Lo studio (ogni tipo di studio), se fatto seriamente (e dev’essere fatto seriamente oggi più di ieri e domani più di oggi), comporta sacrificio.
Per qualcosa che piace i sacrifici si fanno. Per quello che non piace si rinuncia alla prima salita.
Quale scuola scegliere, dunque?
Forse occorre tornare all’antico e rispondere così: quella che vi piace. Quella in cui si insegnano (si costruiscono) saperi che vi appassionano, insomma quelle cose che comunque studiereste se nessuno vi obbligasse a trascorrere in un’aula le mattine e spesso i pomeriggi. Scegliete una scuola in cui pensate di poter stare bene, innanzitutto. Se starete bene imparerete bene e anche presto. Date retta ai consigli che vi danno gli adulti ma soprattutto ai vostri sentimenti. Ai sentimenti, certo. Perché una scuola si sceglie in base ad un ragionamento, senza dubbio, ma anche con la ragione del sentimento.
Non si può frequentare la scuola senza sentimento. Oppure la si può anche frequentare, ma diventa una fatica tremenda, spaventosa: non vi andrà di alzarvi la mattina; ad ogni risveglio maledirete professori, presidi, bidelli, ma purtroppo maledirete anche voi stessi; non passeranno mai le giornate; ogni settimana avrà una durata infinita; spingerete ognuno dei cinque anni di corso come fossero i pesanti macigni che i dannati del VII canto dell’Inferno spingono con il petto.
Scegliete una scuola nella quale pensate di non annoiarvi.
Scegliete una scuola che pensate possa darvi entusiasmo. “Se vi accingete a riparare una motocicletta, il primo strumento, e il più importante, è un’adeguata riserva di enthousiasmos. Se non ce l’avete, potete anche raccattare tutti gli altri strumenti e metterli via, perché non serviranno a niente. Ma se ce l’avete e sapete come continuare ad averlo non c’è motivo al mondo che vi possa impedire di aggiustare la moto”.
Scegliete una scuola nella quale, prima o poi, vi facciano leggere il libro da cui ho preso queste righe. Io non vi dico qual è, così andate a cercarvelo. E’ bellissimo.
Ecco. Per scegliere una scuola è indispensabile una buona riserva di entusiasmo.
Fate una cosa alla volta. Non pensate, da subito, al lavoro. C’è tempo. A meno che non abbiate già un’idea precisa, magari indotta. Ma anche quelle idee che vi sembrano precise, quasi certamente cambieranno. Soprattutto nell’ultimo anno cambieranno una volta al giorno. Poi nel periodo che intercorre dagli esami di maturità all’iscrizione all’università, cambieranno anche più di una volta al giorno. Si è giovani perché si hanno molte idee e quindi è normale che si cambiano. E’ una grande fortuna avere tante idee da potersi permettere il lusso di cambiarle.
Scegliete la scuola che vi piace e se doveste accorgervi che vi siete sbagliati, pensateci su qualche istante e poi cambiatatela.
Un’ultima cosa. Se vi capita di leggere questo articolo, quando avete finito dimenticatelo. Quello che pensate voi vale di più, molto di più, di quello che pensa chiunque altro. Vale di più quello che voi sentite, intuite, percepite, immaginate, sognate. Perché siete voi che dovete fare la strada. Gli altri possono solo dirvi di tenere gli occhi bene aperti.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, 19 gennaio 2012]
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Senza memoria un popolo muore di freddo
Vengono tempi in cui il bisogno di memoria di un uomo e di un popolo diventa pressante, urgente. Sono i tempi di passaggio, di mutamento dei codici sociali di riferimento, di revisione e rielaborazione dei sistemi di orientamento nei contesti culturali.
Probabilmente il nostro tempo, questa stagione che attraversiamo, quest’alba di secolo nuovo, di nuovo millennio, è un tempo così: che pone, e impone, una più forte considerazione della memoria, della sua stratificazione e pregnanza semantica, delle implicazioni e delle relazioni che annodano la memoria alla dimensione di appartenenza ad un’origine e, di conseguenza, ad un futuro.
Il valore che si attribuisce alla memoria costituisce un indicatore di rilevanza unica, straordinaria, per la verifica del percorso di progresso che coinvolge tanto l’esistenza di ciascuno quanto l’esistenza di una civiltà.
Può anche essere funzionale a questa verifica la “Giornata della memoria” che la legge n. 211 del 20 luglio del 2000 ha istituito per il 27 gennaio, con la finalità di diffondere e rafforzare nelle nuove generazioni sentimenti di solidarietà, di pacifica convivenza, di rispetto della libertà e della dignità umana.
Diceva Paul Ricoeur che è nella misura in cui torniamo alle nostre origini e in cui ravviviamo il nostro passato che possiamo essere, senza scontentezza, gli uomini del progetto. Ma in questa tensione verso il progetto, il passato ci interpella continuamente.
E’ la comprensione delle radici dell’identità che può sviluppare il sentimento e la ragione della solidarietà, della giustizia, della libertà.
Al di fuori del territorio conformato da queste condizioni, c’è l’impero della barbarie governato dalla legge disumana dell’homo homini lupus.
Ora, se è fuor di dubbio che la tutela della memoria sia una responsabilità di tutti e di ciascuno, indipendentemente dalle connotazioni generazionali, si potrebbe ritenere che la costante rigenerazione di essa sia ,ad un tempo, compito e privilegio soprattutto – anche se non solo- di chi ha per natura la vocazione e il programma di realizzazione del progetto di sviluppo.
I giovani, dunque. Che hanno bisogno di conoscenza e di coscienza del passato per poterne potenziare le virtù e neutralizzarne i vizi. Che non possono e non devono riproporne gli errori. Che si ritrovano a dover scegliere se mantenere o cambiare il modo di essere, di vivere, di pensare, di agire, di valorizzare gli altri e se stessi.
La memoria è un archivio dinamico di esperienze. Consente di riconoscere e valutare quello che è stato fatto o non è stato fatto, che è stato bene o che è stato male, che è stato giusto o è stato sbagliato, le coerenze, le incoerenze, le contraddizioni, i sogni e le utopie che hanno spinto gli uomini verso orizzonti sfolgoranti e le perversioni che li hanno oscurati.
Poi, è soltanto la conoscenza del passato che dà la possibilità di andare oltre l’acquisito, di affrontare l’inedito, di ipotizzare e costruire il nuovo.
Soltanto la memoria del passato mette a disposizione gli strumenti cognitivi che consentono di pensare e agire nella complessità dei sistemi sociali, tra le pluralità delle identità e delle espressioni culturali, nell’intreccio delle storie che corrono nel mondo.
In fondo non c’è scienza che non sia memoria; non c’è lingua, non c’è arte, non c’è geografia, non c’è letteratura e neanche tecnica o tecnologia, e non c’è teologia, che possa fare a meno di rivolgere lo sguardo e poi, spesso, di analizzare la Storia come modello al quale riferirsi in funzione di una continuità nei confronti dei suoi contributi positivi oppure di una discontinuità rispetto a quelli negativi.
Tutto il sapere di un solo uomo o di tutta l’umanità viene generato e mantenuto in vita dalla memoria.
Dice Agostino nelle “Confessioni” che noi possiamo nominare gli oggetti anche quando non cadono sotto i nostri occhi perché di essi abbiamo l’immagine nella memoria; possiamo parlare del dolore, nominare i numeri, dire di aver ritrovato una cosa perduta perché del dolore, dei numeri, della cosa perduta abbiamo memoria; possiamo parlare perché abbiamo memoria delle parole, e parlare della stessa memoria e della dimenticanza perché abbiamo coscienza di quello che ricordiamo e di quello che abbiamo scordato.
Ecco. Questo vale per un solo uomo e vale per tutti. Ogni volta che una civiltà sprofonda negli abissi tetri della decadenza morale, che si lascia invischiare nell’egoismo, che si fa sedurre dalle sirene dell’effimero, del futile, del vacuo, è perché ha perso oppure ignora – consapevolmente o inconsapevolmente- la propria memoria, perché dimentica le cause delle proprie felicità e delle proprie sofferenze.
C’è una frase, che non ricordo più in che libro ho letto, che dice così: il popolo che non ha più memoria è destinato a morire di freddo.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 26 gennaio 2012]
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Le parole oscure della crisi
Spread, bund, bot, cct, esfs, mib, ctz, btp, tripla A, doppia A, swap, fitch, Standard&Poor’s e Moody’s, rating, credit , eurobond, quantitative easing, epa, hedge fund. Default.
L’uomo della strada, quello con un normale titolo di studio superiore, con una laurea, a volte con due, legge sui giornali, ascolta in tv queste parole e sospetta che si tratti di un neo paroliberismo futurista del tipo Zang Tumb Tumb di Filippo Tommaso Marinetti.
Invece sono le parole della finanza, della crisi: definizioni dai significati che restano oscuri ai più, sigle e acronimi misteriosi che a volte fanno anche paura perché non si capisce che cosa nascondono dentro, sul fondo.
Per esempio default. Per assonanza uno pensa a Foucault (Michel), alla “Volontà di sapere” oppure a “L’ordine del discorso”, che qualche attinenza ce l’ha siccome tratta dei meccanismi sociali di controllo e di esclusione della parola.
Poi invece scopre stupefatto che default non ha nessuna relazione con il filosofo francese perché si tratta di uno spettro che in italiano risponde al nome di insolvenza o fallimento.
Default.
Sono ormai molti mesi che subiamo l’assedio di questi termini, che facciamo lo sforzo di capire che cosa vogliono dire sia esplicitamente che implicitamente.
Per quanto riguarda le borse che salgono, che scendono, che tonfano, che sobbalzano, altalenano, vorticano, l’uomo della strada pensa alle borse che si sfondano, alle borse della spesa che si svuotano.
Così, oltre che in una bolla speculativa ci ritroviamo in una bolla semantica. Eppure uno dei principi fondamentali della democrazia è che ciascuno sia messo nelle condizioni di comprendere i discorsi che incidono sul suo destino. Per cui le parole dovrebbero essere trasparenti, tradurre significati comprensibili da quella che viene chiamata la gente e che sarebbe più giusto chiamare cittadini, motivare la partecipazione di tutti ai processi di crescita, di crisi, di ripresa.
Probabilmente mi sbaglio ma ho l’impressione che, tranne rare eccezioni, le pagine dei giornali che parlano di finanza siano fatte esclusivamente per gli addetti ai lavori, per i professionisti del settore. Non si tratta soltanto di un problema di lessico. La condizione che determina la difficoltà è il notevole grado di implicito, il fatto che si dia molto per scontato. Ma il pensionato che dopo quarant’anni – e anche più – di lavoro ha messo da parte cinque lire per il domani, non è detto che sappia, né è tenuto a sapere, quali siano le problematiche che in quell’articolo scorrono sotterranee e di cui s’intuisce l’esistenza soltanto attraverso accenni fugaci, rimandi incidentali.
E’ certamente fuori d’ogni dubbio che la materia sia troppo importante per lasciarla all’esclusività degli specialisti, con tutto il rispetto per gli specialisti ma anche per quelli che non lo sono.
Un esempio. Leggo e trascrivo: in questo quadro di rinnovato appetito per gli asset a basso rischio, lo spread di rendimento tra Btp e Bund decennali chiude poco sotto i massimi di seduta, a 359 punti base su piattaforma
Tradeweb, dai 347 di ieri pomeriggio. Ieri mattina era sceso fino a 338 punti base.
Oggi c’è stato steepening sulla curva ma non per un rally del breve come si è visto di recente, ma per vendite sul medio-lungo. Lo spread decennale potrebbe ora stabilizzarsi su questi livelli anche se una certa volatilità andrà comunque sempre considerata. (Fine).
Non so se sono solo io ad avvertire nei confronti di questa prosa una sensazione di sbalordimento, una percezione di estraneità ,di disagio, l’impressione di inadeguatezza o, peggio, di inferiorità. Anche se ho letto Gadda.
Mi domando se non ci fossero altri modi per esprimere gli stessi concetti, se non fosse possibile scioglierli in un linguaggio che riducesse il grado di specificità confermando allo stesso tempo quello di esattezza.
Così finisco di leggere le righe che ho citato e in viene in mente quello che Leopardi e Tullio De Mauro hanno detto da qualche parte.
De Mauro ricorda un vecchio adagio tedesco secondo il quale in fatto di lingua Kant cammina insieme alla vecchia contadina della Pomerania.
Vale a dire che i discorsi devono cercare le parole giuste per consentire ai componenti di una comunità di realizzare una comunicazione che sia, appunto, un mettere in comune, una condivisione di significati: un camminare insieme. Ma il movimento deve necessariamente procedere dall’alto verso il basso, da chi possiede la conoscenza e il linguaggio con cui essa si può esprimere, verso chi non ha quella conoscenza specifica e di conseguenza neppure le parole che la caratterizzano. Insomma: da chi ha di più a chi ha di meno. Come dovrebbe essere per qualsiasi cosa.
