Scritti scolastici e sociali – Anno 2011

C’è un elemento essenziale che in questi anni ha subito una trasformazione radicale, probabilmente nuovo nella dimensione della contemporaneità e non ancora compiutamente elaborato ma soltanto avvertito, percepito, sentito sulla pelle: forse è cambiato il rapporto con il futuro.  Attraversiamo un presente che non ha o che ha deboli tensioni di proiezione e di prospettiva. Quasi che ogni promessa di futuro sia diventata difficilmente credibile e praticabile. Quasi che qualcosa di estremamente complesso e non ancora decifrato costringa a vivere rannicchiati mentre il tempo ci scorre addosso e intorno, con la sua solita indifferenza, con una più sfrontata prepotenza.  Forse abbiamo più paura e meno aspirazioni. Stiamo sempre più idolatrando il caso. L’orizzonte delle attese si è abbassato fino ad arrivare ai nostri piedi, e si è fatto opaco. In alcuni casi si è sfilacciato e in altri lacerato il senso dell’appartenenza ad una situazione collettiva che in qualche modo costituiva un riferimento e suscitava una sensazione di protezione: lo stato, la chiesa, la classe sociale, il partito politico; anche la famiglia si ritrova a riformulare concetti, prassi, tradizioni, a subire crisi e traumi senza precedenti. Addirittura Nord e Sud, Oriente e Occidente si interrogano sulla semantica di codici millenari. “Siamo in un’età/ di grandi riepiloghi. O terribili somme, fra poco/ come le braccia d’una croce, come le pagine/ d’un libro Oriente e Occidente/ si chiuderanno su di noi./ L’Oriente senza Oriente/ non avrà più mistero/ e l’Occidente non ha più avventura”.  Così diceva Vittorio Bodini, che come ogni poeta vero vedeva oltre il tempo che viveva.

Dopo questi dieci anni, niente potrà essere più nel modo in cui è stato. Non la politica, non l’economia, né le relazioni sociali, né quelle diplomatiche, non lo potranno essere le ideologie, i modi e le forme del comunicare. Dopo questi dieci anni si avranno meno certezze e forse anche meno simboli e meno miti. Forse anche meno alibi.  Cambieranno le nostre abitudini, i nostri modelli di pensiero, le convinzioni. Sono già cambiati.

Le nostre vite si costituiranno sempre più esplicitamente, più evidentemente, come microstorie nella macrostoria, come piccolissime maglie di una sterminata rete.

Abbiamo già cambiato le nostre coordinate della Storia. Ma non soltanto in relazione ad un fatto, perché sarebbe riduttivo. Alla fine i fatti si trasformano in metafore, in grandi narrazioni dei destini. L’Olocausto si è fatto metafora. La caduta del Muro di Berlino è una metafora. Fin qui è Novecento. Il secolo nuovo comincia con l’altra tragica e grande metafora delle Torri Gemelle. Allora, se fino a un certo punto ci siamo confrontati con i fatti della Storia, da un certo punto in poi abbiamo incominciato a confrontarci con le sue metafore. La Storia non è mai stata maestra per nessuno, purtroppo. Gli errori che abbiamo commesso nel Novecento, li stiamo riproponendo – perfezionati- in questi anni di secolo nuovo. Così dobbiamo dirci, amaramente, che come sempre ha ragione Qohèlet: quanto è accaduto ancora accadrà; non c’è mai nulla di nuovo sotto il sole. Però nutriamo la speranza che una volta tanto anche Qohèlet si possa sbagliare.

 [“Nuovo Quotidiano di Puglia”, 2 gennaio 2011]

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Se alla Befana credono i bimbi da 40 anni in su

Ci sono quelli che ci credono ancora. Non hanno saputo smettere, non hanno voluto. Ci sono quelli che l’aspettano ancora, fingendo di dormire, tendendo l’orecchio a un  rumore complice, sottile, a un fruscio che viene dal camino, a un passo leggero che sale dalle scale. Ci sono quelli che le scrivono  ancora,esprimendo un desiderio, intimo, confidenziale, e poi  nascondono la lettera sotto il cuscino, per proteggerla dal mondo, dal vento degli anni che spazza via tante cose ma non i desideri, non gli incantesimi,  le fantasie delicate, le dolcezze profonde, le speranze salvate dalle macerie che accumula la vita.  Ci sono quelli  che non domandano niente: non più cavalli a dondolo, soldatini di stagno, trenini di legno, i fortini con gli Apache, le bambole che camminano, ridono, piangono,  la gonna nuova, le scarpe con i tacchi, il pacco di quaderni, i pastelli di tanti colori, duecento lire di figurine con i calciatori.  Non chiedono niente per spassatempo e quello che chiedono  lo confessano  a lei, alla Befana, soltanto a lei che li accompagna da  quarant’anni e  cinquanta, e anche di più e anche di più, come un angelo custode, una madre che ha premura, un’amante appassionata.

Alla Befana i bambini non ci credono più. Alla Befana ci credono i bambini cresciuti, quelli che hanno i capelli bianchi o che li hanno perduti. Ci credono le bambine anche loro cresciute, che truccano l’abitudine grigia dei giorni con il fondotinta pastoso, che camuffano la malinconia degli occhi sotto il mascara grumoso, che si guardano allo specchio e si stupiscono della ruga che solo ieri non c’era. Ci credono quelli che sono rimasti innocenti, che non si sono fatti fregare dal pragmatismo, dal qualunquismo, da carriere rampanti, che sono poeti senza scrivere poesie, che raccontano storie tanto per raccontare, che sono contadini senza saper coltivare, che sono pittori con i colori di idee, che fanno i giostrai di giostre in disuso, che si fermano a pregare nelle chiese  di campagna,  dove crepita ancora per devozione una lampada ad olio. Ci credono quelli che sanno aspettare.  Ora sono loro che credono alla Befana, che si tengono dentro quella creatura favolosa, quel mito dell’infanzia che regala meraviglie, quella vecchina a cui danno un volto famigliare. Perchè vogliono i doni della memoria, quei ricordi dolceamari  come una madeleine di Proust, come una filastrocca imparata a scuola nelle mattine che l’aria frizzava di festa promessa, di gioia ventura.

Loro si salvano così dalla rapacità del tempo, credendo a tutto quello  cui hanno sempre creduto, stringendosi allo stupore che li ha sbalorditi. Così restano svegli ad aspettare  qualcuno che gli porti i doni che si son meritati. Perché questo è certo: se li sono meritati: giorno per giorno, con il loro lavoro, con la passione per quello che fanno, con la sincerità per il poco o il molto che danno.  Ecco qual è la loro Befana: resistere al sonno che si spande sugli occhi, non addormentarsi, non rinunciare, non smettere di pensare che c’è chi li protegge e che li ricompensa con un pensiero. Allora cercano di non dormire, anche se con il tempo hanno imparato un po’ di latino e quella frase dell’ Ars poetica di Orazio che dice “quandoque bonus dormitat Homerus”.  Va bene sì, anche il buon Omero talvolta s’ abbiocca.   La Befana è il senso dell’attesa ansiosa, la bellezza dell’incognita, del mistero, la signoria del sentimento inspiegabile sulla lucidità della ragione.

Loro sono rimasti così, svagati e sapienti come tutti i bambini, ingenui, creduloni, ostinatamente incoscienti, che si ripassano a memoria le scene  nei cortili, con le ginocchia sbucciate e l’idolatria del pallone, e allora  come in un film  tutti i personaggi ritornano, tutti i paesaggi si ricompongono, il passato riprende a parlare, il presente disegna ancora illusioni, il futuro prende un po’ di  chiarore. Così la Befana conforma il destino, cancella gli errori; sono meno brucianti le delusioni, si fa meno acre la nostalgia.

Sono questi i doni che porta la Befana a tutti quelli che ci credono ancora.

Non c’è bisogno di appendere la calza, non c’è bisogno di scrivere l’indirizzo. Lei conosce i nomi, uno per uno, conosce le strade, i vichi, le case, sa che non riuscirà a sorprenderli nel sonno,  perché sono scaltri, fanno finta di dormire, per poi spalancare gli occhi all’improvviso e strapparle con una tenerezza  stupefatta il dono straordinario di un sorriso.

[ Nuovo Quotidiano di Puglia, 5 gennaio 2011]

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La scelta della scuola e il futuro

Scegliere una scuola è come cominciare a seminare un campo.

Perché un campo possa produrre frutti occorre seminarlo, e seminarlo bene. Quello che si raccoglie dipende non solo da quello che si è seminato ma anche da come. Se al tempo giusto e nel giusto modo.  A seminare in un campo non governato si raccoglie nulla, e nulla si raccoglie se si semina sui sassi.  La scuola dell’infanzia, la primaria e la media corrispondono, grosso modo, alla vangatura. La scelta della superiore e dell’università ha lo stesso valore della  semina. Come i contadini sanno bene, seminare e coltivare  un campo costa fatica e denaro; costa sacrifici, costa preoccupazioni. Anche una scuola costa, anche la formazione costa denaro, sacrifici, preoccupazioni. Però qualcuno ha detto  più o meno così: se pensate che l’istruzione costi troppo, allora provate un po’ con l’ignoranza.

Se le iscrizioni alla scuola dell’infanzia, primaria e secondaria di primo grado, procedono sostanzialmente in via ordinaria, quelle alla scuola superiore presentano ancora caratteri di complessità. Naturalmente in questo caso l’interrogativo riguarda l’orientamento verso i licei oppure i tecnici o i professionali.

Per cui diventa indispensabile che l’orientamento si svincoli dal fumus anacronisticamente ideologico, dalla  verbosità senza sostanza, dalla sterilità autoreferenziale, dai presupposti, dalle pregiudiziali  e dalle pratiche di marketing, per trasformarsi in un onesto inquadramento delle prospettive della conoscenza e del mercato del lavoro.

Semina e raccolto, dunque.

Nel corso di un meeting dei ministri dell’educazione tenutosi a Parigi e organizzato dall’Ocse, si è rilevato come la scuola degli anni Settanta e Ottanta rappresenti la condizione per la produzione del Pil  degli anni che corrono. Da questa considerazione viene per conseguenza naturale una domanda: nei prossimi decenni quale sarà il Pil che produrrà la scuola di oggi.  Ancora: quanto sarà possibile prescindere da competenze fondamentali, essenziali, in un processo di istruzione che intenda  formare cittadini e cittadinanze, conoscenze, abilità e competenze adeguate e coerenti con i gli sviluppi della società e del lavoro.  Un regolamento ministeriale del 22 agosto 2007 individua otto competenze chiave di cittadinanza da acquisire al termine dell’istruzione obbligatoria.

La prima è quella di imparare ad imparare, che si rivela essenziale in un contesto sociale e lavorativo  che richiede flessibilità, riconversione, anche capacità di previsione, correlata alla competenza di  progettare perché  non esiste  crescita, evoluzione, formazione di un singolo o di un gruppo al di fuori di un progetto.

Altra competenza: comunicare. Tutto. Con tutti, che si annoda al saper collaborare e partecipare , condizione fondamentale per una competenza relativa all’agire in modo autonomo e responsabile e al risolvere problemi,  attraverso l’individuazione di collegamenti e relazioni.

Ultima competenza: acquisire ed interpretare l’informazione: un comportamento attivo, che quindi esclude la ricezione passiva,  consente di comprendere l’implicito, di smascherare i tentativi occulti, di scansare le trappole dell’omologazione, dell’appiattimento semantico ed esistenziale.

