equilibrato. Che è già tanto. Quello in cui viviamo non ha equilibrio: è sbilanciato; offre molto a pochi e poco a molti; a taluni non offre proprio niente; raramente consente il buon lavoro; nella maggior parte dei casi costringe ad arrangiarsi, a cercare costantemente di rimanere in piedi su un asse che protende tutto da una parte.
Ha ragione Gardner, dunque, quando considera il buon lavoro come una chiave per il futuro. Senza questa chiave il futuro rimane inaccessibile, o accessibile soltanto in situazioni di privilegio, a coloro che riescono ad impossessarsi della chiave, negando il suo uso agli altri.
Ma se sul migliore dei mondi possibili si possono avere innumerevoli idee, per poter ricavare una definizione del peggiore è sufficiente pensare ad un mondo fondato sui privilegi dei pochi.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di venerdì 27 dicembre 2013]