Poi Leopardi. Diceva che perfino quando il senso da esprimere è oscuro e incerto per noi e per tutti, possiamo trovare parole chiare per esprimere l’oscurità e l’incertezza che accompagnano tanta parte della nostra esistenza.
Ecco. Probabilmente dovremmo imparare questa frase a memoria. Tutti. Per tentare di dissipare l’oscurità e l’incertezza che ci avvolgono e non ci permettono di capire qual è la direzione giusta e qual è quella sbagliata.
Non fosse altro che per evitare il default o quantomeno per capire se ci travolgerà oppure no.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, 27 febbraio 2012]
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La creatività che serve al Meridione
Non c’è proprio niente di male, in linea di principio e generale, se i giovani del Sud si spostano al Nord. Perché le piante hanno radici per affondarle nella terra e gli uomini hanno le gambe per camminare. Non ci sarebbe davvero niente di male se fosse una scelta, una condizione essenziale per realizzare un progetto della loro esistenza. Ma non è così. Molto spesso non è affatto questo il motivo per il quale vanno ancora via. Molto spesso si tratta di un’altra fuga, una nuova emigrazione. Ora come allora. Quasi che i decenni siano passati invano. Quasi che una sorta di maledizione della Storia abbia destinato questo Sud a dissanguarsi in continuazione.
Secondo dati Svimez, nel 2010 sessantamila laureati sono andati via da qui. A Nord, all’estero. Quello che viene da pensare è una conseguenza naturale: spaventosamente naturale. Quello che viene da pensare è che se altrove trovano un’occupazione è per il fatto che l’altrove ha saputo creare le situazioni e le occasioni di lavoro e il loro dove non ha saputo farlo. Per cui s’insinua prepotente la domanda sul perché non ha saputo farlo. Una domanda antica, che è costituita da una stratificazione di risposte non date, continuamente evase, o dai significati vaghi, retorici e, in quanto retorici e vaghi, ingannevoli, bugiardi.
Oltretutto è una domanda così abusata che non si saprebbe nemmeno più a chi farla. Allora si prende atto della risposta che è mancata e che ancora manca e invece di scoperchiare le botole del passato, si cerca di capire quali possano essere le prospettive.
Prima di ogni altra cosa forse i giovani dovrebbero imparare quel proverbio che dice così: chi ha speranza in altri e non cucina, morto di fame va a letto la sera.
Vale a dire che non è più tempo, questo, di riporre speranze in qualcuno. Avremmo dovuto capirlo almeno quarant’anni fa.
Per cui bisogna semplicemente organizzarsi. Guardarsi intorno e vedere cosa c’è da fare, quali sono i modi migliori per utilizzare – che è verbo diverso da sfruttare – le risorse del Sud, quelle culturali, economiche, strutturali, con la creatività e la fantasia che, in realtà, al Sud non sono mai mancate. Forse occorre solo attribuire a queste condizioni una connotazione di sistematicità, farle rientrare in una progettazione comune, che superi il carattere storico dell’individualità, che forse non si è mai risolto in modo vantaggioso.
Ci sono segnali che si rivelano straordinariamente significativi.
Secondo i dati forniti da Unioncamere, un terzo delle imprese realizzate nello scorso anno ha sede al Sud.
E’ probabile che questo significhi che al Sud stia cambiando il modo di pensare il futuro, che si stia superando la logica dell’adattamento all’esistente o del suo rifiuto, che questo superamento comporti la disponibilità ad intervenire sull’esistente per modificarlo in funzione dei bisogni e, qualche volta, anche dei sogni.
Forse quella creatività che sempre o spesso abbiamo pensato come una condizione che si realizza nella sfera della singola personalità sta gradualmente acquisendo una dimensione collettiva, si sta orientando verso una progettualità comune, una cultura dell’impresa che implica una cultura della valorizzazione di ogni genere di risorse.
Allora con questo presupposto e in questa prospettiva, si rivela indispensabile – e urgente – creare le condizioni per una convergenza di energie. Se è vero che le energie provengono sempre dai contesti della formazione e del territorio, sono l’una e l’altro che devono trovare il punto giusto in cui far incrociare le loro direzioni.
Per cui se la formazione deve tener conto delle connotazioni sociali, economiche, culturali dei contesti in cui si realizza, da parte del territorio deve esserci un investimento per la formazione costante e qualitativamente consistente, che risponda ad una logica coerente, depurata da ogni intenzionalità e finalità di propaganda, da qualsiasi forma di clientelismo, da ogni anticaglia di campanilismo. La politica- nelle sue espressioni più significative di servizio alla comunità e in funzione del benessere di tutti – deve saper guardare lontano e procedere verso il lontano con passi misurati e sottoposti alla verifica di quanti hanno diritto o legittimo interesse a verificare.
Perché i giovani del Sud non vadano via dal Sud occorre che il Sud metta in atto un costante e virtuoso processo di valorizzazione e di organizzazione delle risorse umane, attraverso esperienze di creatività virtuosa e perfino sapiente.
L’organizzazione delle risorse umane e la migliore messa a frutto delle intelligenze del territorio costituiscono la condizione indispensabile per lo sviluppo economico. Che in questo tempo – probabilmente più che in qualsiasi altro tempo – ha bisogno di essere elaborato con un pensiero nuovo, con uno sguardo diverso e più intenso, con una diversa, più acuta, più profonda analisi dei contesti e dei fenomeni, con una coerente indagine della sua relazione e interdipendenza con lo sviluppo sociale e culturale. Forse anche con una nuova o rinnovata visione e interpretazione del passato e del futuro che ci riguarda. Per noi, qui: con una rinnovata visione del passato e del futuro del Sud.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, 11 marzo 2012]
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La scuola, pensando al lavoro
Quello che sta succedendo quest’anno con le iscrizioni alla scuola superiore potrebbe mutare la fisionomia culturale e il mercato del lavoro di questo Paese nei prossimi decenni, tenendo conto, peraltro, che il corso di studi della scuola secondaria orienta in maniera determinante la scelta del percorso universitario.
I primi dati forniti dal Miur evidenziano un aumento di iscrizioni per gli istituti tecnici e professionali con una conseguente diminuzione degli iscritti ai licei.
Il 31,50% degli studenti di terza media ha scelto gli istituti tecnici, con un aumento rispetto al 30,39% all’anno scorso; il 20,60% ha scelto gli istituti professionali che l’anno scorso registravano una percentuale del 19,73%, mentre i licei scendono al 47,90% rispetto al precedente 49,88%. Tra i licei aumentano le iscrizioni ai linguistici: 7,25% rispetto al 6,86% dell’anno precedente. Calano i licei scientifici: 22,38%, rispetto al 23,95%. In calo i licei classici, che dal 7,52% scendono al 6,66%.
La diminuzione di iscritti interessa anche il liceo delle scienze umane che rispetto alla denominazione ha avuto una storia abbastanza travagliata: proveniente dalla grande tradizione popolare dell’istituto magistrale, s’è chiamato prima liceo pedagogico e delle scienze sociali e poi liceo delle scienze umane. Si sa che quando si cambia nome ad una via nessuno sa più dirti dov’è quella via. Qualcuno o qualcosa viene identificato innanzitutto con un nome.
Tra gli istituti tecnici aumentano le preferenze per il settore tecnologico: per l’indirizzo di meccanica, meccatronica ed energia gli iscritti salgono da 2,18% dell’anno scorso al 2,57%, così come per l’indirizzo informatica e telecomunicazione (4,59%) e chimica, materiali e biotecnologie (1,98%).
Tra gli istituti professionali registra un aumento degli iscritti soprattutto il settore servizi. In particolare l’indirizzo alberghiero sale al 9,51% di preferenze rispetto all’8,52% dell’anno scolastico 2011/2012.
La scelta di una scuola è determinata anche dai tempi e dalla temperie culturale, com’è giusto che sia. Chi sceglie una scuola ha sempre ragione rispetto alla scelta, non fosse altro che per il fatto che sta operando scelte di futuro, e il futuro è di ciascuno.
Sono le scuole, piuttosto, che devono saper elaborare profili di futuro cercando di far riconoscere ciascuno in quei profili. Il riconoscimento, il rispecchiamento in un profilo di futuro è la prima condizione dell’orientamento. Spesso si va verso l’orizzonte che si staglia davanti in modo più chiaro, per la strada che sembra più dritta e anche più breve, per quella che lascia intravedere un rifugio in caso d’intemperie.
Nessuno può escludere intemperie lungo la strada verso il futuro. Non solo in tempi di crisi. E’ stato sempre così e così sarà sempre. Abbiamo bisogno di certezze, o quantomeno di ridurre per quanto più è possibile il grado delle incertezze. Avvertiamo la necessità di sapere che nel corso del viaggio ci sono stazioni di posta che ci consentano di riprendere fiato.
Ecco. Ora i tecnici e i professionali rappresentano questo tipo di viaggio formativo con le stazioni di posta.
Uno sa che al termine dei cinque anni può proseguire negli studi universitari ma sa anche che nel caso le volontà o le possibilità non glielo consentissero, potrebbe cercare di costruirsi da subito una condizione di lavoro. E’ una componente psicologica indubbiamente importante.
Quello dei licei, invece, è un viaggio molto lungo, senza situazioni che facciano riprendere fiato.
L’università diventa, quasi sempre, nella maggior parte dei casi, una condizione obbligata. Per undici anni (almeno) bisogna viaggiare senza nessuna fermata. Allora uno mette in conto che possa non volere o non potere. La famiglia considera che le intemperie possano scatenarsi da un momento all’altro. Caso mai ce ne fosse bisogno, le esperienze di questi anni ce lo stanno ricordando. Se le prospettive sociali ed economiche dei singoli e delle comunità hanno avuto sempre un valore considerevole, ora quel valore è diventato preminente.
Di cosa c’è bisogno, dunque. Avendo imparato a diffidare di chi ha risposte sicure e immediate in quanto nel volgere di poche stagioni si sono rivelate completamente sbagliate, preferiamo non esprimerci per aver tempo e modo di approfondire la riflessione. Forse, però, si potrebbe ipotizzare che, dopo la riforma, anche per i licei si dovrebbero pensare, progettare e realizzare le stazioni di posta. In altre parole, anche al termine di questo corso di studi ci dovrebbero essere canali con uno sbocco nel mondo del lavoro. Se non si fa questo la conseguenza nefasta potrebbe essere quella che il liceo torni ad essere quella scuola che esclude a priori chi non ha possibilità economiche tali da assicurare la traversata di tutta la formazione secondaria e universitaria. Ma la democrazia questo non lo vuole. Anzi, ce l’ha in dispregio.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, 14 marzo 2012]
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L’istruzione che serve contro la crisi
Secondo i dati che Almalaurea fornisce nel XIV Profilo dei laureati italiani, negli ultimi otto anni le immatricolazioni si sono ridotte del 15 per cento, per una serie di cause che vanno dal calo demografico alla diminuzione delle immatricolazioni in età adulta, alle incertezze occupazionali dei laureati, alla difficoltà delle famiglie di sostenere gli studi universitari dei figli, a una politica del diritto allo studio che continua a rivelarsi inadeguata, al convincimento che la laurea non costituisce più una garanzia di accesso al mondo del lavoro.
Solo il 29% dei diciannovenni si iscrive all’università.
Attualmente solo il 20% circa delle persone fra i trenta e i trentaquattro anni è in possesso di laurea.
Ancora. Dal 2007 al 2011, la percentuale dei laureati poco motivati è passata dal 10 al 14 per cento. In questo caso, con ogni probabilità, incide il grado di coerenza tra le proprie aspirazioni e gli studi attraversati. Si sa che dopo qualsiasi tipo di laurea si devono affrontare sacrifici. Molti, spesso, e per lungo tempo. Per qualcosa di cui si ha passione i sacrifici si fanno; per quello di cui non si ha passione, si arretra alla prima difficoltà.
Altri dati. Secondo l’Ocse solo il 54% degli italiani tra i venticinque e i sessantaquattro anni è in possesso di un diploma di scuola superiore. Questo elemento diventa anche più significativo se si considera che la media Ocse è del 73% e che risulta davvero notevole la distanza da Paesi come la Germania, il Canada, gli Stati Uniti, la Repubblica Ceca, l’Estonia, la Polonia.
Se poi a questi dati si aggiungono quelli relativi all’abbandono scolastico, che in Italia è superiore alla media europea e corrisponde a circa il 19%, la sensazione di sconforto si trasforma in ragione.