Dunque, se le dinamiche sociali, culturali ed economiche dei tempi che verranno saranno strettamente correlate a quelle della formazione e della sua qualità, l’Italia ha bisogno di un potenziamento strutturale e urgente dei processi e dei percorsi di apprendimento e di un sostanziale innalzamento dei livelli di istruzione. Perché i dati del dicembre scorso forniti da Treellle  spingono allo sconforto. Per esempio: quasi il 50% della popolazione  tra i  25 e i 64 anni possiede al massimo la licenza media; il 35%  vive in una situazione di sostanziale illetteratismo; un altro 30% vive con competenze fragili e a rischio di obsolescenza. Solo il residuo 35% possiede un livello adeguato e sicuro di competenze.

Le nuove generazioni presentano la stessa fisionomia di formazione. Soprattutto – anche se non solo – nel Mezzogiorno. Quindi non solo ma soprattutto il Mezzogiorno ha necessità urgente di un progetto forte di potenziamento delle politiche formative.

Ancora. Secondo altri dati forniti dal Comitato Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario, il 18%  abbandona gli studi dopo il primo anno, il tasso dei fuoricorso  raggiunge il 40%; quasi il 55 %   si disperde  per ragioni di diversa natura.

Se queste sono le condizioni al tempo della semina, quando verrà il tempo del raccolto, probabilmente non ci sarà abbondanza. Non ce ne potrà essere se il sistema formativo non avrà garantito quella indispensabile  rete di conoscenze, abilità e competenze funzionali e strategiche  all’inserimento nei contesti sociali, all’ orientamento, alla formazione in ingresso e in itinere in quelli di lavoro, alla capacità di aderire alle richieste formulate dalla temperie culturale , sociale, economica,   se non avrà creato un pensiero individuale e collettivo proiettato verso orizzonti europei e mondiali.  Dipenderà tutto da questo, probabilmente. Tutto. Da questo dipenderà il benessere e lo sviluppo di tutti e di ciascuno.

 [Nuovo Quotidiano di Puglia, 23 gennaio 2011]

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Avere memoria significa avere speranza

C’è un  saggio di Remo Bodei che si intitola “Libro della memoria e della speranza”. Sono due parole che stringono  il senso, forse l’unico senso,  che questo tempo di nuovo millennio può consegnare alla memoria, l’unico di cui si può fidare e al quale si deve necessariamente affidare.

Se la memoria è quella di ciascuno – piccola memoria, piccola rete, scaglia, granulo, frantume –   anche  la speranza è quella di ciascuno. Se la memoria è quella di molti, anche la speranza è quella di molti. Ci sono  molti che hanno o che vogliono speranza  per cui sono  molti quelli che hanno o che vogliono  memoria.

Però come si fa ad avere memoria di tutto; come si può possedere la storia; com’è possibile contenere il passato sconfinato. Se così fosse – e così non è, non può essere – la speranza sarebbe qualcosa di indistinto, forse anche di indicibile, forse anche di impensabile. Ecco, dunque, che l’orizzonte della storia orienta lo sguardo, lo calibra. Ecco che ad un certo punto si ricorda quel paesaggio e non un altro, o comunque lo si ricorda meglio di qualunque altro, in modo nitido, compiuto. Così anche la speranza trova orientamento, si definisce e si conforma ai bisogni, alle attese, alle strade che si percorrono o si pensa di intraprendere.

Allora ci si può domandare qual è oggi il nostro paesaggio da ricordare, al quale correlare l’orizzonte di speranza. E’ una delle domande che può suscitare il “Giorno della memoria”, che la  legge 211 del 2000 istituisce per il  27 gennaio, per quello stesso giorno del ’45 che l’abbattimento dei cancelli di Auschwitz rivelò l’orrore a tutto il  mondo.

Probabilmente il paesaggio della nostra memoria è il Novecento: quel tempo che ha avuto tanti volti da non averne uno immediatamente riconoscibile o con cui essere identificato con certezza; che ha avuto tante definizioni da potersi sottrarre a  qualsiasi denominazione definitiva. Il paesaggio della nostra memoria è quel secolo complesso e proteiforme, coacervo di razionalità e  dissennatezza, di intuizioni straordinarie e ottusità spaventose, tramato da intenzioni di pace e tensioni di guerre e  rivoluzioni e rivolte, esodi disperati, ricchezze indecenti, povertà scandalose. E’ quel paesaggio dentro cui si muovono le ombre della contraddizione: le conquiste della scienza e i gas micidiali, la bomba atomica e la penicillina, la democrazia e i totalitarismi,  la distruzione e la rinascita dell’umano.

Avere memoria di questo può costituire una speranza di continuità del bene e di rifiuto di tutto quello che è stato o ha prodotto il male.

Avere memoria di questo vuol dire non muoversi nel vuoto della dimenticanza che può produrre gli stessi errori, vanificare gli esiti del bene.

Così memoria e speranza devono trasformarsi in richiamo, appassionato e irresistibile. Inevitabile.

Come il richiamo dei  tre alberi  che appaiono in “ All’ombra delle fanciulle in fiore” di Marcel Proust, forse mai visti prima o forse risalenti da un sogno, forse fantasmi del passato, cari compagni dell’infanzia, amici scomparsi che invocano ricordi comuni, che nel contesto del paesaggio si caricano di un’ energia  enigmatica, di un  bisogno assoluto di comprensione del loro significato. Come ombre sembrano domandare di essere restituiti alla vita, agitano i rami come braccia disperate e dicono: “Quel che non apprendi oggi da noi, non lo saprai mai. Se ci lasci ricadere in fondo a questa via da dove cercavamo di issarci fino a te, tutta una parte di te stesso che ti portavamo  cadrà per sempre nel nulla”.

La memoria lascia agli uomini simboli  da rigenerare attraverso l’interpretazione. Se non si vuole o non si impara a leggere questi simboli, a scavare nelle loro stratificazioni, ad individuare i sensi che li hanno prodotti e quelli che essi producono ed espandono, se li si abbandona alla tenebra dell’ indifferenza o alla immutabilità di un’icona, allora la memoria si fa  sterile, diventa muta.

La memoria è connaturata al tempo e dal tempo può essere divorata se i suoi simboli non vengono costantemente rinnovati da  sensi ulteriori. Senza una comprensione dei simboli, i fatti e le storie di cui sono rappresentazione e memoria resteranno sconosciuti e quindi insignificanti, privi di ogni possibilità di esprimere la funzione che hanno avuto e hanno nella storia dell’umanità. Così l’immagine di un uomo per le strade di un’ Hiroshima spettrale e una dell’impronta di Neil Armstrong sulla luna potranno precipitare nello stesso baratro di insignificanza.

Ma nella loro complessità i simboli della storia portano a noi  una parte di noi stessi , un particolare dell’identità, che se non sappiano riconoscere e tenerci come memoria perderemo senza possibilità di rimedio. Questo vale per ciascuno e vale per tutti, per un paese di poche anime, una città,   una nazione, un continente, per il mondo. Vale per le memorie comuni e per quelle individuali, per le memorie del bene e per quelle del male.

Un uomo senza memoria non ha radici da cui far sviluppare un progetto di futuro. Un progetto di futuro si sviluppa soltanto in una condizione di speranza. Per un uomo e per un popolo è così.

Allora abbiamo urgenza di memoria perché abbiamo urgenza di speranza, come esseri, come società, come comunità di destino.  La speranza di star bene e di un benessere da costruire; la speranza che i poveri diminuiscano fino a sparire, che i vecchi e i bambini non siano mai soli, di  una pace da cominciare e una guerra da finire. Abbiamo speranza di fede, di verità, di giustizia. Di continuare e di ricominciare. Abbiamo speranza per quelli che ci sono e per quelli che verranno.  Perché abbiamo memoria di quelli che c’erano e che hanno avuto speranza per noi.

[Nuovo Quotidiano di Puglia, 27 gennaio 2011]

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Primo Maggio festa del lavoro che non c’è

Che cosa  festeggeranno il Primo di Maggio i disoccupati, i cassintegrati, i sottoccupati, che cosa festeggeranno i saltuari, i precari, gli occasionali, gli stagionali, quelli che lavorano oggi e non si sa domani. Quelli che a cinquant’anni hanno perso il lavoro, i giovani che non sanno se un lavoro ce l’avranno, tutti quelli che studiano e non vedono una luce, tutti quelli che hanno anche smesso di studiare. Che cosa festeggeranno quelle famiglie meridionali che con meno di mille euro al mese pagano l’affitto o il mutuo, pagano le bollette, mandano i figli a scuola, gli comprano i libri, i vestiti,  le scarpe, aspettano i saldi di fine stagione, fanno la spesa al supermarket, pagano le rate dell’auto, pagano le rate di tutto, e che Dio le faccia stare bene, queste creature, perché se non stanno bene poi devono pagare altro.

Che cosa festeggeranno i figli e le compagne  e le madri dei morti sul lavoro, di quelli che sono usciti un mattino e non sono più tornati.

Che cosa festeggeranno i pensionati che hanno lavorato una vita intera per quei quattro soldi che prendono e contemporaneamente lasciano sul conto del nipote che non lavora per cui non prenderà neppure quella miseria di pensione che prendono loro.

Noi non sappiamo per cui non possiamo dire che cosa festeggeranno. Lo dicano i politici di ogni parte degli ultimi quarant’anni, lo dicano gli economisti di ogni scuola, tutti quelli che sanno e che hanno la possibilità di progettare, di investire risorse umane e finanziarie, di proporre, di decidere le soluzioni di questi problemi. Lo dicano loro.

Che cosa festeggeranno quelli che ogni santo giorno consultano siti e giornali con le offerte di lavoro, in una specie di caccia al tesoro che si fa sempre più misterioso. Quelli  che mandano il curriculum ad uffici, aziende, imprese e aspettano una risposta che non viene, che sostengono colloqui per sentirsi dire ogni volta le faremo sapere, che sommano specializzazioni, qualifiche, corsi, master, stage, per accaparrarsi un punto in una graduatoria, che bussano a porte che restano serrate.

Che cosa festeggeranno quelli che per trovare qualcosa da fare devono ancora scappare dal Sud, quelli che devono accontentarsi, che devono accettare un’attività incoerente con le loro competenze, quelli che cercano un’occasione, quale che sia, circoscritta, discontinua, temporanea, che se non gli permette di sognare il futuro almeno gli fa sopportare meglio il presente.

Nel suo discorso di fine anno il Presidente della Repubblica ricordò che le persone in cerca di occupazione sono tornate a superare i due milioni, di cui quasi uno nel Mezzogiorno, che il tasso di disoccupazione nella fascia di età tra i 15 e i 24 anni ha raggiunto il 24,7 per cento nel Paese e il 35,2 nel Mezzogiorno. Disse: “ sono dati che debbono diventare l’assillo comune della Nazione”. Poi aggiunse che se ai giovani non apriamo “ nuove possibilità di occupazione e di vita dignitosa, nuove opportunità di affermazione sociale, la partita del futuro è persa non solo per loro, ma per tutti: ed è in scacco la democrazia”.

Certo che nessuno vuole perdere la partita del futuro, anche perché è una partita senza tempi supplementari, senza calci di rigore, che non si vince a tavolino. Nessuno vuole che la democrazia si ritrovi sotto scacco.

Non ricordo chi diceva che il futuro non è un dono ma una conquista.

E’ la conquista di un uomo ma anche quella di una comunità. Un uomo e una comunità sono legati da una relazione sostanziale, da un destino di reciprocità. Una comunità conquista futuro ogni qualvolta che un uomo conquista il suo.

Allora ha ragione il Presidente Napolitano: che i dati della disoccupazione diventino l’assillo di questa Nazione, che inquietino il sonno, che tormentino ciascuno, che diventino impegno d’onore, fantasia, energia. Perché al prossimo Primo di Maggio si possa festeggiare il futuro. Tutti insieme. Nessuno escluso.

