***
Vanità di vanità
Amano i propri discorsi, si compiacciono di sé stessi,
si imbrodano nella sbobba della propria vanteria,
si credono grandi e forti, ma sono dei fessi.
Scambiano per altezza d’ingegno la propria mediocrità,
la loro grandeur gli offusca il discernimento,
fanno passare la propria intraprendenza per vera capacità.
Sanno trasformare, per natura ottimisti,
la reale sconfitta in una immaginaria vittoria
ma, sangue di Giuda, quanto sono molesti!
Si arrampicano sugli specchi, per evitare una figuraccia,
la sparano sempre più grossa nel dare la baia,
sono mezzi uomini, anzi “quaquaraquà”, per dirla con Sciascia.
Fanno di un castello di sabbia il tempio della vanagloria;
questi vanterini si fanno passare per gentiluomini,
ma sono zoticoni e non entreranno mai nella storia,
si spacciano per grandi manager, capitani d’industria o
ricconi.
Sono “traffichini”, faccendieri, e vogliono passare per
banchieri,
statemi alla larga, gonfi, ciurmatori, cerretani,
maneggioni.
Squattrinati, portano la famiglia al mare all’Idroscalo
ma fingono di possedere ville in Sardegna o a Portofino
La loro, più che vanteria, è iattanza. Baciatemi il culo.
I mediocri
Vanitas vanitatum è scritto nell’Ecclesiaste. Il famoso detto diventa
un randello nelle mani del Satirico, che bastona di santa ragione numerose categorie
di personaggi mediocri che vivono ostentando una gloria che non hanno e che non
potranno mai avere. Vivono nella menzogna e di sole apparenze, facendo sempre
buon viso a cattivo gioco, e non hanno coscienza della loro piccolezza. Contro
costoro (per l’elenco si rilegga il testo), il Satirico non si limita alla
denuncia, ma arriva fino all’insulto, con uno sberleffo finale che suona come un
volgare sfregio.
***
Una pezza a colore
Pensi di avere al fianco una casta matrona,
quando sotto le sue mentite spoglie,
si nasconde la più trista battona:
“niente di più eccitante della santarellina
che al richiamo della carne cede
e si trasforma in una vogliosa Messalina”,
dici, Leo, quasi a giustificare il triste misfatto,
quando, inchiodato alla dura evidenza,
capisci di essere un beccafico bell’e fatto.
Il beccafico
La satira confina con la commedia. In questa commedia
famigliare è di scena il classico cornuto che giustifica con argomentazioni
misogine le proprie corna. È nella natura delle donne il tradimento e allora
bisogna rassegnarsi. Qui Margite è Leo, il marito cornuto e rassegnato. Pensi,
dici, capisci: in termini retorici siamo davanti ad un climax ascendente: pensi,
un pensiero fasullo (che la matrona sia casta), dici, un dire menzognero
(a mo’ di giustificazione, la pezza a colore), capisci, una
comprensione piena (del proprio essere un beccafico). Non c’è che dire: questa
volta almeno Margite-Leo finisce col ammettere la verità. E già molto, o no? La
storia continua.
***
Chi è causa del suo mal…
Però c’è un limite ad ogni pazienza,
ora fa la ritrosa con me e non si dà
soltanto per salvare l’apparenza.
Tua moglie, Leo, rotta ad ogni vizio,
mi fa perdere la trebisonda,
non concedendosi al mio sfizio.
Intimale di lasciare subito la finta costumanza,
di smettere di parlare a vanvera, cercando scuse,
e di concedere quello di cui non posso far senza.
Lo dice anche Fedro che Prometeo, sissignore,
creò dal suo membro la lingua della donna:
che dunque la utilizzi per uno scopo migliore.
È solo letteratura!
Poesia strettamente collegata alla precedente. Infatti,
inizia con una congiunzione. Ora il poeta, che ha denunciato all’amico Leo-Margite
le infedeltà coniugali della moglie, vorrebbe passare alla cassa e godere anche
lui dei piaceri della donna. Ma questa, vuoi per ipocrisia, vuoi per vendetta,
per essere stata svergognata dal Satirico, non glieli concede. Il poeta allora
si rivolge al marito chiedendogli di farsi cornuto contento e di usare la
propria autorità sulla moglie per portarla fra le sue braccia. I versi finali
fanno riferimento a Fedro,
Favole, Libro IV, 15. Il Satirico, come si vede, ha sempre un
riferimento colto tratto dalla tradizione antica, come se, insomma, volesse
dire: “Se l’ha scritto Fedro, perché non potrei dirlo anch’io?”. Ben venga,
dunque l’accusa di sessismo. Il sessismo, infatti, altro non è che una forma
della maldicenza propria del Satirico. Forse è ciò che l’autore, da me
interpellato, ha voluto dire con queste parole: “Ma è solo letteratura,
nient’altro! Le lettrici che vogliono divertirsi lo
faranno senz’altro, quelle fanatiche e un poco ignoranti si incazzino pure, chi
se ne frega!”. È evidente che l’autore solidarizza con la sua creatura
principale, il Satirico, conoscendone tutti i difetti e le idiosincrasie.