La riflessione spontanea provocata da questa situazione è che l’Italia non è nella condizione di affrontare in maniera adeguata né le trasformazioni dei contesti e delle forme culturali, né le richieste pressanti che vengono dal mondo del lavoro. Non è in grado di rendersi competitiva in un contesto europeo e mondiale che non solo pretende conoscenze e competenze di notevole spessore sia di tipo trasversale che settoriale, ma pretende anche la capacità di rielaborare, riformulare, rimodulare quelle conoscenze e quelle competenze, di riorientarle costantemente verso le direzioni segnate dalle esigenze economiche e culturali.
Se dovessero protrarsi le condizioni di inadeguatezza che risultano dai dati riportati qualche riga sopra, questo Paese corre il rischio molto serio di un completo cedimento strutturale a livello economico, di uno sfilacciamento del tessuto sociale, di un immobilismo e quindi di un impoverimento culturale che destinerà alla marginalità tutta quella parte di popolazione che non sarà in grado di progettare un proprio percorso professionale con inevitabili riflessi tanto sulla sfera individuale quanto su quella collettiva.
Allora diventa urgente far funzionare a pieno regime innanzitutto il primo dei tre motori di ricerca individuati dalla Commissione europea nella strategia Europa 2020 per uscire dalla crisi e preparare l’economia ad affrontare le sfide del prossimo decennio: la crescita intelligente attraverso la promozione della conoscenza, dell’innovazione, dell’istruzione. Tra i cinque obiettivi che Europa 2020 propone ci sono quelli secondo cui il tasso di abbandono scolastico deve essere inferiore al 10% e almeno il 40% dei giovani deve avere una laurea o un diploma.
Davvero non saprei dire se in otto anni sarà possibile o difficile o impossibile raggiungere questo obiettivo. Però mi sembra di percepire che, se non tutto, almeno una buona parte del destino del Paese ne sia dipendente.
Ovviamente non può ridursi soltanto ad un obiettivo quantitativo. Occorre potenziare il livello degli apprendimenti, la loro qualità e la loro coerenza con i saperi e, soprattutto, la relazione tra le conoscenze e le competenze e la spendibilità nei contesti in cui esse si realizzano.
In questi anni l’Italia assiste ad uno strano e comunque incoerente fenomeno di riduzione delle utilizzazioni di professionalità specializzate a livello intellettuale, scientifico, gestionale. Mentre molti paesi d’Europa cercano di affrontare la crisi anche investendo in professionalità strategiche, noi facciamo il contrario. Non si riesce a capire perché. La conseguenza inevitabile è che le risorse umane rimangono mortificate e inefficaci oppure che cercano altrove la loro realizzazione. Così il Paese si dissangua, il mercato del lavoro si atrofizza, la competitività si arresta o arretra, la proposta culturale si indebolisce oppure ripete formule ormai deteriorate, la coesione sociale si infiacchisce.
I significati che gli uomini attribuiscono alle parole non sono mai un caso, probabilmente. Allora talento vuol dire ingegno, intelligenza, abilità, ma anche moneta. C’è una relazione, dunque, tra l’impiego dell’intelligenza e lo sviluppo dell’economia. Si devono coltivare i talenti che sono intelligenze per poter ricavarne la moneta. Lo dicono gli economisti. Se non si vuol dare retta agli uomini di scuola, almeno ci si affidi a coloro che in materia sono specialisti.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 6 giugno 2012]
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La maturità non arriva con un esame
Spesso gli uomini danno alle cose dell’esistenza i nomi che ne traducono la sostanza. Così l’esame di Stato della scuola superiore continua ad essere chiamato esame di maturità. Perché il senso comune avverte l’essenza di una condizione di passaggio da un’età ad un’altra forse più complessa, intravede il profilarsi di una linea d’ombra che rappresenta la soglia di una trasformazione dell’esperienza, il principio di un’altra stagione che si lascia alle spalle l’adolescenza e richiama un senso di responsabilità più concreto e più profondo.
In realtà questo esame rappresenta, ad un tempo, la fine di un percorso e il principio di un altro, che può essere il lavoro o l’università, ma che in ciascun caso richiede un impegno di coscienza, che pretenderà una risposta, innanzitutto e soprattutto a se stessi, sulle scelte fatte, sulle loro ragioni e sulle loro passioni.
A volte l’esame di maturità ritorna nei sogni: come un incubo, forse, o solo come un’ansia d’incompiuto, quasi che quell’esame già fatto si riproponesse nell’inconscio per una conferma proprio della maturità acquisita, costruita, elaborata nel tempo, ora per ora, giorno per giorno, esperienza per esperienza, incanto per incanto, disincanto per disincanto.
Quest’anno si comincia il 20 di giugno con la prima prova scritta; il giorno successivo la seconda prova e il 25 la terza, il cosiddetto quizzone, che, a differenza delle altre due prove elaborate dal ministero, viene predisposta dalle singole commissioni.
Sarà anche l’anno del “plico telematico”, un progetto che prevede la trasmissione telematica delle prove scritte anziché l’invio dei fascicoli cartacei, e della cosiddetta “Commissione web”, un nuovo pacchetto software che le commissioni potranno utilizzare per la gestione delle attività relative agli esami.
Di antico, e bello, resta l’attesa dei ragazzi, delle ragazze, le loro paure più o meno angosciose; restano gli interrogativi e le ipotesi sui contenuti delle tracce, il conto alla rovescia dei minuti, resta l’insonnia e resta il batticuore davanti al cancello di scuola la mattina. Ha ragione Qòelet quando dice: generazione che va, generazione che viene, e le cose sono sempre quelle, sotto il sole. Perché questi ragazzi e queste ragazze che sono, o sembrano, così diversi da noi, che hanno altri linguaggi, altri interessi, altre canzoni, altre letture, altri sogni, altre illusioni e disillusioni, altri modi di essere e di esistere, sono fatti delle stesse emozioni di cui sono stati fatti i ragazzi di ogni tempo e di ogni luogo. Aspettano che venga dettata la prima prova e hanno le mani impiastricciate di sudore, e tirano sospiri profondi, e cercano di capire quant’è buono o cattivo il presidente, quanto sono buoni o cattivi i commissari esterni, e non pensano che quel presidente e quei commissari, in alcuni istanti di quella mattina, probabilmente hanno dentro gli occhi le scene dei giorni dei loro esami lontani e rivedono il proprio volto e quello dei compagni, di tutti i compagni perduti lungo la strada, di tutti quelli di tanto in tanto ritrovati. Poi, quando questa esperienza sarà conclusa, avranno istanti di felicità, qualcuno forse avrà una delusione, come accade sempre in ogni tempo della vita. Comunque saranno cresciuti. Andranno oltre quest’età, oltre i loro primi amori, i primi turbamenti, oltre quelle passioni che induriscono le ossa e a volte anche il cuore, saranno un po’ più uomini, un po’ più donne. Dopo quest’età, quelle che verranno passeranno più in fretta, molto più in fretta. Purtroppo.
Certo, si potrebbe discutere di quanto l’attuale struttura dell’ esame, le modalità di accertamento di conoscenze, competenze, abilità, possano essere confermate negli anni a venire, soprattutto in considerazione della revisione degli ordinamenti dei licei e degli istituti tecnici e professionali e della necessità di determinare un sistema di valutazione che consenta una comparazione con i risultati degli altri Paesi europei, e non solo. Probabilmente il percorso da seguire è quello di un sistema di certificazione delle competenze elaborato in maniera seria , con criteri e contenuti validi su tutto il territorio nazionale, che fornisca le indicazioni del livello di competenza raggiunto attraverso una descrizione analitica, che per lo studente possa essere anche uno strumento di orientamento verso le facoltà universitarie o i contesti lavorativi nazionali e internazionali.
Ma non è il tempo giusto per discutere di questo.
Talvolta si dice che l’esame di Stato non abbia più un valore autentico, quello che ha avuto soprattutto quando l’Italia passò dall’analfabetismo o dal semianalfabetismo ad una alfabetizzazione di massa. Però rimane identico il significato esistenziale dell’esame, perché lascia nella memoria una traccia incancellabile.
Allora, ai ragazzi e alle ragazze che quest’anno attraverseranno l’esperienza dell’esame, un affettuoso in bocca al lupo.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, 16 giugno 2012]
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Sono i giovani la ricchezza del Sud
Nel tempo della Storia, quarant’anni sono un fiat. Allora, in un fiat, entro il 2051, il Sud perderà oltre 2 milioni e 300 mila giovani al di sotto dei 29 anni. Questi sono i dati Svimez. Come sarà il Sud senza giovani. Prima di tutto sarà triste. Un luogo dove mancano i volti e le voci dei giovani è triste. Poi sarà senza entusiasmo, perché l’entusiasmo è soprattutto un privilegio dei giovani. Sarà un luogo senza energia, senza creatività, immobile, stanco, malato di nostalgia, con lo sguardo rivolto verso il passato. Sarà un luogo povero, un granaio vuoto, perché un luogo senza giovani non si trasforma, non si sviluppa, non si rigenera, non si rinnova, non progredisce. Sarà un luogo con una cultura rugosa, contratta, ripiegata su se stessa, priva di relazioni e di confronti. Avrà un economia senza dinamica. Sarà una società con le porte rinserrate, indifferente, e forse ostile, al nuovo, all’altro. Sarà un luogo deserto di futuro. Forse sarà un luogo marginale ed emarginato.
Allora la domanda è questa: chi vuole un Sud così. A chi giova. La risposta forse è semplice, addirittura semplicistica. Non può volerlo nessuno perché a nessuno può giovare. Non al Nord. Non all’Europa. Un Nord e un’Europa senza le risorse umane, culturali, materiali del Sud, sono impensabili.
Può essere, invece, che qualcuno voglia – perché a qualcuno giova – che il Sud sia colonia, quasi per una sorta di maledizione della Storia. C’è un punto nel Gattopardo in cui Don Fabrizio dice a Chevalley: da duemilacinquecento anni siamo colonia.
Ma sono in tanti a non volere neppure che il Sud sia colonia.
Di conseguenza, tutti coloro che non vogliono un Sud invecchiato, immiserito, contratto, rattristato, dissanguato, tutti quelli che non vogliono un Sud colonia anche perché la colonia si allargherebbe sempre di più fino a comprendere tutta l’Italia, devono fare in modo da evitare la fuga dei giovani, lo tsunami demografico, le nuove emigrazioni.
Devono farlo per tutto quello che possono, al meglio che possono.
Lo devono fare tutti coloro che si occupano di politica, di amministrazione a qualsiasi livello, di scuola, d’impresa, d’industria. Devono farlo tutti quelli che sono semplicemente cittadini e che hanno a cuore le sorti di questo Sud e quindi di questo Paese. Ha una gigantesca ragione Giorgio Napolitano quando dice che solo investendo sulle migliori risorse ed energie del Paese, e in particolare su quelle del Sud, finora lungamente sottoutilizzate, sarà possibile superare le attuali difficoltà di ordine economico e sociale e offrire una prospettiva di rilancio e di crescita sul piano nazionale.
Ma le migliori energie di un Paese, quelle che consentono di elaborare progetti di ampio orizzonte, sono quelle dei giovani. Di questo non si può dubitare.
Per cui diventa indispensabile, essenziale, il loro inserimento in ogni processo sociale, politico, economico, produttivo, culturale, in ogni contesto e in ogni situazione in cui si assumono decisioni e responsabilità. Non si può prescindere dal farli partecipare alla progettazione e alla realizzazione di tutto quello che li riguarda, e non c’è cosa che non li riguardi.
Ma, probabilmente, non sarà mai possibile scongiurare le previsioni di un Sud svuotato dell’energia vitale dei giovani, senza un nuovo pensiero del Sud, un modo diverso di pensare il Sud.
I modi di pensare sono determinati prevalentemente o quasi esclusivamente da due condizioni: l’esperienza e la formazione. Peraltro, spesso è la formazione che dà connotazione all’esperienza. Di conseguenza sono i luoghi che fanno formazione a dover costruire una nuova idea di Sud e un diverso modo di confrontarsi con questa idea, di fare esperienza. Quindi è un processo che può essere elaborato pressoché esclusivamente dalla scuola: da quella dell’infanzia all’università. Non c’è altra possibilità.
Occorre costruire un pensiero di Sud coerente con quelli che sono i caratteri e le espressioni di questo secolo nuovo, di questo nuovo millennio. Eppure non basta. Occorre anche una capacità di configurare una visione del futuro del Sud e quindi acquisire competenze e abilità che consentano di muoversi nel futuro.
Chi dovrà muoversi nel futuro del Sud sono i bambini, gli adolescenti, i giovani di oggi. A loro, dunque, si deve insegnare a pensare un nuovo Sud e ad elaborare una visione del futuro ed una loro posizione in quel futuro. Naturalmente il loro percorso dovrà essere orientato verso quella visione e quella posizione. Se si volesse, tutto questo processo si potrebbe sintetizzare nell’espressione “progetto di vita”. Poi, siccome non riguarda soltanto una persona, si potrebbe chiamare progetto di una comunità, oppure progetto del Sud: della vita, per la vita del Sud.