[Nuovo Quotidiano di Puglia, 29 aprile 2011]

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L’acchiappatore nella segale

Verso la fine  di quel bellissimo romanzo che è “Il giovane Holden”, Salinger fa pronunciare al suo personaggio queste parole: “Mi immagino sempre tutti questi ragazzini  che fanno una partita in quell’immenso campo di segale eccetera eccetera. Migliaia di ragazzini, e intorno non c’è nessun altro, nessun grande, voglio dire, soltanto io. E io sto in piedi sull’orlo di un dirupo pazzesco. E non devo fare altro che prendere al volo tutti quelli che stanno per cadere dal dirupo, voglio dire, se corrono senza guardare dove vanno, io devo saltar fuori da qualche posto e acchiapparli”.

Mi è tornata alla mente la figura dell’acchiappatore nella segale mentre leggevo il Rapporto Unicef 2011.

Di innumerevoli acchiappatori di ragazzini avrebbe bisogno il mondo, per tentare di salvare i milioni  di adolescenti che corrono verso il dirupo, mentre giocano la propria  partita nell’immenso campo di segale della loro esistenza. Il dirupo è la condizione di povertà, di disuguaglianza; è lo sfruttamento, l’abuso, la violenza; è la malattia, la guerra, il degrado ambientale, la crisi economica, il disagio mentale, l’inadeguatezza o l’assenza di assistenza sanitaria,  l’istruzione che manca.

Se il presente prefigura il futuro, allora negli anni che verranno il dirupo forse si farà più profondo: perché forse aumenteranno i conflitti e di conseguenza le condizioni economiche si faranno ancora più incerte, ancora meno programmabili, le crisi umanitarie avranno più difficoltà di soluzione, crescerà il livello della disoccupazione, le migrazioni diventeranno esodi, ancora più drammatici di quelli dei giorni che corrono. Perché non ci sono armi, mari, deserti che possano fermare la gente che ha fame.

Si avrà bisogno di acchiappatori nella segale: di tanti, tanti acchiappatori.

Convenzionalmente l’età dell’adolescenza va dai dieci ai diciannove anni.

Nel 2009 gli adolescenti in tutto il mondo erano 1,2 miliardi, cioè il 18% circa della popolazione.

Quasi la metà non frequenta la scuola media, con percentuali più alte nell’Africa orientale e meridionale. Le cause sono d’ogni genere fra cui anche quella che non esiste una scuola da frequentare.

Energie dilapidate. Talenti sprecati. Intelligenze bruciate. Esistenze che si disperdono nel vuoto di prospettiva, nel cunicolo che dall’analfabetismo porta al fallimento sociale, destinate alla marginalità culturale, economica, ad un futuro limitato, contratto. Mancano di quelle competenze di base e specifiche che il mercato del lavoro richiede in modo sempre più pressante.

Un paese cresce solo se sviluppa benessere. Il benessere è sviluppato dalle generazioni giovani che quindi devono essere messe nelle condizioni di poterlo fare. Hanno bisogni di conoscenze e di strumenti. Le conoscenze e gli strumenti si chiamano formazione, istruzione.

Bisogna investire in questo, dunque, strutturando percorsi prima di alfabetizzazione culturale  e poi di formazione professionale, perché è soltanto questo che può garantire non solo opportunità di sviluppo economico ma anche la partecipazione alla vita sociale, la comprensione dei fenomeni locali e globali, l’espressione delle idee. Soltanto l’istruzione costituisce la sentinella della democrazia o la condizione che consente di costruirla.

Per investire nell’istruzione secondaria si dovranno prendere almeno tre provvedimenti, dice il Rapporto Unicef.

Innanzitutto estendere l’istruzione obbligatoria al livello secondario. Poi abolire le tasse sia dell’istruzione primaria che di quella secondaria, perché insieme alle persone crescono anche i costi, costringendo molti genitori a far interrompere gli studi.

Il terzo provvedimento consiste nella promozione di un accesso equo all’istruzione post-primaria.

Ecco, allora, che c’è e ci sarà sempre più il bisogno di acchiappatori di ragazzi che rischiano di precipitare dal dirupo.

Ma chi possono essere queste figure, chi può caricarsi di questa responsabilità, di questa funzione, se si vuole anche di questa missione, per recuperare una parola un po’ démodé.

Il genitore, certo. Se c’è. Ma non ci si può affidare esclusivamente al suo intervento, perché spesso i contesti di arretratezza e di sottosviluppo ne compromettono la prospettiva. La miseria rende ciechi, impedisce di vedere al di là del soddisfacimento del bisogno urgente, oscura le visioni di futuro, nega la possibilità di progettazione.

Si potrebbe dire la scuola, il docente. Indubbiamente. Ma neanche questo basta, se la sua funzione non è inserita in un piano d’azione mirato, coerente e coeso, in un disegno culturale,  sociale e politico che impegni la comunità in un percorso verso un orizzonte formativo delineato chiaramente.

Ecco, dunque, che non c’è alternativa all’azione di una politica che si ponga come priorità assoluta la costruzione del futuro delle generazioni cui saranno affidate le nazioni. Chiunque abbia una responsabilità di governo dovrebbe provare il profondo convincimento che un paese che non assume l’impegno concreto di formare i suoi cittadini e di prepararli ad affrontare le sfide particolari e complessive di questo millennio non si garantisce nemmeno la sopravvivenza della sua civiltà e della sua memoria.

A volte diventa veramente difficile pensare che il Novecento, con i suoi progressi straordinari sul piano della scienza, della tecnica, della ricerca, della politica, dell’economia e per molti aspetti anche della solidarietà,  non sia riuscito a  trovare una soluzione al problema dell’istruzione nel mondo in via di sviluppo. Ma la difficoltà  di pensiero si trasforma in impotenza quando si ha notizia che in Europa – nella grande civile ricca Europa – sono più di sei milioni i giovani che non studiano, non  frequentano corsi di formazione professionale,  hanno un titolo di studio che corrisponde a quello della nostra terza media.

Aveva ragione quel vecchio orso solitario di Salinger: bisogna mettersi tutti sull’orlo del dirupo, e prendere a volo i ragazzini  che stanno per caderci.

[Nuovo Quotidiano di Puglia, 26 giugno 2011]

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Disoccupazione  e laureati: è vera emergenza

Hanno trent’anni, una laurea, a volte due,  e una rabbia lucida, civile, razionale. Non si fanno illusioni e non averne  a quell’età è avvilente, è mortificante, perché non se ne potranno avere mai più. Pagano il prezzo personale e sociale di quarant’anni  di investimenti politici inesistenti o sbagliati,  di una cecità progettuale, di un’indifferenza e di un’incoscienza verso i destini individuali  e collettivi, del fuoco appiccato a quei  granai della società che sono i giovani e le loro intelligenze, la loro formazione, la loro cultura, i loro entusiasmi, le loro passioni.

Secondo l’ultimo rapporto Isfol i tassi di occupazione dei laureati italiani sono inferiori a quelli di molti altri Paesi europei: di sei punti rispetto alla media comunitaria, di dieci punti rispetto alla Germania, di quattro rispetto alla Francia, di oltre sette punti rispetto al Regno Unito. Se poi il confronto viene fatto con  il Nord dell’Europa, allora la differenza diventa più profonda, di oltre dieci punti rispetto alla Svezia, l’Olanda, la Norvegia.

Di conseguenza viene spontanea una domanda forse banale, inconcludente, oziosa. Questa: che cosa ha l’Italia da invidiare alle altre nazioni dell’Europa. Che cosa ha da invidiare ciascuno di noi ad ogni altro cittadino dell’Europa. Ovviamente le risposte potrebbero essere tante, perché ognuno ha indubbiamente la sua.

Ora, non è che bisogna aver fatto scuole alte, né  possedere competenze specifiche di statistica ed economia, ma anche chi si trastulla con le cose di poesia, per esempio, può comprendere alquanto agevolmente che dietro ogni numero, ogni percentuale ci sono esistenze offese, speranze frustrate, sogni spezzati, il malessere generato dalla precarietà, la tristezza per l’impossibilità o quantomeno la difficoltà di disegnare il proprio futuro.

In questa situazione matura la convinzione che il titolo di studio sia moneta che non paga. Dopo che per sessant’anni la formazione ha rappresentato una condizione – spesso l’unica – di promozione e di riscatto sociale, dopo essere stata la realizzazione del  sogno di padri e madri che vedevano nel figlio che si laureava e vinceva un concorso o metteva la targa lucida alla porta dello studio, la ricompensa ad una vita di lavoro nella terra o di emigrazione, dopo essere stata orgoglio interiore e giustizia della Storia, ora si depriva di senso e di valore.

Così gli iscritti all’università continuano a diminuire: secondo il Cun gli atenei statali hanno avuto nel giro di un anno – dal 2009 al 2010 – 3.986 immatricolazioni in meno, pari al 5%. Con questo andamento, l’obiettivo strategico del 40 per cento della quota di laureati per la popolazione dai 30 ai 34 anni   fissato dalla Commissione Europea per il 2020 non sarà altro che un miraggio nel deserto, la beffa di una fata morgana.

Una tendenza alla riduzione costante, preoccupante, soprattutto se si considera che non solo in futuro ma già da tempo il mercato del lavoro richiede sia competenze specifiche che competenze trasversali che si possono elaborare  soltanto attraverso un processo di integrazione dei saperi.

Se poi si allarga lo sguardo si vede che negli ultimi quattro anni, la percentuale di immatricolazioni è calata del 9,2%, vale a dire  26 mila studenti  in meno. Ma non basta, perché i fenomeni si osservano sempre da una prospettiva e vorrei osservare questo fenomeno dalla prospettiva del Sud. Perché è sempre  un bel parlare di Nord e di Sud e delle tante virtù del Nord e dei troppi vizi del Sud,  dei loro destini che si dividono o s’ incrociano. E’ sempre un bel parlare. Spesso retoricamente, a vuoto, come in un discorso a tempo perso.

Nella diffusa diminuzione di iscrizioni le università del Sud soffrono di più con quasi il sette per cento in meno.

Ecco, allora, che è assolutamente inutile cercare di trovare formule per ridurre il divario economico, perché se non si interviene a livello strutturale, ogni soluzione sarà sempre posticcia, temporanea, di poca efficacia.

Probabilmente si devono cercare e trovare – anche in tempi brevi – formule per integrare  il sistema formativo e il territorio, per creare condizioni di reciprocità virtuosa, per valorizzare le energie e le risorse dell’uno e dell’altro, riducendo e possibilmente azzerando i casi di autoreferenzialità, di anacronistiche chiusure da parte dell’accademia e di sterili provincialismi da parte del territorio.

Indubbiamente esistono contesti e situazioni in cui questo avviene già da tempo con esiti anche abbastanza rilevanti. Questi contesti rappresentano eccellenze. Il Sud le eccellenze ce l’ha. Si tratta solo di diffonderle, di contagiarle. Non saprei dire se è un processo  facile o difficile, ma che sia facile o difficile non importa. Importa solo che è urgente farlo. In gioco ci sono tutti i destini di quelli che ci sono e di quelli che verranno, e non è poca cosa.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, venerdì 1 luglio 2011]

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Quale Facoltà? Scegliete sulla base della passione

Quando si chiede a chi ha concluso gli esami di scuola superiore quali sono i progetti che si è disegnato nel pensiero, quali i programmi che ha elaborato, quali i sogni che fa ad occhi aperti e chiusi, quando si cerca di capire quale sia il senso che attribuisce allo studio nella prospettiva e nella speranza del futuro, ci si rende conto che questi ragazzi, queste ragazze, si ritrovano ad assumere drammatica consapevolezza di un’incognita gigantesca, di un’incertezza che provoca mortificazione. Sentono dentro un senso profondo di disorientamento. Non sanno quale possa essere la direzione più giusta o meno sbagliata. Perché vedono le strade del lavoro sbarrate. Da un giorno all’altro l’esplodere delle crisi scombina le idee, rimette tutto in discussione.Si chiedono quale facoltà universitaria possa garantire un’occupazione da qui a cinque, sei, sette anni. Quando si guardano intorno vedono una folla di precari, di ogni tipo e in ogni settore. Vedono persone con titoli di studio di livello superiore costrette ad arrangiarsi come meglio sanno, come meglio possono.

