Tra i temi del fantastico oggetto di studio nel saggio di Todorov è presente anche quello della scomparsa del limite tra materia e spirito, nel capitolo “I temi dell’io”, che riguardano il rapporto tra l’uomo e il mondo e soprattutto la percezione che l’uomo ha di esso attraverso l’esperienza e le sensazioni, la ragione e le impressioni. Il protagonista della novella pirandelliana “Di sera, un geranio” ha una percezione particolare del mondo. Divenuto pulviscolo di anima, quest’uomo racconta le sensazioni di un’esperienza post-mortem. Durante il sonno, infatti, si è “liberato” della vita, come accade ad un corpo che affonda nell’acqua e che ha la sensazione di dover risalire ma scopre che non accadrà. Si è addormentato per risvegliarsi in una nuova forma, come entità non corporea che resta sospesa, che aleggia nella camera. Fuori dal suo corpo, si ritrova a guardarlo, dall’alto. Osserva quell’involucro che prima gli era familiare e ora più non gli appartiene, osserva i particolari di quelle sue fattezze umane, osserva la testa calva, gli occhi chiusi, la barba spinosa, dai peli “quasi metallici”. Nelle orecchie – anche se non si potrebbe più parlare di “udito”, è un’entità astratta ora, non ha più i sensi che sono propri degli esseri umani – ha ancora le ultime parole ascoltate in vita, quelle parole che messe insieme annunciano una condanna a morte:
“– Ma lei è di parere che, nello stato in cui sono ridotto, sia da tentare un’operazione così rischiosa?
– Al punto in cui siamo, il rischio veramente…
– Non è il rischio. Dico se c’è qualche speranza.
– Ah, poca.
– E allora…”
E ora il suo corpo giace lì, senza un barlume di vita. Ma quanto poco rappresenta di noi, in vita, il nostro corpo? Lui non era quell’ammasso di arti, lui non era il suo corpo. La vita che scorreva in lui era nei suoi pensieri, “nelle cose che pensava, che gli s’agitavano dentro, in tutto ciò che vedeva fuori senza più vedere se stesso. Case strade cielo”. Ma adesso che non è più nel corpo, teme di dissolversi, di non avere più consistenza di quanta non ne abbia l’aria, gli manca la materia, qualcosa a cui attaccarsi. Si accorge di essere circondato da miliardi di oggetti e lui, adesso che non è più nel suo corpo, è in tutte quelle cose. Il distacco dal corpo coincide con l’identificarsi nelle cose; il giardino, la vasca, il muro coperto di roselline, l’acqua che gocciola e va a finire nel tubo di scarico che la inghiotte, in quella “bocca di morte” che inghiotte le foglioline che turbinano nella vasca fino a finire nel tubo. Ora comprende cos’è la vita, ecco cos’è l’essere umano: è come quella gocce d’acqua che prima sgorgano e poi vengono risucchiate da un tubo di scarico. Il protagonista, che aleggia informe e invisibile nella stanza, non vuole andarsene, vuole restare attaccato alla vita ancora un po’. Aderirebbe a qualunque cosa, vuole ancora consistere, gli basta una pietra, un fiore, anche se la vita di un fiore dura poco: “ecco, questo geranio…”. Sembra che il desiderio venga esaudito: l’immagine di un geranio chiude la novella. Il punto di vista e la voce narrante mutano improvvisamente e sembrano dare spazio alla battuta di una persona qualsiasi, in un luogo qualsiasi del mondo in cui ci sia un geranio che si accende nella sera e la infiamma di colore e di vita, come se quella persona qualsiasi, in un luogo qualsiasi del mondo, si accorgesse che in quel fiore fossero improvvisamente penetrati nuovi frammenti della vita cangiante dell’universo e dell’uomo. Pirandello avvicina il mistero della morte al concetto di panteismo, all’esperienza dell’anima che, separandosi dal corpo, rivive in tutto quello che ha intorno. La vita si trova sospesa tra due dimensioni, tra il concreto – il cadavere, simbolo della materia – e l’astratto – lo spirito che aleggia nella stanza.
È così difficile lasciare il mondo, staccarsi da esso. L’essere umano, ubriaco dell’attaccamento alla vita effimera e caduca, vorrebbe esserci anche dopo la morte, lasciare una traccia di sé, forse in un filo d’erba, forse in un fiore. Ma con la morte l’uomo si dissolve e quell’anima lassù, che guarda quello che era da vivo, un corpo giacente su un lettino, vuole “consistere ancora in una cosa”. Riscoprendosi in bilico tra cielo e terra, ora che è cielo vorrebbe essere terra, ma prima, quando era terra, voleva essere cielo. Ora ha il desiderio di guardarsi ancora dall’alto, ma in un altro corpo. Vorrebbe vedersi, da lontano, dentro un punto rosso, in quel geranio che infiamma la sera.
[“Clinamen” n. 5, febbraio 2019]