I nomi possibili sono tanti, e forse non cambiano la sostanza, a condizione però che la sostanza non venga snaturata, tradita.
Se nel tempo della Storia quarant’anni sono un fiat, certo non ci si può permettere di indugiare. Si è già indugiato anche troppo, forse. Oltretutto, ogni formazione ha bisogno di tempi lunghi e, innanzitutto, ha bisogno di essere progettata, in questo caso anche in una continuità verticale che coinvolga tutti i settori formativi e in una continuità orizzontale che interessi ogni settore sociale. Serve un’azione congiunta e convergente. Serve abbandonare qualsiasi tentazione di chiusura, di autoreferenzialità, di comoda coltivazione del proprio orticello. Perché il proprio orticello, a riflettere, non produce nulla o produce troppo poco, per cui da quell’orticello prima o poi bisogna andar via. E’ l’insieme di tutti gli orticelli che fa una grande terra. Soltanto realizzando una grande terra, sarà possibile che i giovani rimangano a coltivarla.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, 23 luglio 2012]
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In classe emerge la distanza tra Nord e Sud
Delle prove Invalsi si dice bene e si dice male. Si dice che servono e che non servono. Che sono attendibili e inattendibili. Certo, un sistema perfetto di valutazione è pressoché impensabile, se il termine perfezione viene associato all’espressione di oggettività assoluta. Perché nello svolgimento delle prove intervengono, per fortuna, elementi di soggettività che derivano dalla irripetibile personalità di ciascun alunno.
Probabilmente, prima e sotto e dentro ogni atto di valutazione di uno studente, ci dovrebbe essere una profonda riflessione su quello che dice Franz Kafka nei suoi Quaderni in ottavo: “l’unica capace di giudicare è la parte in causa, ma essa, come tale, non può giudicare”.
Ma un sistema di valutazione che in qualche modo rappresenti il livello degli apprendimenti in tutto il Paese e che consenta una comparazione con quello degli altri paesi d’Europa, risulta una condizione necessaria, indispensabile. Più che mai ora, che l’Europa attraversa una crisi che affonda le radici anche nel fatto che si sia trascurata la costruzione di una unità culturale, pur nelle specificità di ogni realtà nazionale, anche regionale, anche sub regionale.
I risultati delle prove Invalsi 2012, che complessivamente hanno coinvolto 31.000 scuole, 141.000 classi e 2.900.000 studenti, con lo scopo di migliorare e rendere più omogenea la qualità della scuola italiana, elaborando valutazioni e mettendo a disposizione delle istituzioni e delle singole scuole i risultati, sostanzialmente confermano quelli registrati negli anni scorsi, con un divario tra il Nord e il Sud del Paese, ma con una tendenza e una tensione verso una consistente ripresa da parte di alcune regioni meridionali come Puglia, Abruzzo e Basilicata. Lo si dice senza neppure tentare di celare il piacere e l’orgoglio.
Dai risultati si evince che lo scarto a vantaggio del Nord, per quanto riguarda gli apprendimenti nella comprensione della lettura e nella matematica, diventa sempre più consistente con il crescere dell’età degli studenti e quindi con il passaggio nei diversi gradi di istruzione.
Ora, siccome la cosa che probabilmente ha più senso consiste nell’individuare le possibili soluzioni (che certamente esistono e sono molteplici), forse converrebbe soffermarsi per qualche riga proprio sulla condizione dell’accentuarsi del divario in relazione al livello di istruzione. Innanzitutto è indispensabile stabilire tra le scuole coinvolte nel processo di crescita e di apprendimento di un alunno quali sono gli elementi su cui orientare comportamenti convergenti.
Un solo esempio, allora.
I contenuti e l’organizzazione delle discipline.
Se si fa riferimento – non casualmente – al passaggio dalla secondaria di primo grado a quella di secondo grado, risulta immediatamente evidente come la struttura delle discipline e la loro organizzazione siano elementi che incidono notevolmente e significativamente sulla coerenza e sulla coesione del processo di apprendimento.
In questo caso la scuola che congeda e quella che accoglie devono individuare non solo elementi ma anche condizioni (quindi organizzazione, quindi metodologia) di raccordo tra i modelli teorici e le procedure didattiche.
Questo è un lavoro che, ovviamente, va fatto a priori, cioè in fase di progettazione di curricolo e di continuità verticale.
Ma per essere davvero realisti dobbiamo dirci che quasi mai si fa e che se si fa in qualche caso è un’eccezione che conferma la regola.
Si deve anche dire, comunque, che il sistema dell’orientamento e delle iscrizioni prevede tempi e modalità che non consentono di individuare con un certo anticipo la scuola di destinazione dell’alunno.
Se si propone questo esempio è per il fatto che è proprio il passaggio dalla scuola media al biennio della superiore a costituire il legame debole della continuità.
Si tratta, ovviamente, di un’esemplificazione e anche di una semplificazione alquanto sommaria, che però vorrebbe tentare di dimostrare questo: il problema del Sud sta tutto nell’organizzazione delle energie. Nel caso delle differenze negli apprendimenti, come in altri casi.
Basterebbe, dunque, soltanto un potenziamento dell’organizzazione del processo di insegnamento e di apprendimento, per recuperare, anche in poco tempo, la distanza rispetto al Nord. Perché indubbiamente non c’è differenza tra l’intelligenza degli studenti del Nord, del Sud, dell’Est e dell’Ovest; non ce n’è neppure tra quella dei docenti, né tra la loro formazione, per cui l’unica condizione che probabilmente costituisce una variante che determina il risultato è appunto l’organizzazione.
Allora non si tratta di dire bene o di dire male delle prove Invalsi, di innescare ogni anno polemiche pregiudiziali sull’obbligatorietà o sull’opportunità di queste prove. Piuttosto si tratta di approfittare di un’occasione finalizzandola ad un costante processo di costruzione della qualità della formazione.
Opportunisticamente: se i risultati dell’Invalsi sono attendibili – e sinceramente non riesco a trovare una ragione per dubitare- non si può evitare di intervenire per migliorarli. Se non lo fossero, per cui ipoteticamente gli studenti del Sud avessero già la stessa qualità degli apprendimenti di quelli del Nord, un intervento di potenziamento avrebbe l’effetto di orientare verso l’eccellenza. Che non è poco.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, 10 agosto 2012]
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Perché i giovani devono iscriversi all’università
Chi
quest’anno ha concluso la scuola superiore e si è già iscritto all’università o
sta ancora riflettendo sul tipo di studi da intraprendere, anche approssimando
previsioni su quelle che saranno le opportunità di lavoro, se non ha una
corazza di passione e una volontà che come testa d’ariete è capace di sfondare
le mura di ogni difficoltà, alla lettura dei dati Istat riferiti al primo
trimestre di quest’anno viene assalito dallo sconforto, o quantomeno dal dubbio
che si traduce nella domanda se davvero varranno a qualcosa l’impegno, i
sacrifici, le attese, le speranze, i sogni, o se non è meglio accontentarsi
della prima occasione che capita, appallottolando il diploma e con esso i
desideri, le prospettive, le belle illusioni.
La stessa cosa, forse in maniera anche più accentuata, accade a quel genitore
normale con un reddito normale che deve investire buona parte dei risparmi per
l’università del figlio. Si domanda se valga la pena farlo ancora studiare.
Semplicemente così: se ne vale la pena.
Poi talvolta i figli sono due, e le domande non si raddoppiano ma si
moltiplicano.
Dicono i dati Istat, dunque, che le persone con un titolo di laurea e anche
post laurea in cerca di lavoro sono 304 mila: trecentoquattromila; lo si
scrive in lettere caso mai si pensa a qualche refuso. E’ il livello più alto
degli ultimi dieci anni. Su base annua l’aumento è del 41,4 %.
Quella che viene definita la società della conoscenza, mortifica la conoscenza e la competenza, destina all’incertezza, alla precarietà, alla marginalità. Umilia. Mortifica. Il titolo di studio come vuoto a perdere.
Allora figlio e genitore si dicono che è meglio fermarsi alla scuola superiore, compiendo un atto di resa senza condizioni, rinunciando all’aspirazione di una realizzazione personale che costituisce una delle condizioni per la crescita collettiva.
A
rifletterci appena un attimo, è stata proprio questa aspirazione che, dal
dopoguerra a poco tempo fa, ha dato all’Italia la possibilità di diventare una
delle nazioni culturalmente ed economicamente più avanzate. Sono stati i
contadini, gli operai, gli impiegati statali, i piccoli commercianti, i piccoli
artigiani che hanno risparmiato su tutto per mandare i figli a scuola. Perchè
avevano la speranza che il titolo di studio potesse consentire una
condizione migliore.
Adesso invece si arrendono. Sopraffatti dall’incertezza, confusi dalla foschia
dell’orizzonte.
Si arrendono ed è l’errore più grave che si possa commettere, quello che si
pagherà al prezzo più caro.
Innanzitutto
accadrà che continuerà a studiare solo chi ha possibilità economiche.
Studieranno soltanto i figli dei ricchi. Non è un concetto e un lessico da
Scuola di Barbiana, un ideologico anacronismo. Sarebbe una conseguenza naturale
che genererebbe un vortice pericolosissimo a livello sociale, una mutazione
radicale della fisionomia della civiltà.
Allora si ha il dovere di pensare che la situazione che viviamo deve cambiare e
che il cambiamento può essere determinato solo da una visione nuova e da nuovi
processi realizzati da energie professionali con una formazione adeguata ai
contesti sociali, politici, economici e ai testi culturali che i contesti
realizzano.
Quando si placheranno le tempeste finanziarie – perché quelle arrivano e poi passano (si spera) – probabilmente ci si ritroverà in una situazione europea e mondiale radicalmente trasformata, che avrà necessità urgente di nuovi modelli di pensiero capaci di interpretare segni e significati forse inediti.
Senza una formazione ad un tempo complessiva e settoriale questa capacità ermeneutica non si acquisisce. Le forme di pensiero non provengono dal nulla, ma da una profonda elaborazione del pensiero precedente, da un’analisi degli esiti positivi e di quelli negativi che esso ha prodotto.
Dobbiamo far studiare i giovani soprattutto per questo: perché trovino il modo per riparare ai nostri errori, che sono stati tanti, che continuano ad essere tanti, vecchi e nuovi; perché trovino il modo anche di attribuire valore e senso a quello che di buono abbiamo fatto, che comunque c’è stato e forse non è stato poco.
La resa di fronte alle difficoltà del presente potrebbe compromettere seriamente le strutture sociali del futuro di questo Paese, forse anche della sua democrazia.
Quando il sapere è patrimonio di pochi, si risolve in un vantaggio individuale che esclude quello collettivo. La crescita di una comunità richiede e pretende l’integrazione e l’interazione di una pluralità di vigori intellettuali, di creatività. Non solo: ha bisogno di un profilo formativo senza differenze marcate, perché tutti siano in grado di assumere consapevolmente decisioni e responsabilità.
C’è chi pensa che la ricchezza di un Paese sia determinata dalla capacità che esso ha di produrre innovazione, ricerca, cultura.
Per fortuna che c’è chi pensa questo. Ancora. Si spera che lo pensino in tanti. Che lo pensino tutti.
Per cui occorre che tutti trovino il modo per far studiare i figli ai quali questa Italia dev’essere affidata, dei quali questa Italia si deve fidare.
Allora chi quest’anno ha concluso la scuola superiore, continui a studiare, anche facendo sacrifici. Le opere fatte con i sacrifici sono quelle che sono riuscite meglio. Sempre, in ogni tempo, in ogni luogo.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, 22 agosto 2012]
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Il nuovo spettro dell’Italia futura: l’analfabetismo
Tra vent’anni, in Italia, una quota molto consistente della forza lavoro rischia l’analfabetismo. Lo ha detto, quasi come un allarme, Enrico Giovannini, presidente dell’Istat.
Tra vent’anni, dunque, questo Paese si potrà ritrovare in un vortice di regressione culturale che inevitabilmente coinvolgerà le condizioni sociali, economiche, il benessere individuale e collettivo, le forme di cittadinanza consapevole, la partecipazione democratica, le espressioni di pensiero. Questa situazione del futuro sarà determinata da almeno due condizioni del presente: il fatto che oltre il 40% dei ragazzi immigrati non finisca la scuola dell’obbligo e il fenomeno complessivo di oltre due milioni di “Neet” – not in education, employment, training – i giovani tra i quindici e i ventinove anni che non studiano e non lavorano. Una quota pari al 23,4% della popolazione di quell’età. Ecco, quindi, che i conti tornano. Questa percentuale costituirà la sacca di analfabetismo che probabilmente provocherà l’irrigidimento del processo di sviluppo di questo Paese. Accadrà in un contesto mondiale in cui ci sarà la necessità di conoscenze, competenze e abilità che nei diversi settori del lavoro riescano a confrontarsi con vecchi e nuovi bisogni, con modalità di accesso sempre più complesse e in continua trasformazione, con tecniche e strumenti che richiederanno formazione specifica, in un mercato feroce, in situazioni di mobilità territoriale e lavorativa sistematica, strutturale.