Così la scelta dell’università diventa una sorta di corsa al buio e a volte anche dentro un vicolo cieco.

Probabilmente per capire bene occorre circoscrivere il contesto e ragionare praticamente, magari facendo ricorso alla conoscenza diretta che si ha dei fatti e dei problemi.

Una cosa fondamentale, nelle scelte della vita, consiste nella possibilità e nella  capacità di sbagliare da soli, se proprio si deve sbagliare. Il che significa, per esempio, che non bisogna  dare retta ai saggi, ai cosiddetti ( e qualche volta sedicenti) esperti, a quelli che fanno proiezioni e predizioni d’ogni sorta. Perché le cose cambiano, se non proprio di ora in ora, comunque in un torno brevissimo di tempo , per cui quello che vale per domani non varrà dopodomani.

Mi pare – dico così, da incompetente – che questa continua trasformazione sia una sorta di regola che governa l’economia, da qualche tempo a questa parte. Se la cosa è vera, allora per conseguenza naturale dovrebbe essere anche vero che le richieste del mercato e del lavoro, in quanto dipendenti dall’economia, sono sottoposte a rapidissime, vorticose trasformazioni.

Questo, ovviamente, complica ancora di più le cose, perché se non si possono tenere in considerazione accreditate previsioni, il problema della scelta universitaria diventa di difficilissima soluzione.

Allora, forse non resta che un criterio solo: è un criterio antico, che sfugge alle statistiche, non tiene neanche in conto le possibilità di occupazione, ma che non è azzardato, non è arbitrario. E’ un criterio soggettivo, anzi interiore, che, quindi, vale soprattutto quando è il tempo di saper buttare il cuore oltre la barriera. Il criterio è quello della passione. Ecco. Forse bisogna fidarsi solo della passione, lasciarsi guidare solo da questa. La passione non è una condizione separata dalla ragione. Tutt’altro: è la ragione combinata al sentimento, è un rapporto con il tempo, e con tutto quello che al tempo è annodato, caratterizzato da un movimento che va dall’interno verso l’esterno, e non viceversa. Vale a dire che chi sceglie non si fa condizionare dai contesti, dalle circostanze , dalle contingenze, ma  tenta di determinare i presupposti per riuscire ad essere colui che condiziona gli elementi di contesto. Tanto quello che è certo è che questi ragazzi, queste ragazze, si ritroveranno a fare molti più sacrifici di quelli che noi abbiamo fatto  e che facciamo ancora. Ma se i sacrifici si fanno per qualcosa che  piace, per quello che appunto appassiona, allora pesano di meno, allora non si pensa nemmeno al guadagno. Per quello che non piace, che non appassiona, i sacrifici non si fanno. A quel punto si verifica il fenomeno della marginalità sociale e lavorativa. A quel punto si avverte la sensazione del fallimento esistenziale.

Probabilmente ora, più di qualche anno fa, una facoltà vale l’altra perché nessuna può dare garanzie di uno sbocco professionale immediato o a breve periodo. Quei settori che fino a qualche tempo addietro si rivelavano meno problematici degli altri, adesso si sono intasati perché in tanti si sono orientati verso di essi. Ogni anno, dopo l’esame della superiore, si verificano vere e proprie ondate verso una direzione. D’altra parte, in molti – forse troppi – casi  manca ancora una organica programmazione dell’orientamento universitario, il quale molto spesso si risolve in una pratica degli spot pubblicitari. Non può essere così. E’ necessario, è indispensabile, un raccordo strutturale con le scuole superiori, una progettazione congiunta, una sistematicità delle relazioni. Probabilmente è anche questa  una delle condizioni che determinano il calo delle iscrizioni nelle università del Sud. Una. Non la sola. Non la più importante, forse. Ma significativa, comunque.

Una passione, dunque. Se uno sogna di fare l’ingegnere o l’avvocato o il medico o il professore o l’archeologo, il chimico, il fisico, il giornalista, o se sogna di fare il ricercatore di quello che ormai si ricerca poco, segua il suo sogno, quale che sia il costo. Ci sono creature felici di fare il lavoro che fanno per mille euro al mese e ci sono quelli  che per cinquemila fanno infelicemente quello che non sopportano di fare. Ci sono cose delle vita che valgono molto e molto di più del denaro, e sono tante.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, 17 luglio 2011]

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Cari scienziati lasciateci la campanella delle otto

E’ fin dai tempi dell’antica Atene, da quando all’età di sei anni cominciavano a frequentare una scuola privata oppure quella del quartiere, che lo ripetono continuamente e in ogni lingua che insomma non è cosa da cristiani questa levataccia appena dopo l’alba, e poi subito la corsa per prendere il pullman con la brioche infilata nella tasca e poi matematica, greco, grammatica già alle otto del mattino, mentre il pensiero è ancora rannicchiato sotto le coperte.  A quell’ora si capisce poco e a volte niente, come nel caso del lunedì  o di un altro giorno che segue il dì festivo.

Ora, a distanza di pochi -pochissimi- giorni dall’inizio delle lezioni dell’anno scolastico che arriva, le cronache riferiscono che i  neuroscienziati dell’università di Oxford hanno finalmente dato certezza con adeguato supporto di sperimentazione alle millenarie e inascoltate ragioni degli studenti.Dicono gli scienziati che ritardare l’inizio delle lezioni agevola i processi di apprendimento in quanto la melatonina, l’ormone che favorisce il sonno negli adolescenti, inizia a essere prodotto due ore più tardi rispetto alle persone adulte. (Mentre noi, ignoranti e incoscienti, abbiamo sempre attribuito a differenti e non biologici motivi e moventi la tendenza ad andare a letto poco prima del canto del gallo e l’incerto risveglio intorno all’ora di pranzo).

A dare riscontro di prassi alla teoria, Paul Kelley, preside di una scuola superiore di Whitley Bay, nei pressi di Newcastle, ha posticipato l’inizio delle lezioni dalle nove ( che già non è proprio l’ora dell’albeggiare) alle dieci con conseguente innalzamento tanto dell’indice di gradimento della sua leadership da parte degli studenti, quanto dei risultati degli esami che hanno registrato un subitaneo incremento dei voti tra il 21 e il 34 per cento.

Ora, nel più assoluto rispetto dei risultati della ricerca e delle decisioni assunte dal preside, ci si permette di ragionare per qualche riga sui significati che può avere l’orario di una scuola.

E’ talmente ovvio che non si può nemmeno premettere che ogni organizzazione dell’ insegnamento dev’essere finalizzata all’apprendimento degli studenti. Però è poi anche vero che la scuola deve formare profili di personalità capaci di contestualizzare l’apprendimento, di renderlo flessibile alle situazioni, di utilizzarlo al di fuori dei contesti in cui matura. In altre parole, si è sempre detto che tutto quello che s’impara in una scuola deve avere un senso e una funzione fuori dal perimetro di quella scuola.

Fuori, si sa, ci sono situazioni di lavoro che, fatta l’eccezione di rari privilegi, non cominciano alle dieci ma un po’ più presto. Allora la scuola deve insegnare che occorre anche adeguare i propri ritmi a quelli che sono gli orari richiesti dal lavoro, dalle esigenze della vita e, soprattutto, che quello che si sa non sempre può essere espresso in condizioni di comodità, di struttura ottimale. Ancora: che non può essere il mondo ad adeguarsi al tuo modo di pensare e di lavorare ma il contrario. Forse il rischio che si corre nel subordinare l’orario della scuola a quello dei ritmi circadiani degli studenti è quello di provocare la percezione e di determinare la convinzione che tutto l’universo ruoti intorno ai propri bisogni. Se poi ci si accorge tardi che non è affatto così, a quel punto il guaio si fa serio.

Ecco: lavorare. Se si considera che lo studio non è altro che un lavoro, allora ogni dubbio si dissolve perché questo lavoro deve rientrare nei tempi e nelle modalità di qualsiasi altro lavoro, o quasi.

Ma c’è un altro elemento di cui si dovrebbe tener conto, probabilmente. Se si cominciano  le lezioni di primo mattino,  si verifica  un apprendimento che, a modesto avviso di chi scrive, risulta di inestimabile valore formativo ed esistenziale, perché il giovanotto trova (o dovrebbe trovare) padre e madre già all’erta per andare al lavoro (se non ci sono già andati) e quando esce di casa vede che il piccolo mondo antico e nuovo che lo circonda ha già iniziato a sfaccendare e talvolta anche ad affannarsi, e se ne sente parte.  Magari gli viene in mente una cosa letta una volta che diceva più o meno cosi: ogni mattina, in Africa, si svegliano un leone e una gazzella. Il leone sa che deve correre più forte della gazzella, altrimenti morirà di fame. La gazzella sa che deve correre più forte del leone, altrimenti sarà mangiata. Che tu sia leone o gazzella, appena sveglio, comincia a correre.

Per cui, sveglia ragazzi, che qui in Italia si comincia alle otto. Con tolleranza di dieci minuti per i pendolari. Si continua come si è sempre fatto. Che poi proprio fessi non siamo venuti.

[Nuovo Quotidiano di Puglia, 31 agosto 2011]

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PRECARIA  GIOVENTU’

Loro non sanno  cosa faranno domani. A volte non se lo chiedono nemmeno. Certamente hanno un sogno – perché a vent’anni si deve  sognare – però non lo dicono, come se provassero pudore.

Loro si guardano intorno e vedono il buio. Guardano avanti, e vedono il buio. Sono realisti. Non si fanno illusioni. Studiano senza uno scopo, senza nessuna ambizione. Perchè la cosa che sanno è che troveranno un imbuto: un mercato del lavoro che si fa sempre più stretto, il campo delle professioni sempre più affollato. Sanno che dovranno sostenere battaglie, quale che sia il mestiere: medico, avvocato, insegnante, ingegnere, fisico, matematico. Fatta eccezione per qualche specializzazione, si ritroveranno a confrontarsi con la precarietà, l’incertezza, la sottoccupazione.

Si dice che senza una laurea non si va da nessuna parte. Ma poi ci si domanda dove si va  con una,  a volte con due.

Dopo che per sessant’anni la formazione ha rappresentato una condizione – spesso l’unica – di promozione e di riscatto sociale, dopo essere stata la realizzazione del  sogno di padri e madri che vedevano nel figlio che si laureava e vinceva un concorso o metteva la targa lucida alla porta dello studio, la ricompensa ad una vita di lavoro nella terra o di emigrazione, dopo essere stata orgoglio interiore e giustizia della Storia, ora si depriva di senso e di valore.

Loro sono quelli che aspettano. Comprano i giornali che riportano i concorsi, scrutano le gazzette ufficiali, fanno domande per partecipare. Aspettano le prove di volta in volta  rinviate, aspettano mesi, aspettano anni. Intanto bussano alla porta di aziende, di banche, ad ogni porta dietro cui ci possa essere un lavoro, rispondono agli annunci, si sottopongono a test attitudinali, a colloqui, alle umiliazioni di analfabeti seduti dietro una scrivania. Provano rabbia. Provano invidia. Provano nausea. Mentre passano gli anni e le speranze svaporano e le prospettive diventano poltiglia. Si mantengono con lo stipendio dei genitori o con la pensione dei nonni, di quei pensionati capaci – non si sa come – di  mettere da parte i quattro soldi che ogni mese prendono da uno sportello dell’ufficio postale.

