“Anche quando avevamo libri a nostra disposizione, molto tempo fa, non abbiamo saputo trarre profitto da ciò che essi ci davano. Abbiamo continuato come se niente fosse ad insultare i morti. Abbiano continuato a sputare sulle tombe di tutti i poveri morti prima di noi. Conosceremo una grande quantità di persone sole e dolenti nei prossimi giorni, nei mesi e negli anni a venire. E quando ci domanderanno che cosa stiamo facendo, tu potrai rispondere loro: Ricordiamo. Ecco dove alla lunga avremmo vinto noi. E verrà il giorno in cui saremo in grado di ricordare una tale quantità di cose che potremo costruire la più grande scavatrice meccanica della storia e scavare, in tal modo, la più grande fossa di tutti i tempi, nella quale sotterrare la guerra”. Così dice Granger nel finale di quella fiaba terribile che s’intitola “Fahrenheit 451”. Quando il librò uscì, nel 1953, Ray Bradbury aveva trentatré anni. Nel 2010, quando di anni ne aveva novanta, in un’intervista disse che abbiamo troppi cellulari, abbiamo troppo internet, che dobbiamo sbarazzarci di tutti questi aggeggi perché ne abbiamo davvero troppi. Così la memoria si disperde.
Ad una certa età la mente vede dappertutto, in ogni direzione: vede il passato, il presente, il futuro. Sa comparare, prevedere, leggere i segni tracciati dai tempi. Ad una certa età non si ha più nostalgia, ma una straordinaria capacità di intuizione; gli eventi si percepiscono, si sentono come gli animali che sentono i terremoti. Ad una certa età si acquisisce una sapienza che impedisce di mentire. Non si hanno più gli interessi, le ragioni, quel tipo di emozioni che motivano e giustificano la menzogna. Si è distanti da molti condizionamenti, da molte passioni. Allora Ray Bradbury avvertiva il pericolo dell’impoverimento, dell’appiattimento del pensiero che l’abuso della tecnologia può provocare. Rilevava il troppo: la sovrabbondanza che genera l’abuso che a sua volta determina una deprivazione di senso e di valore tanto del mezzo quanto del messaggio. Quell’uomo che aveva raccontato il pericolo sociale e la tristezza esistenziale derivanti dalla distruzione dei libri, ribadiva l’essenzialità di una cultura e di una comunicazione che si verificano, si producono e si riproducono attraverso quell’oggetto di carta che i Vigili del Fuoco del suo romanzo provvedevano a bruciare con spaventosa sistematicità. Perché, almeno finora, soltanto i libri consentono di approfondire la conoscenza degli esseri e delle cose, soltanto i libri si fanno custodi della memoria.
Talvolta può anche sorgere il dubbio che si tratti di posizioni anacronistiche assunte da chi non ha capito che sono cambiati gli alfabeti, i codici, gli strumenti della comunicazione e della conoscenza. Sì. Il dubbio può venire, ma è falso. E’ un alibi imperfetto. La memoria, per resistere, e soprattutto per rigenerarsi e riprodursi, ha bisogno di sostanza. Non di apparati, applicazioni, sovrastrutture. La memoria ha bisogno di sostanza, e la sostanza è quella dei fatti che passano da un giorno all’altro, un anno all’altro, un secolo all’altro. La sostanza ha bisogno della consapevolezza che tutto quello che accade una volta può accadere ancora, nel bene e nel male. Allora, forse, anche a questo che serve la memoria: a distinguere quello che è bene da quello che è male e, di conseguenza, a favorire il ripetersi di quello che è bene e ad evitare il ripetersi di quello che è male.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica, 3 ottobre 2021]