Se i segni dei tempi che viviamo significano qualcosa, se le direzioni che indicano non ingannano, accadrà proprio quando si rivelerà indispensabile possedere capacità cognitive che siano in grado di consentire una costante, e anche rapida, comprensione dei fenomeni sociali e, all’interno di essi, di quelli che riguardano il lavoro.
In un articolo apparso recentemente sul “ Corriere della sera”, l’antropologo francese Marc Augè ipotizzava che il rifiuto di pensare insieme i problemi dell’economia e dell’educazione, sia la causa profonda dei nostri fallimenti nei due campi.
Ma che la formazione rappresenti una condizione che incide in modo estremamente significativo sui fatti dell’economia, che l’una e l’altra risultino annodate da una reciprocità strutturale, lo dicono gli economisti.
Di conseguenza, un Paese che non intenda ritrovarsi ( o persistere?) in una situazione economica di precarietà e di squilibrio, deve necessariamente e prioritariamente investire energie e risorse negli ambiti della formazione, a tutti i livelli: da quella di base a quella secondaria, post secondaria, a quella per gli adulti, all’ istruzione e alla formazione permanente, intesa non solo come acquisizione di competenza a fini professionali, ma anche con finalità civili e sociali, come esercizio del diritto di apprendere e crescere ad ogni età e quale che sia la condizione sociale.
Ma prima di ogni altra cosa, ha bisogno di un pensiero nuovo, elaborato sulla base delle esperienze negative, per evitarne la ripetizione e la riproduzione, e di quelle positive, per favorirne la diffusione. Ogni pensiero nuovo, ogni nuova visione, proviene da conoscenze acquisite nell’ambito della formazione, dalla capacità di stabilire relazioni tra la storia e il presente, da una creatività che consente di proiettare negli scenari del futuro quelle relazioni.
La creatività, si sa, è tutt’altro che improvvisazione; è opzione all’interno della conoscenza.
Si ha l’impressione, talvolta, che i codici della politica e dell’economia ai quali abbiamo fatto e stiamo facendo ancora riferimento, si siano accartocciati o si stiano accartocciando.
Si ha l’impressione che non valgano più o che non varranno per molto i sistemi con i quali la politica e l’economia si sono rappresentate. Non occorre essere sociologi, politologi, economisti, per capirlo. Forse non occorre nemmeno mettersi intenzionalmente a pensare. Basta solo guardarsi intorno, leggere i giornali.
Allora l’uomo della strada si chiede che cosa accadrà quando i codici saranno diventati completamente indecifrabili e non si avranno più nemmeno gli incerti riferimenti che si hanno.
L’uomo della strada è colui che più di ogni altro ha il diritto e il dovere di farsi domande e di pretendere risposte. Perché l’uomo della strada è quello che paga tutte le conseguenze determinate dalle scelte politiche e da quelle economiche.
La risposta semplice, semplicistica, che gli viene è che i codici saranno riscritti da generazioni che siano in grado di proporre linguaggi e contenuti nuovi.
I codici con linguaggi e contenuti nuovi devono essere compresi da tutti, per cui ci sarà bisogno di cittadini attivi, consapevoli, critici. Se questo è un aspetto fondamentale della democrazia, una forte percentuale di analfabetismo determina la conseguenza di una ridotta democrazia.
La formazione è l’unico strumento che consente la decodifica, l’analisi, la comprensione, l’interpretazione, l’elaborazione di linguaggi nuovi. ( Io, almeno, non ne conosco un altro).
Quindi la formazione è l’unico sistema in grado di preparare vigili sentinelle della democrazia.
Ma non possiamo pensarci tra vent’anni, quando il fenomeno dell’analfabetismo si sarà radicato. Dobbiamo pensarci ora. Subito. Perché l’Italia ha già fatto l’esperienza che l’analfabetismo è come la gramigna: si diffonde rapidamente ed è difficile da estirpare.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, 1 ottobre 2012]
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Bisogna diffidare di chi parla solo «alla gente»
La gente. Tutti dicono – tutti diciamo – la gente. La gente pensa, la gente parla, la gente si aspetta, pretende, domanda, la gente subisce, viene ingannata. La gente sta bene, la gente sta male. La gente ha torto, la gente ha ragione. Bisogna tener conto dell’opinione della gente, dei bisogni, delle speranze della gente. Bisogna restituire la politica alla gente, realizzare un’economia a misura della gente. La crisi prosciuga i risparmi della gente.
La gente, sì. Ma chi è la gente. Da chi è composta questa categoria imprecisata, questa moltitudine senza identità, questa massa senza fisionomia. A chi ci si riferisce quando si dice la gente.
Forse la gente non ce la fa più a sentirsi chiamare la gente. Ogni persona con un nome, un volto, una storia, vorrebbe essere chiamata persona. Un insieme di persone, nella concretezza dell’esperienza storica e sociale che vivono, vorrebbero essere chiamate persone, non gente. Considerate in sé o nelle loro funzioni, nella loro singolarità e irripetibilità, nelle loro dimensioni relazionali, nella loro significativa e positiva e democratica diversità di etnia, sesso, età, condizione economica, cultura. Con un qualità per ogni diversità.
Non la gente povera ma le persone povere. Non la gente delusa, ma le persone deluse. Una, due, tre, cento, mille, un milione e più di persone deluse. Non un ammasso informe ma rispettosi distinguo.
Non è la gente ma sono le persone, ogni persona, ciascun cittadino, a pagare il debito pubblico che non ha fatto.
Sono le persone che hanno diritti e doveri, che sono assenti o presenti, coinvolte o indifferenti, che hanno volontà e sentimenti, che tollerano anche quando si indignano, non la gente. La gente non è intelligente; le persone sono intelligenti. Non è la gente ma sono le persone che hanno pazienza e possono spazientirsi.
Chi dice la gente stabilisce una distanza tra se stesso e gli altri. Elabora un’astrazione per non confrontarsi con la consistenza della realtà. Si pone in una dimensione e in una condizione preminente, non si sente parte, più o meno inconsciamente assume una posizione di superiorità, verticalizza il rapporto con gli altri.
La gente che ci ascolta, dicono in televisione. Ma quale gente. Nella maggior parte dei casi sono due, tre persone, oppure una soltanto. Nelle loro case, magari dentro quelle case pagate con il mutuo. Ma quale gente. Il pensionato con quattro soldi, il disoccupato, il cassintegrato, l’esodato, il licenziato, il padre e la madre di famiglia acrobati loro malgrado sull’esile filo di uno salario con il quale arrivare a fine mese? Sono queste persone che vengono chiamate la gente? Ma questa non è la gente. Sono le persone con la loro dignità e la loro disperazione.
Il rispetto della persona costituisce il fondamento di ogni relazione. Anche della relazione con se stessi, in termini di rispetto di se stessi. Per cui nessuno può prescindere dal riconoscimento del valore della persona e dalla considerazione di quel suo valore assoluto, che non può essere barattato con niente.
Il rispetto comincia dalle parole con cui si definisce la persona. Perché le parole, si sa, traducono concetti, visioni delle cose, idee radicate più o meno profondamente.
Dire le persone è completamente diverso dal dire la gente. Persona esprime un senso di interazione, di reciprocità, di vicinanza. Gente, invece, esprime un senso contrario.
Gente è un iperonimo che rende tutto confuso, che mette al riparo dal faccia a faccia, dal confronto tra identità reali. Spesso si dice gente per non rivolgersi a nessuno in particolare, per impedire che le persone si riconoscano nel riferimento, nel contesto del discorso, per impedire che possano replicare.
Quelli che affermano di rivolgersi alla gente, di pensare, di parlare, di agire a favore della gente, negli interessi della gente, stanno mentendo spudoratamente. Perché non si può essere a favore o contro tutta la gente. Si è a favore o contro determinate persone, determinati interessi delle persone, per cui si dev’essere necessariamente a favore o contro altre persone e i loro interessi.
A quale gente si rivolgono, negli interessi di quale gente pensano, parlano, agiscono? Per un uomo, una donna, un giovane, un vecchio, un bambino? Per tutti i giovani, i vecchi i bambini indifferentemente, quale che sia la loro condizione? Perché gli interessi delle persone sono diversi e in relazione a una serie di circostanze e condizioni, a seconda di come va e viene la fortuna, per cui diversi devono essere per forza di cose i pensieri, le parole, le azioni. Sostenere genericamente di parlare indistintamente alla gente è demagogico, è un imbroglio, un raggiro.
La gente di imbrogli non ne vuole, e quando si ritrova costretta a subirli, vuole sapere da chi vengono e a chi sono diretti, a quale singola persona, o a quale genere di persone, a quali categorie. Se non altro per sapere come e da chi deve difendersi, da chi deve guardarsi il petto e le spalle.
Più passa il tempo e più la gente non intende continuare a sopportare di essere trattata come gente. La gente non è stupida. Spesso, quasi sempre, è soltanto generosa. Anche con gli egoisti.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, 15 ottobre 2012]
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Che tristezza questa politica lontana dai giovani
Uno dei fenomeni più tristi che il tempo che viviamo ha generato è l’indifferenza dei giovani nei confronti della politica. Non si tratta di disamore, di avversione, di insofferenza. Non sono scontenti, delusi, incerti, diffidenti, sfiduciati. Sono indifferenti. E’ un’indifferenza fredda, un disinteresse opaco, un’estraneità impassibile. La politica non appartiene ai loro pensieri e quindi non attraversa i loro discorsi. Verso la politica non hanno tensioni, su di essa non ripongono speranze. Non si domandano se crederci o non crederci, né se questo sia giusto o sbagliato, se sia bene o sia male. Semplicemente: sono indifferenti. Per la loro indifferenza spesso li accusiamo. Invece di accusarci, li accusiamo. Invece di ammettere, di confessare, che non abbiamo saputo educare un pensiero politico, che non abbiamo avuto capacità di elaborare visioni, che non siamo riusciti a costruire riferimenti né a consegnare valori e missioni, che non siamo stati in grado di definire modelli, che non abbiamo contagiato passioni, invece di riflettere sui fallimenti delle nostre generazioni, noi accusiamo le loro generazioni di indifferenza. Per la loro indifferenza mostriamo disappunto anziché farci assalire dalla tristezza. Perché il sentimento dovrebbe essere proprio quello della tristezza. Come se si guardasse un oliveto in cui giovani alberi stanno seccando. Perché anche solo l’ipotesi di una mancata o inadeguata o ridotta partecipazione dei giovani al confronto e alla vita della politica provoca un abbassamento della qualità della stessa politica e quindi della dimensione sociale, del livello di democrazia. Una delle scene più affascinanti che si possano vedere, è quella di una pacifica manifestazione di studenti. Uno guarda e pensa che sanno stare insieme. Sì, è vero che a volte è goliardia, che a volte non sanno nemmeno perché manifestano, che a volte è soltanto un pretesto per saltare un giorno di scuola. E’ vero. Però una guarda e pensa che sanno stare insieme, che hanno ancora voglia di alzare una bandiera. Sempre più raramente le bandiere sono quelle dei partiti. Sempre più spesso la bandiera è quella della pace. Forse non c’è niente di più bello di una scena in cui cento, mille, due soli studenti, manifestano sotto la bandiera della pace. Uno guarda e pensa che ci credono. Uno guarda e pensa che se ci credono loro, vuol dire che le cose possono cambiare. Che può cambiare il mondo.