Loro sono quelli che vanno via da qui, dal Sud, dal Sud del Sud. Ora come allora. Ancora. Quasi che la storia consistesse davvero nella maledizione dei ricorsi, in un assurdo ripetersi di situazioni. Vanno a cercare una possibilità altrove, anche se precaria, stagionale.

Però si dice,  si ribadisce a voce sempre più alta, che il divario tra Nord e Sud si può colmare solo attraverso una seria e costante politica occupazionale, attraverso un assorbimento delle condizioni di precarietà, con azioni di sviluppo e di offerta di lavoro da sottrarre all’incertezza del fortuito, dell’occasionale. Così si dice. Da dieci, venti, trent’anni, si dice così.

Fuitevenne  disse, invece, Eduardo De Filippo rivolgendosi ai giovani di Napoli, a tutti i giovani del Sud. Fuitevenne. Scappate da qui. Se avete qualcosa da fare, se avete un sogno dentro, andate via da qui.   Come se si dovesse scontare una condanna biblica, un peccato assoluto e originale, fare i conti con una maledizione divina, pagare con la fuga, con  l’abbandono, con l’erranza, la sfortuna di essere nati a Sud. Fuitevenne. Perché qui non c’è oggi, non c’è domani, non conta quello che sai né che sai fare, non conta se hai studiato, se ti sei spaccato la schiena sui libri,  di giorno e di notte.  Niente conta. L’emigrazione ritorna come un rigurgito della storia, l’incubo del passato che non passa, una sorta di destino misterioso, un oltraggio al sentimento, un insulto alla ragione. E’ la ferita sul cuore degli uomini e della terra. L’emigrazione è la negazione di un riscatto, un gelo che cala sul progresso, il tempo che si avvita su se stesso. Allora fuitevenne. Il Sud non è capace di dare un presente e un futuro ai suoi figlioli. Dobbiamo dire così. Senza ipocrisie, senza indulgenze, senza finzioni. Fuitevenne.  Come nei primi anni Sessanta, come  per tutto quel decennio.  Quasi che non fosse cambiato niente.

Lasciano il Sud molti laureati con il massimo dei voti.  Vuol dire non si è riusciti ad onorare un impegno. Vuol dire che questo Sud, questa eterna terra del rimorso, rinuncia alla competenza, alla ricerca, ad un sapere adeguato ai contesti europei, mondiali. L’emigrazione intellettuale è stata e continua ad essere uno dei fenomeni che dovrebbero inquietare la coscienza di una nazione. Non si è stati capaci di una programmazione del fabbisogno. Non si è neanche pensato a forme di reclutamento che garantissero al contempo la qualità della formazione e il diritto al lavoro. E’ stato lasciato tutto al caso e all’improvvisazione di soluzioni che inventavano canali o producevano tamponi.

Allora il precariato è cresciuto come una marea. E’ arrivato a forme di esasperazione, talvolta anche difficili da gestire.

Si è detto spesso e ancora si dice che si deve investire su scuola e ricerca. Più di quanto si è fatto, più di quanto si fa.  Non lo dice la gente di scuola, né quella che fa ricerca. Lo dice chi si occupa – anche autorevolmente – di economia, di sociologia.

Però a questo punto nel pensiero di ciascuno si genera una domanda: per quale motivo, con quale prospettiva, con quali ipotesi di realizzazione. Perché incrementare il livello di laureati, di persone che almeno fino a trent’anni non possono contare su un ritorno economico degli investimenti fatti nello studio, quale vantaggio può trarne ogni persona e ogni comunità.

Allora, probabilmente la questione deve essere posta stabilendo una relazione tra gli investimenti che si fanno su scuola e ricerca e la progettualità della politica, tra condizioni e processi di sviluppo del territorio e l’orientamento e la strutturazione dei percorsi di formazione universitaria e di scuola superiore che costituisce il presupposto e l’orientamento per l’università.

Se l’ emigrazione intellettuale è di livello preoccupante, ad esso  deve aggiungersi il livello di disoccupazione intellettuale e poi quello di sottoccupazione. Il sistema produttivo non offre possibilità. Allora fuitevenne.  Tra qualche anno poi ci riaccorgeremo che i migliori ricercatori vengono dal Sud, che coloro che ricoprono ruoli e svolgono funzioni determinanti per lo sviluppo sociale, economico, culturale, vengono dal Sud, mentre un altro rapporto ci informerà che a Sud, e al Sud del Sud, aumenta ancora l’emigrazione, la disoccupazione, che le condizioni di differenza negativa tra le due aree del Paese  si sono fatte più radicali, più profonde. Sono diventate fratture, baratri.

Ha ragione il Presidente della Repubblica quando dice che lo Stato deve fare di più per il meridione, che nelle istituzione deve crescere “ la consapevolezza del carattere prioritario e della portata strategica dell’obiettivo di superamento dei divari tra Nord e Sud”. Ha ragione quando dice che non ci potrà essere “una prospettiva di stabile ripresa del processo di sviluppo” senza “ un superamento degli squilibri territoriali, necessario per utilizzare pienamente tutte le potenzialità del nostro Paese”.

Ma l’equilibrio territoriale attraverso  la valorizzazione delle potenzialità non si potrà mai stabilire se tra la scuola ( la formazione in genere) , la politica e il mondo del lavoro manca il confronto, la programmazione integrata, la verifica costante dei risultati ottenuti.

Bisogna investire sulla formazione, dunque. Però bisogna capire concretamente quali sono i soggetti che devono realizzare l’investimento.

Nel frattempo  ai giovani che si laureano nelle nostre università non possiamo dire altro che quello che abbiamo detto finora: fuitevenne. Con un dolore al cuore.

Corre sui muri delle strade  di questo Paese, da qualche tempo, una frase che dice così: non voglio morire precario. Non è soltanto uno slogan. E’ l’espressione di una disperazione. Un grido di rabbia e di dolore. Il rifiuto viscerale e razionale  dell’incertezza, della sospensione sul baratro del niente, dell’impossibilità  e dell’impotenza di pensare alla realizzazione di una propria realtà professionale. E’ l’esplosione di un disagio, di una mortificazione, di una condizione sacrificata.

Precario. Come il figlio di un dio minore. Come un’onta, un destino iniquo, un immeritato disonore. Come una condanna senza alcuna colpa, un sacrificio ad un altare vuoto, un peccato originale. L’incertezza che si fa abitudine. La marginalità sociale, il disagio esistenziale. La mancanza di riferimenti che costringe ad un orientamento ad occhi chiusi. Precario. La difficoltà di accendere un mutuo. Il domani come un argine franante.

Ci sono precari che hanno anche  cinquant’anni. Sembra incredibile eppure è così. Sono in questo purgatorio  da venti, a volte di più. Hanno famiglia – e se hanno anche solo se stessi comunque basta ed avanza – impegni da mantenere, bollette da pagare, emergenze da affrontare, imprevisti con cui fare i conti.

Il precariato ha origini lontane e cause attribuibili ad ogni parte. E’ una storia tramata e intrecciata di errori sociali, miopie culturali, mancanza di politica progettuale, di visione delle cose, di conoscenza delle situazioni. Non si è stati capaci di programmare e regolamentare i percorsi universitari,  i canali di accesso alle professioni, le modalità di reclutamento. Allora si paga pegno. Lo paga tutta la nazione. Si paga con un malcontento diffuso e sprezzante, ma per fortuna dignitoso e pacato, rispettoso, tollerante, democratico, disponibile al confronto e al dialogo anche con i sordi.

Perchè per  anni, per almeno tre decenni , i precari hanno dialogato anche con i sordi: con chi non ce la faceva a capire  o non voleva sentire che non si poteva tappare in una bottiglia l’energia professionale e l’intelligenza di migliaia e migliaia di persone e personalità definite, compiute, marcate. Loro, i precari, conoscevano e conoscono la filosofia e quello che della filosofia diceva quel signore che rispondeva al nome di Ludwig Wittgenstein:  la filosofia a questo deve servire, ad aiutare la mosca a uscire dalla bottiglia.

Così hanno trascorso buona parte della loro vita allenandosi  a uscire dalla bottiglia. Fino ad arrivare all’istinto adolescenziale, quasi, di scrivere sui muri la loro ribellione ad una situazione che si trascina oltre misura e mette a prova dura ogni capacità di sopportazione.

(Due figli, già grandi. Due lauree. Concorsi fatti e vinti, inutilmente. Uno schiaffo sulla faccia della logica, del diritto, del buon senso. Lui dice che precari non si nasce, si diventa; ti fanno diventare. Giorno dopo giorno, anno per anno. Finchè non ti rassegni, finchè non ti convinci che è una condizione naturale. Ti consoli guardandoti intorno, vedendo altri precari che sono più precari di te.   Perché  io sono precario storico, ironizza, amaramente. Io faccio parte della storia. Ci sono precari che fanno parte della storia e altri – meschini – che fanno parte solo della cronaca. Se sei precario storico ti pagano anche le vacanze di Pasqua e di Natale. Mica si scherza. Così dice.  Ventidue anni di precariato. Ventidue. Una cosa abnorme, incredibile. Così assurda che sembra irreale.

Ogni anno, intorno ai primi di settembre,  aspetta che una mattina  venga fuori la cattedra,  se non intera almeno uno spezzone: nove ore in qualche scuola della provincia. Poi diventa più facile completare fino a raggiungere le 18 ore. Avrei dovuto andare via, dice. Al Nord: Veneto, Lombardia. O in Sardegna. Sarei di ruolo già da molti anni. Ma andare via con due lauree è un’offesa, è un insulto a te stesso, alla tua dignità, ai tuoi studi, ai libri che hai comprato, alle tue privazioni, ai sacrifici dei tuoi che ti hanno mandato a scuola.

Per diventare precari storici non c’è bisogno di essere eroi, dice. Non si passa alla storia perché si fanno battaglie, si compiono gesta memorabili, si combatte sotto le mura di Troia. Nemmeno perché sei bravo, perché sai insegnare, coinvolgere gli studenti. Nemmeno perché continui a comprati libri e a studiare. Per diventare precari storici bisogna soltanto portare pazienza e  augurarsi di invecchiare rapidamente. Perché con  il tempo che passa teoricamente fai più supplenze e le supplenze ti regalano i punti e con i punti cambi fascia in graduatoria e sali e quando sali in graduatoria poi ti danno l’incarico annuale.

In realtà il meccanismo è un poco più complesso, però semplifichiamo per non annoiare.

Però dice che, in fondo, si sente precario soltanto due volte l’anno: all’inizio e alla fine: a settembre e a giugno. A settembre quando tutti gli altri cominciano e lui aspetta una convocazione, una di quelle convocazioni in cui ci si ritrova a centinaia e dopo tanto tempo non si è fatta ancora l’abitudine e nell’attesa si sente il cuore che arriva in gola, e poi a giugno quando lui finisce e tutti gli altri continuano e la nomina per gli scrutini viene fatta soltanto per le ore strettamente necessarie. Per tutto il resto dell’anno si sente insegnante come gli altri. Uguale. Perché gli studenti sono estremamente intelligenti, non fanno distinzione tra chi è di ruolo e chi non lo è, tra chi – per esprimersi in modo giuridicamente aggiornato – ha un contratto a tempo determinato e chi ce l’ha a tempo indeterminato. A volte la  distinzione la fa qualche collega, è vero: una minoranza insignificante. Di solito ex precario.  A volte la distinzione la fa qualche dirigente. Ma anche questa è una minoranza insignificante. La maggiorparte tengono i precari sul palmo della mano, perché sanno che hanno più esperienza: tanta più esperienza degli altri.  Poi conta quello che dicono gli alunni, anche quello che dicono i genitori se gli alunni sono piccoli, quello che dicono gli stessi colleghi.

