di Ferdinando Boero
La Nave dei Veleni, di Alberto Maritati, è un libro da leggere, perché fa capire l’Italia raccontando una storia avvincente, che richiamò l’attenzione di un maestro del sensazionalismo naturalistico: il comandante Cousteau. Maritati, nella seconda metà degli anni Settanta, era pretore (una figura che non esiste più) di Otranto, un paesino dell’estremo sud est della penisola italiana, di fronte all’Albania. Non succedeva niente, a Otranto; i tempi degli attacchi dei turchi, con centinaia di teste mozzate (ancora in mostra nella Cattedrale) erano passati e la vita scorreva tranquilla. Per il canale d’Otranto, però, passa tutto il traffico navale dell’Adriatico e, una notte, due navi entrarono in collisione. Una affondò: la Cavtat. Era carica di centinaia di fusti di piombo tetraetile, una sostanza pericolosissima per gli umani e per l’ambiente. Finì a cento metri di profondità. Maritati si rivestì del potere conferitogli dallo Stato e prese in mano la situazione, scontrandosi con le avversità del mare e con quelle del potere politico.
Maritati racconta del recupero del primo bidone, con un gruppo di pescatori di corallo e l’ausilio del comandante del peschereccio Garibaldi, e di un’immersione con un piccolo batiscafo pilotato dal comandante Falco, dell’equipaggio di Cousteau, per ispezionare la Cavtat a 100 m. Racconta anche di un incontro con un gruppo di funzionari ministeriali, guidati da Evangelisti, fido scudiero di Andreotti, che cercarono di intimidirlo e di farlo desistere da quel che stava facendo in piena legalità, proponendo soluzioni costosissime per un’operazione che stava risolvendo brillantemente con costi inferiori, grazie al coinvolgimento di una ditta italiana, la SAIPEM, sotto il controllo dello Stato.