Che per cambiare le cose, per cambiare il mondo, bisogna stare insieme e avere una bandiera – un ideale, un valore, un sogno-, e loro stanno insieme e hanno una bandiera. Allora per la loro indifferenza verso la politica, dovremmo farci carico di un sentimento di tristezza; questo sentimento dovrebbe farci onore. Questo sentimento dovrebbe muoverci ad una riconsiderazione radicale dei nostri modi di pensare e di agire la politica. Dovrebbe farci recuperare una dimensione pedagogica della politica, spingerci anche a cercare buoni maestri per proporli come riferimenti. Non ci si appassiona al calcio, al gioco degli scacchi, alla musica, alla letteratura, alla pittura, se non si hanno buoni maestri. Nemmeno alla politica. Forse non ha più senso domandarsi quali siano state le cause che hanno determinato l’indifferenza. A cercare le cause ci si ritroverebbe impigliati in un groviglio. Forse ha senso domandarsi quali possano essere le maniere, i metodi, i sistemi, per mitigare il freddo di quell’indifferenza. Quale istituzione, quale realtà sociale, può sostenere il progetto di un pensiero nuovo, di un pensiero che rifiuti l’indifferenza. Un’educazione alla politica non può realizzarsi senza un’educazione alla cittadinanza. In questo secolo, ma anche nel secolo scorso, almeno dalla metà degli anni Settanta in poi, in Italia, e forse anche in Europa, si sono configurate situazioni per le quali una educazione alla cittadinanza, diventa possibile soltanto nei luoghi in cui si fa formazione in modo strutturale, sistematico e costante. Come è accaduto per molte situazioni, quando crollano le torri che sembrano incrollabili, i luoghi in cui si fa formazione rimangono a difendere tutto quello che c’è da difendere e s’ingegnano per ricostruire sulle macerie. Lo hanno sempre fatto e continuano a farlo. Giorno dopo giorno. Le scuole, le università, formano pensieri attraverso le discipline che sono i soli strumenti che hanno ma che sono anche quelli che durano più di qualsiasi altro, che più di tutti gli altri rivelano nel tempo la loro consistenza. Che cosa più della storia può educare alla cittadinanza e quindi anche alla politica. Che cosa più della filosofia, della psicologia, della sociologia, del diritto, che cosa più della letteratura e delle scienze che indagano l’umano può consentire una riflessione profonda sul proprio essere e sul proprio essere nel mondo e per il mondo. Probabilmente solo da una riflessione sul proprio essere per il mondo si può sviluppare una consapevolezza dell’essenzialità della partecipazione di tutti e di ciascuno alla vita di un Paese, dell’importanza che il proprio pensiero e la propria azione assumono nella crescita di una società. Probabilmente la consapevolezza di sé, la fiducia nel proprio essere e nel proprio sapere, la convinzione di possedere l’intelligenza e la competenza che servono a cambiare i sistemi di pensiero superati, sono le condizioni che diraderanno la nebbia dell’indifferenza per la politica che è calata sulle nuove generazioni. E’ una speranza che un poco ci consente di reagire al sentimento della tristezza.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 22 ottobre 2012]
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Gli studenti stranieri, una risorsa per il futuro
Trent’anni fa, gli studenti stranieri nelle scuole italiane erano poco più di 6.000; nell’anno scolastico 2005/2006 erano 431.211; l’anno scorso erano qualcuno in più di 711.000. Quest’anno gli alunni con cittadinanza non italiana sono circa 756.000.
Nella scuola dell’obbligo su 100 alunni 9 sono stranieri. Provengono da 200 Paesi, soprattutto dalla Romania che raggiunge una percentuale pari al 18,7% dell’intera popolazione scolastica straniera, dall’Albania con il 13,6% e dal Marocco con 12,7%.
Una crescita costante, dunque, consistente, significativa. Che richiede e impone un confronto più intenso con questa realtà rispetto al passato, una diversa analisi e interpretazione del fenomeno, un impegno energico e sistematico, metodi e strumenti di insegnamento, di organizzazione e di gestione che escludano qualsiasi provvisorietà e qualsiasi improvvisazione, una finalità e una prospettiva culturale aperta e dinamica.
Molto spesso, quasi sempre, tutto quello che accade nelle aule di scuola, costituisce un’anticipazione di quello che accadrà o una rappresentazione di quello che accade negli altri contesti sociali. I fenomeni, le storie, le situazioni, il sistema delle relazioni, le espressioni della cultura, si generano e maturano, prima che in ogni altro luogo, a scuola, e poi realizzano il passaggio nelle dimensioni più ampie, conservando e sviluppando i caratteri e i profili di identità e di riconoscibilità acquisti nel processo di formazione.
Per esempio, quando nei diversi settori del sociale ci si confronta con i concetti e con le manifestazioni fondamentali di una società multiforme e complessa, dalle molte etnie, dalle molte culture, dalle molte lingue, dalle molte religioni, dalle molte forme di esistenza, non si può fare a meno di considerare che con questi concetti e con queste manifestazioni la scuola si è già confrontata e che, di conseguenza, da essa si potrebbero mutuare esperienze di convivenza, di comunicazione, di valorizzazione delle specificità di ogni cultura. I dati forniti dal Ministero dell’Istruzione non solo definiscono il ritratto composito delle cittadinanze presenti nella scuola italiana di questi anni, ma proiettano questo ritratto nella società del tempo a venire delineandone la sua configurazione.
Una situazione di questo genere rende completamente superate tutte le teorie e tutte le pratiche che si limitano all’accoglienza, all’inserimento e per certi aspetti anche all’integrazione.
Indubbiamente sono concetti che hanno avuto una logica e una funzione per tutta la seconda metà del Novecento, ma che ora hanno bisogno di una più forte e sostanziale visione di reciprocità e di interazione culturale orientata alla costruzione di una cittadinanza mondiale che, in quanto tale, si strutturi in ampi spazi di dialogo, con la ricerca di occasioni di incontro, attraverso una relazione di identità e differenza, adottando metodi di cooperazione, assumendo come riferimenti imprescindibili, essenziali, i principi di convivenza, comunità, uguaglianza, solidarietà, democrazia.
Probabilmente non ci sono alternative, perché fuori da queste condizioni si apre il deserto dell’incomunicabilità e quindi del conflitto.
Ma ora, sulla base delle esperienze attraversate, dei processi realizzati, anche la scuola deve andare oltre, rimettersi in tensione, sfidarsi per superare l’acquisito anche attraverso la riflessione e l’applicazione della lezione che Edgar Morin propone nei Sette saperi necessari all’educazione del futuro.
Dice Morin, fra l’altro, che l’educazione dovrebbe comprendere un insegnamento primario e universale che verta sulla condizione umana. “Siamo nell’era planetaria; un’avventura comune travolge gli umani, ovunque essi siano; devono riconoscersi nella loro comune umanità, e nello stesso tempo devono riconoscere la loro diversità, individuale e culturale”.
Allora, la presenza rilevante e in progressivo aumento di alunni stranieri, mette la scuola nelle condizioni di diventare un laboratorio di comune umanità, il luogo in cui si sperimenta una cittadinanza terrestre che si nutre di una positività di differenze.
In un recente saggio su Immigrazione e consumi culturali, Mariangela Giusti sostiene che la sfida che attende insegnanti e educatori per gli anni futuri consiste nel costruire nelle classi e nei gruppi di apprendimento plurietnici, “ un sapere non settoriale ma unificato, pluridimensionale, che contribuisca alla formazione di futuri adulti e futuri cittadini con dei punti di riferimento culturali e identitari locali e globali allo stesso tempo, radicati nella geostoria locale ma proiettati in una dimensione antropologica che riguarda il mondo”.
Ma probabilmente oggi è già il futuro. Il compagno e la compagna di banco sono quell’uomo e quella donna che domani saranno vicini di casa, o che forse vivranno nella stessa casa. Lo scambio della merendina, delle parole di lingue diverse, di libri da leggere, di pensieri, di paure, di racconti, cancellano ogni distanza. Tra i bambini accade in modo spontaneo, naturale. Sono i pregiudizi degli adulti che spesso alzano muraglie di diffidenza e di estraneità. Ecco, in una classe di scuola può dissolversi la diffidenza, può sgretolarsi qualsiasi sentimento di estraneità. Quelle esistenze che oggi crescono insieme in una classe di scuola, domani vivranno insieme in una città, e forse faranno città migliori di come sono oggi le città. Forse saranno cittadini migliori di quelli che oggi deturpano le città. Ecco, forse le diversità rappresentano la speranza di sopravvivenza della nostra civiltà.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, 19 novembre 2012]
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Ci siamo ridotti a parlare una brutta lingua
Compongo un numero e alla voce che risponde chiedo di un impiegato dell’ufficio al quale ho telefonato. Allora la voce gentilmente dice: – glielo passo, un secondino-.
La prima cosa che mi viene in mente è l’incipit di una canzone di Storia di un impiegato di Fabrizio de’Andrè, che dice: “ di respirare la stessa aria di un secondino non mi va”.
La seconda sono alcune pagine sfuocate nella memoria delle Mie prigioni di Silvio Pellico, nelle quali frequentemente viene usato il termine secondino.
Allora penso di aver sbagliato numero, ufficio, persona.
Poi però realizzo che secondino è un termine desueto, sostituito con agente di custodia, guardia carceraria, agente di polizia penitenziaria.
A chi mai, oggi, verrebbe di impiegare il termine secondino?
Dopo un poco capisco: un secondino ha sostituito un attimino. Attenda un attimino. Mi scusi un attimino. Mi dia un attimino. Oppure, peggio: sono un attimino impegnato. Sono un attimino confuso. E’ un attimino antipatico.
Così, nell’attesa, mi soffermo a fare il punto. Un attimino.
Attimo, dicono i dizionari, deriva dal greco “atomos” e significa frazione minima di tempo. Non so se la frazione minima di tempo sia indivisibile, ma suppongo di sì, essendo appunto minima. Di conseguenza non mi spiego come si faccia a ricavarne una più piccola come un attimino.
Ma in realtà il discorso è anche più complicato perché la voce al telefono ha detto un secondino. Allora nei secondini di attesa cerco di ricordare una definizione sbirciata una volta in un manuale di scuola che definiva il secondo come l’intervallo di tempo impiegato da una particolare onda elettromagnetica, emessa da atomi di cesio, per compiere 9. 192. 631. 770 oscillazioni.
Un qualcosa del genere, insomma, oscillazione più, oscillazione meno. Ma nonostante il dubbio relativo sia alla definizione sia al numero delle oscillazioni, mi chiedo quanto potesse durare mai un secondino.
La sola certezza che ho è che nell’attesa sono passati già dieci minuti: un tempo sufficiente per riflettere che se la lingua è anche logica, in questa e in tante altre espressioni come questa, non c’è logica.
Questa e altre espressioni come questa sono l’esito di superficialità, di approssimazione, di sciatteria linguistica, di trascuratezza, di noncuranza. Evidenziano una totale assenza di riflessione semantica.
Finanche di una incuria estetica. Perché dire un attimino è brutto. Dire un secondino è raccapricciante.
Sono ormai decenni che parliamo una lingua brutta. Non solo è povera di lessico, sintatticamente approssimativa, articolata in modo rudimentale.
Non solo è vaga, generica, superficiale, slavata, gergale.
E’ brutta. Perché quando l’ovvietà diventa maniera si trasforma in bruttezza.
L’ovvietà, la mancanza di profondità e di sfumatura della lingua che parliamo, è diventata maniera.
La televisione ha avuto una funzione devastante. Ha proposto modelli linguistici preconfezionati, conformati, tendenti al basso, spesso volgari, e la volgarità è bruttezza. La sovrabbondanza di forestierismi, il loro uso ingiustificato, talvolta – spesso- anche improprio ha corrotto la natura della lingua, e la corruzione è bruttezza.
Non c’è discorso durante il quale non parta la schioppettata di uno step by step, o di un customer satisfaction, o di uno stand by.
Cosi resto in stand by al telefono, con l’ansia di un feedback, mentre i secondini passano, uno dopo l’altro, e l’election day si approssima.
Ci siamo giustamente ribellati al latinorum dei don abbondio, ma baciamo la mano ai sacerdoti del mercato e dell’intruglio linguistico globalizzato.
Diceva alcuni giorni fa Andrea Camilleri in una Lectio magistralis tenuta all’Università di Urbino che “l’italiano viene quotidianamente sempre più vilipeso e indebolito da una sorta di servitù volontaria e di assoggettamento inerte alla progressiva colonizzazione alla quale ci sottoponiamo privilegiando l’uso di parole inglesi”.
Se è fondamentale, indispensabile, imprescindibile, indiscutibile, essenziale, la conoscenza di più lingue straniere – il cui apprendimento deve cominciare dalla scuola dell’infanzia – è anche rozzo e farsesco usarle quando non servono. Inoltre, in molti casi non si tratta nemmeno di un uso della lingua straniera, ma di un’adesione indiscriminata a formulette, stereotipi, espressioni decontestualizzate.
Come quando ogni tre parole si diceva ( si dice ancora?) cioè, nella misura in cui, per entrare nel merito, a prescindere, praticamente, nello specifico,assolutamente sì, assolutamente no.
Parliamo una lingua da spot.
Quel termine colonizzazione, poi, mi fa tornare alla memoria i versi di una poesia in lingua siciliana di quel grande cantore di Bagheria che fu Ignazio Buttitta, che nella traduzione italiana fanno così: “ Un popolo,/ diventa povero e servo,/ quando gli rubano la lingua/ avuta in dote dai padri:/è perduto per sempre./ Diventa povero e servo,/quando le parole non figliano parole/ e si divorano fra loro”.
Ma a noi non la stanno rubando, la lingua. Siamo noi stessi che la stiamo consegnando incondizionatamente alla bruttezza.