Si sente precario due volte l’anno, ed è fortunato, dice. Si sente di una sfacciata fortuna. Perché, invece, c’è chi precario si sente ogni giorno, o quasi. Il precario di ogni giorno è quello che non è ancora passato alla storia. La storia ti accoglie quando hai molto punteggio. Con pochi punti, niente storia. Devi mangiare pane e cipolla.

Dice che in questa  condizione di precarietà non può abbandonarsi nemmeno al sogno della pensione.  Però dice che se ritornasse indietro rifarebbe esattamente quello che ha fatto: la stessa facoltà, lo stesso mestiere. Perché a questo mestiere ci crede davvero. Quando spiega l’Ulisse di Dante si sente nell’aula di un college d’eccellenza.

Ci sono passioni che riescono a farti amare anche le umiliazioni. Così dice.)

Non voglio morire precario.  Da precario si vive in modo dissociato. Da precario si vive a disagio con tutti, almeno fino a quando non ci si indurisce le ossa, e non si capisce che a volte si è più bravi degli altri, di quelli fortunati che hanno un ruolo, perché cambiando continuamente si impara ad adattarsi in fretta, ad applicare la teoria della flessibilità nel lavoro, ad inserirsi in percorsi già strutturati, si impara a confrontarsi con le urgenze, a gestire i tempi stretti, le scadenze, si impara a sperimentare, a trasformare la necessità in virtù.

Il precariato – ai livelli e con le dimensioni che ha oggi in Italia – è uno squarcio aperto nel tessuto del sociale, un’ombra grigia che si spande sulla dignità di un Paese.

Non voglio morire precario.

C’è gente che ha superato uno, due, tre concorsi.

Così, anno per anno, si è creata una situazione che non lascia intravedere sbocchi. Che le mosche conoscano la filosofia non basta più ora che   il collo della bottiglia si è fatto troppo stretto. Ora c’è bisogno di un sistema che possa creare un flusso ordinato e costante. C’è bisogno di un impegno da parte di tutti,  coordinato e coerente,  coeso e congiunto. Non si tratta solo di rendere giustizia a persone e lavoratori che si ritrovano protagonisti di  una storia di umiliazione , ma anche di non sprecare quelle risorse intellettuali che producendo  cultura e formazione costituiscono l’energia di una cultura e di una nazione.

[“Apulia”, n. 3, settembre 2011]

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Guai a tradire giovani e Sud

Vengono tempi in cui le riflessioni sui temi e i problemi che assumono un’importanza essenziale per il presente e il futuro dell’esistenza di tutti e di ciascuno, s’impongono in maniera più urgente e a volte anche drammatica. Forse in  questo tempo che mostra  minaccioso gli spettri di una crisi economica globale che potrebbe anche determinare un nuovo e, per  molti aspetti, sconosciuto modo di pensare i destini, uno dei nodi che sarebbe indispensabile stringere più forte o addirittura, in certi casi, cominciare ad avvolgere, è probabilmente quello che tiene insieme lo sviluppo economico, la formazione, il Sud.

Molte rilevazioni dicono che  oltre il 30% dei laureati sotto i 34 anni non lavora e non studia. Il tasso di disoccupazione nel Sud è almeno il doppio di quello del Centro-Nord. A questi dati si devono aggiungere quelli del vecchio e nuovo precariato, della sottoccupazione intellettuale, della saltuarietà che sfibra le energie.

Sono vite che si stanno perdendo, o che si sono già perdute. Sono saperi che si stanno inaridendo o si sono inariditi per inattività. Sono peccati che una società commette verso se stessa e che un giorno o l’altro si  ritroverà a dover scontare. E’ una legge della natura contro la quale nessuno può far  nulla.

Indubbiamente non esiste ingenuità che consenta di pensare alla possibilità di uno sviluppo economico e sociale di un territorio senza una concreta valorizzazione delle risorse intellettuali e professionali. Non c’è civiltà che possa crescere, non c’è mercato che possa progredire o risanarsi, non c’è possibilità di qualificazione o riqualificazione del tessuto sociale. Non c’è rilancio dell’economia, né potenziamento della competitività. Sarebbe estremamente facile da spiegare ricorrendo a una metafora contadina: è inutile tenere il lievito se non si fa il pane. Il lievito inacidisce, va a male. Chi ha fatto qualsiasi tipo di studi ha necessità di costante applicazione, di rimodulazione, di calibratura delle conoscenze, delle abilità e delle competenze acquisite per non risultare inadeguato alle richieste dei contesti lavorativi che cambiano, ai processi e alle dinamiche europee e mondiali, alle innovazioni di ogni genere e portata che si verificano con rapidità straordinaria. Ha bisogno di non farsi mandare allo sbaraglio, di non lasciarsi coinvolgere in situazioni di approssimazione, improvvisazione, provvisorietà. Ha bisogno di non farsi impastoiare da  pregiudizi, fatalismi, metodi superati.

Quello di cui ha bisogno una persona corrisponde esattamente a quello di cui ha bisogno un territorio: adeguamento ai contesti, ai processi, alle dinamiche, alle innovazioni, alle culture. Rifiuto dell’improvvisazione, della provvisorietà, dell’approssimazione.  Anzi sarebbe più esatto dire, forse, che il territorio che intende potenziare le proprie strutture e le proprie caratteristiche, deve proiettarsi in una condizione di avanzamento rispetto agli standard.

Profili antropologici e profili di professionalità vivono in una condizione di necessaria  reciprocità.

Ci si potrebbe chiedere se chi vive al Sud avverta il bisogno di quello che si è sommariamente appena detto. Se la risposta fosse affermativa, allora diventerebbe di immediata conseguenza considerare che questa terra (rispetto a territorio il termine terra riflette significati più profondi, direi anche dalle sfumature sentimentali) ha urgenza di interventi che rimuovano alcune cause e azzerino o almeno riducano alcuni effetti e , al tempo stesso, di processi che inneschino cariche di energia.

Uno degli interventi – forse il primo – dovrebbe riguardare la sutura di quella ferita che squarcia tutto il corpo del Sud e lo dissangua: l’emigrazione verso le università del Centro-Nord dei diplomati con più forti competenze. Poi: la fuga verso il Nord o all’estero dei laureati con una formazione d’eccellenza. Chi va via non ritorna. Dovremmo riuscire a prosciugare la secolare amarezza che una volta portò  Eduardo De Filippo a dire ai giovani del Sud: fuitevenne: se avete qualcosa da fare, se  avete un sogno dentro, andate via da qui.

Si deve trovare il modo non tanto per trattenere le potenzialità umane e professionali, ma per attirarle e valorizzarle, per far capire che rimanere a studiare, a lavorare, a ricercare qui, a Sud, e anche a Sud del Sud, produce  un vantaggio esistenziale, sociale, culturale.

I processi devono essere convergenti e integrati: spingiamo tutti dalla stessa parte, insomma. Dovremmo anche riuscire a restituire spessore semantico alle parole solidarietà e impegno civile, ad orientarle nella direzione del benessere delle generazioni che arrivano. Nel suo messaggio di fine anno, il Presidente Giorgio Napolitano disse che se non si offrono ai giovani  nuove possibilità di occupazione e di vita dignitosa, nuove opportunità di affermazione sociale, la partita del futuro è persa non solo per loro, ma per tutti, per l’Italia: ed è in scacco la democrazia.
A volte si ha l’impressione che si sia perso fin troppo tempo, che sia mancata la capacità di progettazione o che non si sia stati capaci di realizzare i progetti. Non possiamo correre il rischio che tra cinquant’anni qualcuno si ritrovi nelle condizioni di dover dire le stesse cose che noi diciamo adesso, ripetendo quello che altri hanno detto cinquant’anni fa, quasi fosse una condanna della storia, una maledizione dei ricorsi.

[Nuovo Quotidiano di Puglia, 8 settembre 2011]

Come raccontare l’11 settembre

L’alba del secolo ha il colore di un fumo nero, le sequenze di una scena terribile e finale, la desolazione irrimediabile delle macerie. Oscura i sogni di uomini donne vecchi bambini bianchi neri, perché i sogni non hanno  sesso, né razza, né età. Ci sono eventi della Storia che segnano un confine profondo come un abisso. Quando si concluse il Novecento, quel secolo che alcuni hanno chiamato interminabile, altri breve, si pensò che i suoi fantasmi inquieti avessero finalmente trovato riposo:quelle ombre stravolte di spavento che provenivano dai Gulag, dai Lager, da Hiroshima, Nagasaki, dalle fosse comuni dei massacri. Invece venne un giorno che  le Torri di New York si sgretolarono davanti agli occhi attoniti del mondo. Allora si capì che il Novecento non era finito. Come si racconterà, domani, alle generazioni che verranno, questo travaglio del tempo e della Storia, questa ribollenza; chi sarà che dovrà raccontare.

Certamente dovrà raccontare la scuola, che ha il compito istituzionale di raccontare e insegnare la storia. Una coscienza vigile e critica  probabilmente può formarsi soltanto nella scuola.

Il confronto con il Novecento e con i suoi riflessi che a distanza di un decennio ci giungono ancora forti, a volte accecanti,  è una condizione inevitabile nell’insegnamento di qualsiasi disciplina.

Perchè il Novecento ha cambiato – spesso radicalmente – i modi di pensare l’universo, la politica, l’economia, la geografia, la fisica, la biologia; non esiste sfera del sapere  che il Novecento non abbia sottoposto a riformulazione, quantomeno parziale.

L’insegnamento del tempo del Novecento e di quello che va oltre la sua soglia – incerta, friabile –   richiede la capacità di mettersi in relazione critica con la complessità, con una costante ridefinizione dei significati, con la perdita – o la negazione- delle certezze.

Bisognerà confrontarsi con la dimensione del dubbio, con la pratica dell’interrogazione, con una condizione di precarietà del conoscere e dell’essere. Il presente provoca uno smottamento continuo dei confini che delimitano i territori frequentati dalle discipline.

La relatività di ogni conoscenza acquisita mette in discussione e in crisi strutture teoriche consolidate, risultati che fino ad un certo punto sono stati considerati insuperabili.

Probabilmente sarà impossibile evitare il confronto con la nascita e la fine delle grandi ideologie, con i  conflitti che  bruciano ancora. Per insegnare il tempo con il quale abbiamo un rapporto di prossimità occorrerà probabilmente un metodo che riesca a comprendere ed a conciliare i molteplici punti di vista, le diverse e differenti posizioni. La metafora che si potrebbe adottare forse è quella  che Henry James elabora nella prefazione al “Ritratto di signora”.

La casa della storia come la casa della narrativa, allora.

Questa casa non ha una finestra sola ma  un numero quasi incalcolabile di finestre che danno tutte sulla scena umana, ognuna  delle quali è stata aperta o è ancora da aprire, in relazione alla necessità o alla volontà  della visione. Sono finestre o fori di un muro morto, sconnessi, collocati in alto; non sono porte coi cardini che si aprono direttamente sulla vita. Dietro ognuna di esse c’è una figura con un paio d’occhi, o almeno con un binocolo, che costituisce uno strumento unico di osservazione e che assicura a chi ne fa uso un’impressione distinta da ogni altra. Qualcuno vede di più, qualcun altro vede di meno, uno vede nero là dove un altro vede bianco, uno vede grande là dove un altro vede piccolo, uno vede rozzo là dove un altro vede delicato.