Saturae X
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Vanità di vanità
Amano i propri discorsi, si compiacciono di sé stessi,
si imbrodano nella sbobba della propria vanteria,
si credono grandi e forti, ma sono dei fessi.
Scambiano per altezza d’ingegno la propria mediocrità,
la loro grandeur gli offusca il discernimento,
fanno passare la propria intraprendenza per vera capacità.
Sanno trasformare, per natura ottimisti,
la reale sconfitta in una immaginaria vittoria
ma, sangue di Giuda, quanto sono molesti!
Si arrampicano sugli specchi, per evitare una figuraccia,
la sparano sempre più grossa nel dare la baia,
sono mezzi uomini, anzi “quaquaraquà”, per dirla con Sciascia.
Fanno di un castello di sabbia il tempio della vanagloria;
questi vanterini si fanno passare per gentiluomini,
ma sono zoticoni e non entreranno mai nella storia,
si spacciano per grandi manager, capitani d’industria o ricconi.
Sono “traffichini”, faccendieri, e vogliono passare per banchieri,
statemi alla larga, gonfi, ciurmatori, cerretani, maneggioni.
Squattrinati, portano la famiglia al mare all’Idroscalo
ma fingono di possedere ville in Sardegna o a Portofino
La loro, più che vanteria, è iattanza. Baciatemi il culo.
I mediocri
Vanitas vanitatum è scritto nell’Ecclesiaste. Il famoso detto diventa un randello nelle mani del Satirico, che bastona di santa ragione numerose categorie di personaggi mediocri che vivono ostentando una gloria che non hanno e che non potranno mai avere. Vivono nella menzogna e di sole apparenze, facendo sempre buon viso a cattivo gioco, e non hanno coscienza della loro piccolezza. Contro costoro (per l’elenco si rilegga il testo), il Satirico non si limita alla denuncia, ma arriva fino all’insulto, con uno sberleffo finale che suona come un volgare sfregio.
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Una pezza a colore
Pensi di avere al fianco una casta matrona,
quando sotto le sue mentite spoglie,
si nasconde la più trista battona:
“niente di più eccitante della santarellina
che al richiamo della carne cede
e si trasforma in una vogliosa Messalina”,
dici, Leo, quasi a giustificare il triste misfatto,
quando, inchiodato alla dura evidenza,
capisci di essere un beccafico bell’e fatto.
Il beccafico
La satira confina con la commedia. In questa commedia famigliare è di scena il classico cornuto che giustifica con argomentazioni misogine le proprie corna. È nella natura delle donne il tradimento e allora bisogna rassegnarsi. Qui Margite è Leo, il marito cornuto e rassegnato. Pensi, dici, capisci: in termini retorici siamo davanti ad un climax ascendente: pensi, un pensiero fasullo (che la matrona sia casta), dici, un dire menzognero (a mo’ di giustificazione, la pezza a colore), capisci, una comprensione piena (del proprio essere un beccafico). Non c’è che dire: questa volta almeno Margite-Leo finisce col ammettere la verità. E già molto, o no? La storia continua.
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Chi è causa del suo mal…
Però c’è un limite ad ogni pazienza,
ora fa la ritrosa con me e non si dà
soltanto per salvare l’apparenza.
Tua moglie, Leo, rotta ad ogni vizio,
mi fa perdere la trebisonda,
non concedendosi al mio sfizio.
Intimale di lasciare subito la finta costumanza,
di smettere di parlare a vanvera, cercando scuse,
e di concedere quello di cui non posso far senza.
Lo dice anche Fedro che Prometeo, sissignore,
creò dal suo membro la lingua della donna:
che dunque la utilizzi per uno scopo migliore.
È solo letteratura!
Poesia strettamente collegata alla precedente. Infatti, inizia con una congiunzione. Ora il poeta, che ha denunciato all’amico Leo-Margite le infedeltà coniugali della moglie, vorrebbe passare alla cassa e godere anche lui dei piaceri della donna. Ma questa, vuoi per ipocrisia, vuoi per vendetta, per essere stata svergognata dal Satirico, non glieli concede. Il poeta allora si rivolge al marito chiedendogli di farsi cornuto contento e di usare la propria autorità sulla moglie per portarla fra le sue braccia. I versi finali fanno riferimento a Fedro, Favole, Libro IV, 15. Il Satirico, come si vede, ha sempre un riferimento colto tratto dalla tradizione antica, come se, insomma, volesse dire: “Se l’ha scritto Fedro, perché non potrei dirlo anch’io?”. Ben venga, dunque l’accusa di sessismo. Il sessismo, infatti, altro non è che una forma della maldicenza propria del Satirico. Forse è ciò che l’autore, da me interpellato, ha voluto dire con queste parole: “Ma è solo letteratura, nient’altro! Le lettrici che vogliono divertirsi lo faranno senz’altro, quelle fanatiche e un poco ignoranti si incazzino pure, chi se ne frega!”. È evidente che l’autore solidarizza con la sua creatura principale, il Satirico, conoscendone tutti i difetti e le idiosincrasie.