Parliamo una lingua che non rivela la nostra identità, così livellata, uniformata, massificata, da essere anonima, inappartenente. L’assenza di identità e di appartenenza è bruttezza.
A un certo punto la voce ricompare. Intanto ho perso il conto dei secondini.
La voce dice che la persona che cerco al momento è impegnata in un briefing con lo staff del manager e che potrei ritentare all’ora del break.
Un po’ frastornato oso domandare se posso richiamare domani.
Ma la voce risponde che domani certo che no perché il team ha in programma un workshop.
Allora dico semplicemente- miseramente- grazie. La voce mi risponde con un internazionale you’re welcome.
Queste parole mi sembrano un’ode al provincialismo, nel senso che a questo termine attribuiva non ricordo bene chi: il provincialismo è qualcosa di più dell’ignoranza. E’ l’ignoranza accresciuta da un’intenzione di conformismo. Il provincialismo e il conformismo sono inconfondibili manifestazioni della bruttezza.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, 26 novembre 2012]
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Solo la fiducia nel futuro uccide la crisi
Tra l’orizzonte di futuro di ogni persona e la sua dimensione esistenziale e di lavoro intercorre una relazione strutturale, essenziale.
Probabilmente non c’è un solo giorno in cui ciascuno di noi non pensi al proprio futuro e al futuro degli altri. L’idea di futuro rappresenta una condizione fondamentale per l’attribuzione di senso alla propria esistenza e all’esistenza di chi ci è prossimo o di chi comunque, in qualche modo, ci riguarda. Innumerevoli sono i modi e i motivi per cui qualcuno ci riguarda; quindi con molta ragionevolezza si può dire che ogni altra persona ci riguarda. Anche se non ci è prossima, anche se non la conosciamo.
Quanto i tempi sono difficili, quando sono avari di certezze o di promesse, l’idea di futuro si fa costantemente presente, diventa insistente, pressante, si presenta spesso sotto la forma di interrogativi, qualche volta sotto quella di scoraggiamenti.
I tempi che viviamo sono difficili. Dappertutto: in Italia, in Europa, nel mondo. Non solo per una condizione di crisi economica, perché le crisi vengono e poi vanno- almeno si spera che vadano – ma anche – forse soprattutto- per il fatto che questa condizione di crisi diventa un’occasione che ci pone davanti all’urgenza di ripensare, di riconsiderare e forse anche di riformulare proprio la nostra idea di futuro. E’ un’idea che molto spesso si sintetizza, si concentra, in una domanda: cosa sarà domani; come sarà.
Cosa e come sarà a livello sociale, economico, politico. Cosa e come sarà per la cultura, per il lavoro.
Ci sono esperti che teorizzano una decrescita felice, per esempio. Altri che teorizzano un ritorno al passato. Qualche uccellaccio del malaugurio che minaccia salti nel vuoto. C’è chi spera in un nuovo umanesimo, chi ha paura di un nuovo medioevo. Poi c’è chi dice che sarà tutto globale, o tutto locale, o tutto glocale. Tutto tecnologico, tutto rudimentale.
Ma forse per l’uomo della strada, che appartiene ad una razza diversa da quella dell’uomo dei palazzi, questi problemi sono meno coinvolgenti di altri. L’uomo della strada che vede tutto quello che dai palazzi non si vede, si domanda innanzitutto, soprattutto, a volte con angoscia, come sarà il proprio futuro, come sarà quello dei figli. Si chiede se quella decrescita felice sarà uguale per tutti o se sarà diversa e aumenterà il numero degli I.M. e dei F.P.: gli infelici molti e i felici pochi di cui parlava Elsa Morante.
In questo tempo il nostro sguardo non riesce a scrutare un orizzonte che superi la distanza di domani. Una serie di circostanze hanno determinato l’impossibilità di definire un progetto, hanno generato una condizione generale di incertezza, di disorientamento, di spaesamento. Hanno compromesso la fiducia nell’impegno politico, nell’impegno sociale, negli esiti concreti del titolo di studio. Aumentano le domande e diminuiscono le risposte, e comunque non si sa a chi rivolgere le domande, da chi si possono avere delle risposte che non siano retoriche, che non siano banali. Qualsiasi investimento esistenziale si presenta gonfio di incognite. Sono soprattutto le incognite che riguardano il lavoro quelle che bruciano. Perché il lavoro è comunque quella situazione che consente non solo di pensare a un progetto, ma che dà coraggio esistenziale. Allora non si può prescindere dalla soluzione dei problemi che riguardano il lavoro. Non si può sottovalutare l’importanza che esso assume nella personale costruzione del progetto di vita e nella costruzione collettiva del progetto di una nazione. Non si può mortificare la creatività e neppure l’ambizione: l’ambizione pulita, nitida, di crescere culturalmente, professionalmente: l’ambizione sacrosanta di voler dare di più agli altri. Né si può disattendere la speranza di poterlo fare.
Si può anche giungere a ridefinire il sistema, le modalità, i canali di accesso alle professioni. In fondo è normale. Ogni epoca ha avuto caratteri propri. Ma ogni epoca ha sempre cercato di rendere più efficaci i sistemi, le modalità, i canali di accesso alle professioni e di potenziare le forme di tutela dei lavoratori. Mi pare che sia stato così, e mi dispiacerebbe immensamente sbagliare.
Ora, forse per la prima volta nella storia della civiltà, ci si ritrova faccia a faccia con lo spettro di una regressione delle tutele e delle condizioni. Se questo è vero, allora bisogna avere l’onestà di ammettere che si tratta di una situazione contraria alla natura della civiltà, ai caratteri dello sviluppo, della crescita, del progresso. Se questo è vero bisogna assumere l’impegno di impedire che accada. Deve impedirlo chiunque abbia un qualsiasi ruolo e una qualsiasi funzione all’interno della società. Tutti, quindi. Ma soprattutto chi, nell’ambito della società, ha la responsabilità di promuoverne, indirizzarne, garantirne il processo di sviluppo.
L’orizzonte di futuro di un popolo è formato dalle gradazioni e dalle sfumature dell’orizzonte di futuro di ogni persona che contribuisce a costituire quel popolo. Di conseguenza il primo dipende dall’altro. Occorre tenerne conto necessariamente.
Per cui se ci si domanda qual è l’orizzonte di futuro che si vuole delineare per questo nostro Paese, dobbiamo preliminarmente chiederci qual è quello che si vuole delineare per ciascuno di noi.
Se in futuro questo Paese sarà avanzato o arretrato, con una cultura coerente o incoerente con i tempi, se avrà una qualità della vita buona o scadente, un benessere o un malessere diffuso, se sarà un paese egoista o solidale, rigido o dinamico, competitivo o anchilosato, creativo o rintanato nelle esperienze e nei risultati del passato, dipenderà da come in futuro sarà ogni suo cittadino, dalla possibilità che gli sarà data di stare bene con gli altri e con se stesso, di accedere alla cultura, di acquisire e dimostrare competenze, di praticare la solidarietà, di fare nuove esperienze di conoscenza, di esistenza. Quasi tutto dipenderà esclusivamente da questo.
[Nuovo Quotidiano di Puglia, 29 novembre 2012]
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Giovani e adulti, il dialogo deve ripartire
E’ da tempo immemorabile che gli adulti si lamentano della mancanza di dialogo con i giovani e i giovani della mancanza di dialogo con gli adulti. E’ una condizione che attraversa le generazioni di ogni tempo e di ogni luogo, le storie di ogni giorno, le relazioni tra padri e figli, docenti e studenti, tra chi arriva e chi già c’è, in ogni contesto: il lavoro, la politica, l’arte.
Sembra sempre che sia una condizione nuova, una realtà che matura in quel preciso presente mentre è una dinamica sociale consueta, a volte più e a volte meno evidente, con elementi di conflittualità più o meno dichiarata, più o meno latente, con forme più o meno marcate di insofferenza o di indifferenza.
La forma più carica di negatività è quella dell’indifferenza. La contrapposizione serrata, anche il conflitto, sono generati da un confronto di idee, di valori, di visioni, di culture, di interpretazioni intorno a comuni interessi.
L’indifferenza, invece, dalla mancanza di un comune interesse, dell’interesse di qualcosa che è fra, in mezzo alle generazioni, che le coinvolge, le appassiona, le orienta verso un orizzonte, ne richiama le attenzioni, le responsabilità, mette in comune – in comunione- i loro progetti.
Probabilmente è questa mancanza di interesse e di progetto il motivo, o il movente, che spezza il dialogo tra gli adulti e i giovani di questo tempo. Non condividono niente. Non i libri, le canzoni, i film, i miti, i luoghi. Non condividono niente di quello che riguarda il passato. Ma soprattutto non condividono niente di quello che riguarda il futuro, per la semplice e drammatica ragione che né i giovani né gli adulti hanno un’idea intorno ad esso.
A un certo punto gli adulti si sono disorientati. Forse anche spaventati. La loro immaginazione del futuro è stata allagata da un’acqua melmosa e quindi non hanno più avuto una figurazione di futuro da proporre.
In un libro del 1985 intitolato Insistenze, Franco Fortini elaborava una metafora che costituisce un ritratto nitido dell’adulto spaesato: “Non sappiamo più che cosa abbiamo fatto, che cosa volevamo, un mese, un anno, dieci anni fa. Non sappiamo. Ma viviamo per soprassalti, attraversati da pulsioni memoriali. Come gli ubriachi, siamo tuttavia abbastanza lucidi per eseguire certe sequenze di comportamenti”.
Infatti gli adulti hanno continuato ad adottare comportamenti per certi aspetti rassicuranti, per altri noncuranti, per altri ancora reticenti.
Il dialogo si è frantumato a questo punto, per la mancanza di una onesta confessione da parte degli adulti e per l’incapacità di insegnare ai giovani un metodo di costruzione dell’idea di futuro.
Non hanno saputo narrare l’esperienza del disagio di ritrovarsi senza riferimenti; sarebbe stato un insegnamento anche questo. Sarebbe stato un insegnamento importante.
Forse avrebbero dovuto ammettere che riguardo al futuro non avevano più nulla da dire, che non sapevano più cosa fare, che i giovani avrebbero dovuto dipingersi un orizzonte mai visto e trovare da soli la maniera per andarci incontro.
Non solo per quanto riguarda il lavoro. Anche per quanto riguarda il senso da attribuire alle cose, il modo per confrontarsi con le difficoltà, i metodi per risolvere i problemi, anche per quanto riguarda la crescita, l’educazione, l’amicizia, la politica, la morale, la protesta, la democrazia, la partecipazione.
Avrebbero dovuto dire, semplicemente: non possiamo insegnarvi niente, non abbiamo il linguaggio che serve, soprattutto non abbiamo gli argomenti.
Forse per la prima volta nella storia, gli adulti hanno percepito, pur non avendone a volte piena coscienza, l’inutilità della trasmissione dell’esperienza: quello in cui avevano creduto – se in qualcosa avevano creduto -, quello che avevano fatto – se qualcosa avevano fatto – non poteva servire nel processo di sviluppo e nel percorso di esistenza delle generazioni che arrivavano.
I giovani dovevano cominciare da zero.
Ecco. Forse avrebbero potuto dire questo: dovete ricominciare da zero. Mettete nel bagaglio soltanto le vostre idee, le vostre fantasie, le storie, le illusioni, le delusioni che sono solo vostre, e andate dove volete, per la strada che credete sia la più giusta, perché noi non abbiamo né un luogo né una strada da darvi per consiglio. Fate quello che voi ritenete giusto e quello che voi ritenete sbagliato, perché non vi serve quello che di giusto e di sbagliato abbiamo fatto noi.
Invece non hanno detto niente. Per cui sono crollati i ponti. Ognuno è rimasto sulla propria sponda. Gli adulti hanno parlato dei giovani, continuamente, sostenendo che sono essenziali per lo sviluppo di una società. I giovani non sono stati nemmeno ad ascoltarli perché in quei discorsi hanno sentito il tanfo della retorica, dei luoghi comuni, della muffa semantica.
Tutti dicono che bisogna investire sui giovani, per i giovani.
Ma se si cerca di rintracciare una coerenza tra le parole e i fatti, allora prorompono domande che quasi sempre restano senza risposta.
Chi, quando, dove, come, quanto, si investe sui giovani a livello sociale. Perché l’investimento a livello personale, o da parte di un gruppo, è tutto un altro discorso. A livello sociale, per il bene comune, per gli interessi collettivi, chi, quando, dove, come, quanto si investe sui giovani. Quante e quali occasioni e possibilità gli si danno. Quante e quali porte gli vengono aperte, dopo gli studi superiori, dopo l’università, per esempio.