Allora quello che conta è raccontare senza pregiudizi, senza passioni che offuscano, con onestà. Con la lucida coscienza di chi sa che l’ignoranza del passato è una sentenza che condanna a riviverlo.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, 12 settembre 2011]

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Scuola inutile? No, studiare fa la differenza

In un articolo su “ Repubblica”, Ilvo Diamanti diceva ai ragazzi: non studiate.

Perché studiare non garantisce un lavoro, né un reddito, perché allunga la precarietà e la dipendenza dalla famiglia, non garantisce considerazione né prestigio sociale. Perché la scuola non ha più niente da insegnare; perché la cultura passa attraverso Internet e i nuovi media. Diceva non studiate perché per fare il precario, la velina, il tronista, non è richiesto un titolo di studio. Non studiate, non andate a scuola, diceva, perché sono anni buttati, che non serviranno a niente, nemmeno a maturare la pensione. Non studiate perché la cultura vi creerà più guai che vantaggi. Perché la cultura rende liberi, critici, consapevoli, ma questi oggi sono vizi che risultano insopportabili.  Ilvo Diamanti diceva questo senza nessuna ironia, ma con un’amarezza e uno sconforto smisurati.

C’era in queste parole tutta la malinconia di una rinuncia. C’era la sconfitta del soldato che depone le armi, consegna la bandiera che ha adorato, e si arrende ad un nemico sovrastante. Ma c’era anche la speranza che il suo messaggio rimanesse completamente inascoltato, che anzi provocasse l’effetto contrario.

Allora dobbiamo dire – vogliamo dire –  così:  studiate, ragazzi.  Studiate perché non ci sono scorciatoie, oppure le scorciatoie sono allagate di melma, e la melma vi sporca. Studiate per non dover dipendere da qualcuno che vi regala qualcosa ma  pretende la vostra servitù e quella dei vostri figli, e forse dei figli dei figli. Studiate perché comunque  essere è meglio che avere, perché se si crede in quello che si fa un modo per realizzarsi poi si trova, perché conoscere o non conoscere “ L’infinito” di Leopardi a volte fa la differenza. Non mi ridete dietro, non mi ridete in faccia: conoscere “ L’infinito” vale di più, tanto e tanto di più, del cabinato e del suv. Perché l’infinito sta dentro. Studiate anche se avrete probabilmente l’utilitaria pagata a rate, e l’ombrellone con la sdraio affittati al lido popolare, e non viaggerete per il mondo. Dove sta scritto che leggere un libro conti meno di fare un viaggio. Leggete “Le vie dei canti”  di Bruce Chatwin e arriverete fin dove chi non lo legge non potrà arrivare mai.

Studiate perché il mondo gira e poi la storia cambia, e quando il mondo gira e la storia cambia bisogna possedere gli strumenti per seguire il giro che fa mondo e per comprendere i cambiamenti della storia. Studiate perché studiando s’impara a distinguere quello che è superfluo da quello che è essenziale. Non date retta mai a chi vi dice che studiare è tempo perso, che studiare non produce.

Andate a scuola, studiate, perché la scuola e lo studio sono la forma d’investimento individuale e collettivo che garantisce il rendimento più consistente e duraturo, sono la condizione che più di ogni altra determina il progresso in ogni campo, l’argine più sicuro ad ogni crisi. Non lo dicono i maestri di scuola. Lo dicono gli economisti.

Studiate perché se l’istruzione costa molto, l’ignoranza costa molto di più. Se con l’istruzione non è facile trovare un lavoro, senza è difficile,  impossibile, forse.

Studiate perché studiare serve ad avere fiducia: nei confronti di voi stessi, nei confronti degli altri, nei confronti del futuro. Studiate perché serve ad orientarvi nel bosco quando cala il buio.

Studiate perché imparerete ad essere tolleranti, responsabili, democratici, a ribellarvi alle ingiustizie,  ad opporvi ai soprusi, ad evitare i conflitti, a sputare in faccia ai dittatori.

Imparerete anche ad amare un uomo, una donna, in modo diverso, più pieno, più vero. Addirittura questo.

Studiate perché avrete privilegi. Conoscere Dino Campana e Cesare Pavese è un privilegio. Ovidio, Catullo, Seneca, Aristotele, Sofocle, Eschilo, sono un privilegio. Dante e Coleridge e  Joyce,  Rinascimento e Illuminismo, Galilei e Kant, la geometria analitica dello spazio,  il parallelismo e la perpendicolarità, equazioni, disequazioni, Giotto e Caravaggio, sono privilegi. Alcuni tra i tanti incalcolabili privilegi che potrete avere studiando.

Studiando s’impara a non stare al cattivo gioco, a capire le trappole, a smascherare gli imbrogli, a non farsi ipnotizzare dagli omini di burro, a non lasciarsi trasportare nel paese dei balocchi.

Studiate perché è utile. Studiate perché è bello: anche se costa fatica, come qualsiasi altro mestiere: non esistono mestieri che non comportino fatica.

Studiate perché le cose cambieranno: le crisi arrivano e poi passano e il tempo che verrà avrà bisogno di intelligenze libere, di conoscenze e competenze forti, di fantasie brillanti, di sensibilità profonde, di persone e personalità capaci di confrontarsi con le condizioni della complessità.

Studiate perché dovete essere migliori di noi, fare le cose che non abbiamo fatto, fare molto meglio di come abbiamo fatto, che poi non ci vuole neanche tanto impegno.

Studiate perché dovete fare città più belle, ripulire aria, mari e fiumi dall’inquinamento, risolvere i problemi che non siamo stati e non siamo capaci di risolvere, trasformare in giardini meravigliosi i deserti che vi stiamo consegnando, innalzare opere d’arte sulle macerie. Studiate perché c’è bisogno di cambiare tante cose, e se non lo fate voi non si sa chi lo può fare.
Studiate perché avete non solo il diritto ma soprattutto il dovere di sognare.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, 15 settembre 2011]

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Sud, solo i giovani possono smentire gli scenari Svimez

Avevo scritto novanta righe a caldo dopo aver letto i dati del Rapporto Svimez. Novanta righe amare su quegli scenari di Sud desolato, abbandonato, deserto. Su quell’accartocciamento del progresso, su quella catastrofe della civiltà, sull’accanimento della Storia.

Poi ho riletto. Ho fatto scorrere l’evidenziatore sul testo. Ho cancellato. Perché così com’era non serviva: riapriva ferite, argomentava motivi,  cercare alibi. Non serviva. Perché tutto quello che si può dire sulle ferite, sugli alibi, sui motivi, noi, qui, a Sud, lo sappiamo bene.

Quello che serve al Sud, e al Sud del Sud, è una speranza nuova e un nuovo impegno.

Il Sud ha bisogno di una speranza di cambiamento, e questa speranza ha bisogno di un impegno lucido e appassionato. I giovani che vanno via, che fuggono – e hanno tutta la ragione per fuggire, Dio sa che hanno tutta la ragione per fuggire – devono farsi carico dell’impegno e della responsabilità di rimanere. Per cambiare tutto. Per azzerare e ricominciare a contare. Anche per cancellare il passato, se occorre. Anche per accusare i padri, se occorre, e condannarli o assolverli, secondo coscienza e giustizia. Devono rimanere per studiare, per fare politica, per amministrare, per governare l’economia, la sanità, per  coltivare la terra, costruire aeroporti, per insegnare, per scrivere poesie e romanzi, per fare giornali, costruire cattedrali, per fare i medici, gli ingegneri, i muratori, i calzolai, per dare a ogni cosa efficienza e qualità. Per vivere in questa terra come si vive nella propria casa, senza  permettere a nessuno di mortificarla, insozzarla, derubarla.

Allora i giovani, quelli che hanno massimo trent’anni (perché gli altri non servono più, sono viziati, sono nati e cresciuti in tempi sbagliati, hanno tare sociali di cui non potranno più liberarsi), allora i giovani che non hanno più di trent’anni, devono studiarsi questo Rapporto Svimez, punto per punto, parola per parola, non per scoraggiarsi, ma per farsi coraggio. E ricominciare.

Il Sud è abituato a ricominciare. In fondo non ha fatto altro che ricominciare. Si è sempre allenato per il secondo tempo. La storia del Sud è fatta di questo: ha pareggiato al secondo tempo e poi ha perso la partita ai rigori.

Ma i giovani che hanno fiato, che sanno giocare, ai rigori non ci devono neppure arrivare. Possono vincere la partita, a condizione che imparino a  pensare e a fare gioco di squadra. Da soli non si va da nessuna parte, e se anche si arriva in area di rigore, c’è sempre qualcuno che ti falcia le gambe. Nel gioco di squadra, da tempo,  i compagni essenziali, sono Mediterraneo e Europa.  Domani lo saranno ancora di più.

In  Tre modi di vedere il Sud,  Franco Cassano analizza alcune idee che hanno costituito e che ancora costituiscono  il fondo e lo sfondo della questione meridionale.

Il primo paradigma è quello della dipendenza o dello sfruttamento. E’ il Sud pensato e usato  sistematicamente come terra da conquistare, saccheggiare, depredare. Il Sud tenuto in condizioni di precarietà e di distanza dalle aree forti dello sviluppo, di estraneità dai circuiti dell’investimento economico, della ricerca, della sperimentazione, del dibattito, della cultura. E’ un Sud immobilizzato nello stereotipo, nell’immagine fissa, nel luogo comune dell’ ineluttabile, dell’a priori. Come diceva Vittorio Bodini, “ siamo nati dicendo a priori nel fondo/ delle case, senza neanche confessare/ la sorpresa in un pianto nuovo,/e ci è destino rimpiangere/ fin le cose che abbiamo/ qui, vicino a noi, come fossero/ miglia e miglia remote”. Il Sud è  sempre l’appendice di qualcosa, che ha giacimenti da cui, all’occorrenza, si possono ricavare risorse ed energie da esportare e da sfruttare in altre realtà territoriali e in differenti connotazioni  sociali.

L’altro paradigma, secondo Cassano, è quello della modernizzazione o del ritardo. Qui, a Sud, si arriva  ad un punto dopo che ci sono arrivati il  Nord e il Centro. Probabilmente si comprendono i fenomeni in anticipo, si intuiscono, si percepiscono con una sorta di veggenza intellettuale, ma poi, nei processi di progettazione e di realizzazione, i meccanismi si inceppano, i tempi si dilatano, le forze si disperdono. Se l’evoluzione sociale è determinata in modo prevalente dal passaggio dalla tradizione alla modernità, “ il Sud coincide con quell’area territoriale in cui permangono in modo rilevante i tratti sociali, economici e culturali che frenano questa transizione e ritardano il progresso”.

E’ questo il Sud che si ripiega su se stesso, che non vuole – o non riesce – a svincolarsi dall’immaginario cristallizzato e falso elaborato da una cultura di epigoni, da forme di  espressione che si protraggono fino ad esasperarsi, che si riducono a topos, imitazione sterile, copia deformata.

E’ il Sud della nostalgia, che propone e propaga figurazioni di sé autoreferenziali e autocelebrative, che rifiuta il confronto e si rinchiude in una solitudine, in un  isolamento, un’autoesclusione che lo condannano all’arretratezza e al ritardo; è il Sud che innalza altari al proprio passato,  che si aggira tra le macerie quasi compiacendosi della decadenza, che orienta il proprio pensiero e la propria azione esclusivamente verso la conservazione delle cose  come sono. Per questo Sud, qualsiasi elemento nuovo è un’invadenza, un’intrusione, un assalto al castello della propria identità che si deve necessariamente respingere attraverso l’opposizione o l’indifferenza.