Allora, se non c’è stato mai un tempo in cui il dialogo tra giovani e adulti sia stato ampio, sia stato aperto, se sempre si è sviluppato un conflitto sul senso da attribuire alle idee e ai comportamenti, fino a quando non si trovava un’intesa o almeno un compromesso, adesso la mancanza di dialogo è provocata dal fatto che non si trovano più gli argomenti sui quali discutere.
L’urgenza è questa dunque: trovare gli argomenti sui quali confrontarsi, sui quali scontarsi, anche. Per ricostruire quel dialogo di cui questo Paese non può fare a meno.
Conosco già l’obiezione. Sono il primo a farla. Questo è un altro discorso sui giovani fatto da un adulto, e non serve a niente. E’ vero.
[Nuovo Quotidiano di Puglia, 3 dicembre 2012]
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Né pessimisti né ottimisti: è l’ora di fare i giudiziosi
Eravamo splendidamente ottimisti. Per tutti gli anni Ottanta, gli anni Novanta, in qualche modo fino a quando non si è concluso il primo decennio del Duemila, siamo stati splendidamente ottimisti. Poi qualcuno, più di qualcuno, un po’ in tanti hanno cominciato a dubitare, a farsi contagiare dalla diffidenza. Lo splendore si è smorzato, per cui ci siamo suddivisi in due categorie: le solite, antiche categorie degli ottimisti e dei pessimisti.
Gli ottimisti sono quelli che dicono che comunque vada indietro non si torna, che il benessere acquisito è un diritto inalienabile, che le nuvole che si vedono non minacciano tempesta. Se pioverà, sarà da un’altra parte, sulla testa degli altri, non sulla nostra.
C’è chi dice che gli ottimisti sono saggi; c’è chi dice che sono incoscienti.
Continuano a fare tutto quello che hanno fatto negli anni Ottanta, nei Novanta, fino a ieri. Senza farsi impensierire, senza farsi preoccupare dalle crisi economiche, da quelle finanziarie, dai dati sulla disoccupazione, dal malcontento che dilaga, dalle difficoltà che si moltiplicano, dalle incertezze che si accatastano. Insomma, nihil sub sole novi: mondo era e mondo è. Così pensano. Così dicono.
Gli ottimisti sono invidiabili. Vedono il bicchiere sempre pieno fino all’orlo, o almeno mezzo pieno, mai comunque mezzo vuoto. Sono entusiasti, volitivi, infondono fiducia. Sono di buona compagnia. Sono contenti, vivaci, gioiosi. Stare con loro mette buonumore, suscita allegria.
La bibbia degli ottimisti è quel piccolo famoso libro di Voltaire che s’intitola Candide ou l’optimisme. Appena qualcuno accenna un lamento, loro ripetono quella frase che dice: tout est bien, tout va bien, tout va le mieux qu’il soit possibile. Tutto e’ bene, tutto va bene, tutto va per il meglio possibile.
Ma in questo stesso libro, Candido rispondendo a Cacambo dice che l’ottimismo è la mania di sostenere che tutto va bene quando invece tutto va male.
La bibbia dei pessimisti, invece, è proprio la Bibbia. In particolare il Libro della Genesi.
Precisamente il sogno del Faraone. Si racconta che Faraone ebbe un sogno: gli pareva d’essere in riva al fiume; e dal fiume salivano sette vacche di bell’aspetto e grasse, e si misero a pascere nella giuncaia. Dopo di esse, Faraone vide altre sette vacche che salivano dal fiume, brutte e magre, che divorarono le sette belle e grasse.
Qualcuno dice che i pessimisti sono iettatori, disfattisti, catastrofisti; qualcuno dice invece che sono realisti.
I pessimisti che erano già accorti, prudenti, misurati, sono diventati ancora più accorti, più prudenti, più misurati.
Pensano che i tempi che verranno non saranno proprio dei bei tempi, che la storia è fatta di periodi che si alternano, che le stagioni cambiano, che non è sempre festa.
Spesso i pessimisti diventano insopportabili. In ogni discorso che fanno ci mettono il sogno del faraone, usano quella simbologia anche per interpretare la sconfitta della loro squadra del cuore. Ma soprattutto si spiegano l’economia. Il pil, lo spread, le altalene della borsa, le turbolenze, le dinamiche dei mercati, per loro sono decifrabili e comprensibili solo con le chiavi logiche ed ermeneutiche di quel sogno. La situazione di questi tempi suscita in loro una profonda preoccupazione. Non pensano affatto che comunque le cose si aggiustano da sole. Al contrario pensano che il vaso si è rotto e che per ricomporre i cocci c’è bisogno di conciabrocche buoni: esperti e onesti; di quei maestri che sanno mettere il filo di ferro esattamente dove ci vuole, esattamente quanto ce ne vuole, e che siano onesti da lasciare che si veda tanto il punto della rottura quanto quello della sutura, perché insomma si stia più attenti quando si maneggia e rimaneggia il vaso.
Ci siamo suddivisi in ottimisti e pessimisti, allora. Forse esagerando sia nell’uno che nell’altro caso. Forse si dovrebbe cercare una convergenza, un equilibrio tra le due visioni, tra le due posizioni, senza cedere allo scoramento del pessimismo e senza farsi trascinare dalla baldanza dell’ottimismo.
Forse adesso è il tempo di diventare in un modo che con una parola antica, ingenua, demodè, si potrebbe definire giudizioso.
Ecco. Dovremmo cominciare ad essere giudiziosi. Avveduti, riflessivi, ponderati. Valutare le cose, i fenomeni, i casi, per quelli che sono senza fasciarci la testa prima che si rompa ma stando bene attenti a non rompercela.
Giudizioso dovrebbe diventare ogni cittadino: chiunque abbia una responsabilità di governo del Paese ma anche chi abbia una responsabilità di governo anche solo di se stesso. Farsi venire idee giudiziose; assumere comportamenti giudiziosi.
La persona giudiziosa elabora le proprie convinzioni e di conseguenza le proprie azioni, sulla base di una osservazione sistematica e costante delle circostanze, valuta attentamente gli elementi che possono produrre vantaggi e svantaggi, sottopone a verifica gli esiti derivanti da ogni movimento.
Giudiziosa è la massaia che fa la lista della spesa e poi mette nel carrello quello che ha previsto e non tutto quello che la richiama dagli scaffali.
Per tutti gli anni Ottanta, Novanta, per i primo decennio del secolo che corre, noi non abbiamo fatto come la massaia giudiziosa: nel carrello abbiamo ammonticchiato di tutto, molto spesso quello che non ci serviva, che quindi non abbiamo usato e pertanto si è irrancidito.
Probabilmente è venuto il tempo di formarci un pensiero nuovo. Non sommariamente ottimista, non sommariamente pessimista, ma avvedutamente giudizioso. Probabilmente dovremmo riscoprire e recuperare alcune virtù dei nostri vecchi contadini, come la previdenza, per esempio. Quelle virtù che abbiamo un po’ deriso, un po’ vituperato, e poi frettolosamente – dissennatamente- abbandonato, sostituendole con gli idoli brillanti e bugiardi di un edonismo d’accatto e rischioso.
[Nuovo Quotidiano di Puglia, 10 dicembre 2012]
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E’ un danno se i ragazzi studiano fuori regione
Fa sempre molta tristezza sapere che i ragazzi di questa terra vanno a studiare nelle università di altre regioni. Non è solo un dispiacere affettivo; è anche un razionale disappunto ideologico, politico, sociale, che considera le conseguenze di perdite incalcolabili a livello di risorse umane, di energie intellettuali, di progettualità, di innovazione, di creatività. L’immagine che si associa è quella di un paesaggio desolato, di una distesa di rovine, di una desertificazione che avanza, di una privazione irrimediabile. Perché chi va a studiare fuori, poi solitamente non ritorna, o ritorna con la voglia e il programma di ripartire, per il fatto che si è stati lontani proprio negli anni in cui le radici dell’umano affondano nei territori dell’appartenenza attraverso l’intreccio di relazioni, la tessitura di opportunità, di occasioni, il delinearsi di orizzonti, l’apertura di prospettive.
Ma la cosa che aggiunge sconforto alla tristezza è la considerazione che si trasferiscono altrove per corsi di studio che sono presenti nelle università di Puglia. Secondo il Censis, la percentuale di studenti pugliesi che va a studiare fuori è del 13,2, che rappresenta la quota più alta del Paese, seguita da Sicilia, Veneto e Campania. Vanno in Emilia, in Lombardia, nel Lazio.
In una situazione generale di calo progressivo delle immatricolazioni, risulta abbastanza facilmente individuabile il rischio sociale e culturale al quale ci si espone, non soltanto in relazione al presente e al futuro delle università della regione, ma anche nella proiezione della fisionomia di questa terra, della qualità dei suoi processi di progresso e di sviluppo.
Se si considera che il livello della formazione è una condizione indispensabile per l’esistere in generale e per il confronto nei contesti del mercato e del lavoro, allora si deve, conseguentemente, anche considerare che diventa indispensabile arginare il fenomeno della dispersione, perché gli effetti che potrebbe provocare sono sostanzialmente quelli di una povertà culturale e professionale, quindi di una riduzione del livello di competitività in molti settori e, ancora, di una marginalità ed emarginazione di ogni genere, anche economico.
Forse non è del tutto agevole individuare le cause della fuga. Però, la cosa che probabilmente non si può più pensare è che si tratti di una moda. Sarebbe un’idea ormai vecchia e forse anche un alibi fiacco.
E’ vero: la moda c’è stata. In altri tempi. Fino a un certo punto. Quando le famiglie si potevano permettere di non badare alle spese o quando non ci badavano nonostante a volte non potessero permetterselo. Prima ancora, invece, si trattava di investimenti. Contadini, artigiani, impiegati statali con salari modesti, modestissimi, si toglievano il pane dalla bocca – letteralmente – per mandare i figli fuori a studiare da medico, da avvocato, da ingegnere. Ma nelle Università di Puglia i corsi di studio erano pochi. Allora, però, finita l’università, ritornavano. Si mettevano lo studio con la targa nelle due camere della casa dei nonni adattata alla bell’e meglio e cominciavano a lavorare.
Si deve dire: lo sviluppo del Salento, della Puglia, del Sud, è stato determinato principalmente da un ceto medio-basso che ha fatto sacrifici inenarrabili con la speranza di mettere in moto un ascensore sociale, di spingere la natura a fare il salto.
Ma non è più così. Se adesso i ragazzi vanno a studiare fuori è per altre ragioni, per altri casi. Che devono essere decifrati, compresi. Può trattarsi di un’inadeguata informazione; può trattarsi di un incoerente orientamento, realizzato in modo non sistematico, non strutturale; può trattarsi di altro. Ma è ormai anche inutile, forse ozioso, domandarsi di che cosa finora si è trattato. Nel senso che un’analisi sbagliata può produrre azioni sbagliate ed effetti negativi. Non vale la pena rischiare. Oltretutto il discorso sarebbe lungo e forse anche complicato; invece servono discorsi brevi, non semplicistici ma semplificati, e soprattutto che non si concludano intorno ad un tavolo ma che dal tavolo comincino per diramarsi nelle scuole attraverso nuclei operativi efficienti, efficaci, funzionali, costituti da componenti dell’università e da componenti di scuola superiore.
Ora si tratta di cominciare un percorso nuovo. In fondo semplicissimo: progettare in maniera sistematica e costante un lavoro di interazione e di interscambio con le scuole superiori. Ma non solo con le classi dell’ultimo anno perché sarebbe un intervento limitato e quindi dagli effetti limitati. Si dovrebbe pensare e realizzare un percorso di orientamento formativo – l’unico che ha un senso sostanziale- centrato sul curricolo e sulla reciprocità delle esperienze.
Indubbiamente le università di Puglia possono contare su professionalità che in questo non solo hanno le conoscenze e le competenze che servono ma hanno anche l’entusiasmo che, a volte, produce più delle competenze.
Indubbiamente le scuole superiori di Puglia hanno le professionalità con le conoscenze, le competenze e l’entusiasmo che servono.
D’altra parte, la scuola superiore non può restare indifferente rispetto alle strade della formazione che intraprendono gli studenti cresciuti per cinque anni e l’università non può restare indifferente rispetto alle opportunità da garantire a coloro che rappresentano il futuro della cultura e della professione.
Si spera che ognuno di noi abbia a cuore il passato di questa terra; ancora di più si spera che ognuno di noi abbia a cuore il suo futuro. Ma non ci potrà essere futuro senza intelligenze che siano in grado di costruirlo, certamente anche attraverso l’attribuzione di un ulteriore valore al passato.
Le intelligenze, però, vanno coltivate lì nella terra dove devono produrre. Come un campo di grano. Se non si coltiva un campo di grano non si fa il pane. Se non si coltivano le intelligenze non si fa il futuro. Il Salento, la Puglia, il Sud, hanno bisogno di futuro: hanno un bisogno urgente di futuro.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, 19 dicembre 2012]