Ecco, allora, quale dev’essere l’impegno dei giovani: cambiare tutto questo. Subito. Di loro ci fidiamo. A loro ci affidiamo, perché siamo sicuri che ce la faranno a smentire le funeste profezie del rapporto Svimez.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, 30 settembre 2011]

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I giovani lasciati nel limbo della precarietà

Non è la prima volta e non sarà nemmeno l’ultima, purtroppo, che Mario Draghi rileva, argomenta e ribadisce, l’interdipendenza strutturale,  il nodo sostanziale che stringe la crescita del Paese con le opportunità offerte alle nuove generazioni. Al seminario dell’Intergruppo parlamentare per la sussidiarietà ha detto che “la crescita economica non può fare a meno dei giovani, né i giovani della crescita. Le difficoltà da loro incontrate devono preoccuparci non solo per equità, ma per un problema di utilizzo del loro patrimonio di conoscenza e capacità di innovazione”. Invece i giovani vivono in un purgatorio esistenziale e sociale.  Passano i vent’anni, i trenta, arrivano ai quaranta, ma restano in casa. Comodamente, dice qualcuno. Per pigrizia. Per non assumersi responsabilità. Perché crescono in ritardo. Perché sono viziati. Gli si rinfaccia finanche il cornetto e il cappuccino (amaro). Le accuse che si rivolgono ai giovani sono una vecchia storia, con alcune varianti  che non cambiano il concetto né il significato. Una storia che si ripete dal tempo di Qhoelèt, probabilmente: una generazione va e l’altra viene, ma le cose sono sempre quelle, sotto il sole.

Forse la verità – almeno una delle possibili verità – si potrebbe sintetizzare in questo modo: essere giovani non è stato mai facile, per nessuno, e in nessun tempo, e in nessun luogo.

Forse la post modernità ha accentuato questa difficoltà attraverso i meccanismi perversi di un consumismo al quale non è permesso di sottrarsi se non a prezzo della marginalità o dell’emarginazione.

Forse la condizione di precarietà che mortifica le persone fino ai trentacinque anni, e a volte anche oltre, non consente la ricerca dell’autonomia oppure, addirittura, non ne muove il desiderio. Perché quel desiderio di autonomia, di indipendenza, di esperienza di crescita e di viaggio verso una diversa configurazione della propria identità, viene strozzato dalla drammatica banalità della contingenza. Vale a dire, banalmente, che quello che si guadagna – quando si guadagna – non basta nemmeno per  pagare le bollette della luce, del gas, del telefono, l’affitto (o il mutuo), l’assicurazione e il bollo della macchina. Salvo imprevisti, naturalmente.

Diciamo che i giovani sono irresponsabili, che sono indifferenti. Soltanto perché non ne conosciamo o abbiamo dimenticato l’ansia, la depressione, la frustrazione provocate dalle difficoltà  che si incontrano nei processi e nei percorsi di realizzazione personale e professionale.

Diciamo che non sono capaci di progettare e di costruirsi il futuro ma non abbiamo l’onestà di pensare o di dichiarare il nostro fallimento nella predisposizione delle condizioni per la progettazione e la realizzazione di quel futuro.

Proviamo a ragionare.

Abbiamo creato un sistema di obbligo scolastico e formativo che giustamente (scritto in stampatello maiuscolo e sottolineato) garantisce la frequenza di una scuola fino a diciotto anni, di fatto fino a diciannove.

Però poi abbiamo precisato che con un titolo di studio di scuola superiore lavoro non se ne trova.

Però -ancora- a diciannove anni un giovane a bottega non ci può andare. A quell’età non s’impara più a fare il barbiere, il meccanico, il falegname, l’elettricista, l’idraulico.

Quindi, per amore o per forza, s’intraprendono gli studi universitari, che durano almeno cinque anni, se si vuole proprio comprimere all’essenziale.

Anche in questo caso, comunque, abbiamo specificato che la laurea non costituisce affatto un lasciapassare valido alle frontiere del mondo del lavoro. No. Bisogna fare master, stage, specializzazioni varie. Solo dopo tutto questo si può – finalmente – mettersi in fila, e aspettare. Mandare il curriculum vitae formato europeo in giro, e aspettare risposte che non arrivano. Fare i concorsi e aspettare che si svolgano. Vincere i concorsi e aspettare che ti chiamino. Nel frattempo, i più fortunati fanno lavori part- time, a progetto, co.co.co.; oggi qui, domani, là, oggi sì, domani no.

A questo punto si può fare il conto dell’età cui sono arrivati.

Il conto se lo fanno tutti: i diretti interessati e le loro famiglie, innanzitutto, e poi i Soloni di turno che cominciano a denigrare. Senza comprendere, senza considerare i motivi e i contesti. Intanto mentre i saggi anziani del villaggio piccolo o globale inveiscono senza nemmeno tentare di formulare un’ipotesi di soluzione, padri e madri e nonni  continuano a sacrificarsi per non far mancare l’indispensabile a quel figlio che hanno fatto comunque studiare pur  nella consapevolezza dell’esiguità delle speranze.

Ma anche in questo caso la giustificazione è inoppugnabile: c’è la crisi economica mondiale.

Appunto mondiale. Per cui diventano di difficile comprensione quei numeri che dicono  che in Italia il tasso di occupazione dei giovani fra i 15 e i 29 anni è del 34,5% , in Germania del 56,8%, in Francia del 46,6%. Il tasso di disoccupazione nella stessa fascia di età è del 20,2% in Italia, del 9,2% in Germania, del 17% in Francia. In Italia la quota di giovani della stessa età che non studiano e non lavorano raggiunge il 22% della popolazione: la quota più alta in Europa, che ha una media del 14,7%.

Per cui  a proposito di crisi economica mondiale viene spontaneo chiedersi se sia l’Europa a non far parte del mondo oppure se il mondo non comprenda l’Italia.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, 11 ottobre 2011]

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I voti alti nelle scuole del Sud

E’ un fenomeno del tutto  singolare, per non dire assolutamente incomprensibile, che suscita lo stesso stupore primordiale dell’uomo davanti al fulmine ed al tuono, la contrarietà che prova qualcuno per la diminuzione del numero dei bocciati nella scuola superiore e di quello dei non ammessi  agli esami di Stato. Oltremodo imperscrutabile, il fenomeno, se si tiene conto che sono passati più di quarant’anni dalla Lettera a una professoressa di Lorenzo Milani.

Il principio e il fine della scuola è quello di promuovere, nel senso etimologico (la formazione della personalità, l’apprendimento,  il successo formativo) non quello di bocciare. Se poi si boccia è soltanto per il fatto che si ritiene e si pondera che quella soluzione sia la più opportuna proprio per la promozione delle condizioni che si è detto prima tra parentesi. Se dai dati forniti dal Miur, nel 2011 risulta una diminuzione del numero dei bocciati nella secondaria superiore rispetto ai quattro anni precedenti, mi domando per quale recondito motivo non bisogna essere contenti.

Ma i paladini del rigore possono consolarsi alla notizia che sono diminuiti gli studenti con cento e lode:   nel 2010 erano 4.396, nel 2011 sono stati 3.914. Il dato è dovuto, peraltro, ad alcune condizioni dell’ordinanza sugli esami di Stato. Va bene.

Ma forse il problema non è questo. Forse il nodo che non si scioglie è che il voto massimo si concentra nelle seguenti regioni: Puglia (661 lodi), Campania ( 509), Sicilia ( 442).

Eccolo il problema, dunque: per una volta – una – il Sud precede il Nord.

Così ci tocca difenderci. Allora, non si può dire che sia colpa nostra se un tempo – anche se lontano, è vero lontano –  noi siamo stati Magna Grecia. Nessuno se ne deve dispiacere se noi siamo stati Magna Grecia, quando altri balbettavano. Nessuno se ne deve dispiacere se noi qui avevamo “ accademie di monaci sapientissimi “ sia pure con città di sporcizia e di abbandono.

Davvero non è colpa nostra se  Giuseppe Desa, il frate asino, il Santo dei voli, protettore degli studenti, era uno di queste parti. Se di tanto in tanto ha un occhio di riguardo bisogna anche  capire che il paesano sempre paesano resta. Nel bene e nel male.

Ma in linea di principio e generale, non si comprende -perché non si può comprendere – il motivo per il quale ci si debba meravigliare se qualcosa al Sud va un po’ meglio che in altre parti d’Italia. Perché non si debba considerare che magari uno studente del Sud attribuisca allo studio un significato e un’importanza maggiore e ulteriore in quanto sa perfettamente che è quella l’unica  possibilità che ha per superare gli ostacoli. Perché non si debba considerare che la famiglie possano investire di più nello studio dei figli, per il fatto che non hanno molte altre alternative da proporre o da offrire.

Per cui a questo punto diventa legittimo sospettare che si tratti di un pregiudizio che non si riesce a scardinare.

Però, se alcune regioni del Sud registrano i risultati migliori alla maturità, la diminuzione dei bocciati interessa tutto il territorio nazionale. Potrebbe essere un’occasione per una riflessione su una diversa e più efficace modalità di valutazione orientata e focalizzata sulla certificazione delle competenze. Che non sarebbe neppure un discorso nuovo. Già il d.p.r. 275/99( il Regolamento dell’autonomia) faceva riferimento a modelli di certificazione di conoscenze, competenze, capacità acquisite e crediti formativi riconoscibili. Oltretutto, che la certificazione delle competenze rappresenti una sorta di sviluppo naturale,viene dimostrato dal fatto che per la scuola primaria e secondaria di primo grado  essa sia prevista tanto dalla legge 169/2008 quanto dal d. p. r. 122/2009 ( il regolamento sulla valutazione).

In particolare per la scuola superiore, il decreto ministeriale  n. 9 del 27 gennaio 2010 introduce l’obbligo di certificazione delle competenze al termine della seconda classe, cioè dell’obbligo d’istruzione.

Probabilmente si tratterebbe soltanto di potenziare il sistema calibrandolo all’ultima classe, senza nemmeno escludere l’ipotesi di affidare la certificazione ad una agenzia esterna. In questo caso, però, si dovrebbe trovare una maniera per contemperare il valore reale del titolo di studio con il suo valore legale, per mantenere comunque, e potenziare, la funzione istituzionale e giuridica della scuola.

Non so se potrebbe essere un modo per smorzare le polemiche che si accendono ogni volta che vengono fuori i risultati ( Ocse-Pisa, Invalsi, esami) che danno un po’ di respiro a  questo Sud.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, 14 ottobre 2011]

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L’urgenza di ritrovare l’altro: per Raffaele De Giorgi

Non è orizzontale lo sguardo di Raffaele De Giorgi. E’ obliquo, trasversale, attratto dal richiamo dell’analogia; poi è uno sguardo che si muove nei territori culturali in verticale: discende, scava, sprofonda, fino a raggiungere il punto in cui ha origine il fenomeno, dove matura una condizione dell’essere e dell’esistere, prende forma l’idea del tempo e delle cose, la concezione del limite e dell’illimitato, del finito e dell’infinito, del possibile e dell’impossibile, del vero e del falso, della verità e della menzogna, della realtà e della finzione. E’ uno sguardo che indaga gli eventi e gli elementi del sociale, i motivi e i moventi dei fatti, le cause e gli effetti, che scandaglia i fondali della conoscenza, che perfora la superficie dell’apparenza per rivelare quello che è in relazione a quello che sembra, che stringe i piani del significante e del significato, della forma che si separa dalla sostanza e della forma che corrisponde alla sostanza.

De Giorgi penetra nelle parole per rintracciarne il senso, i sensi essenziali, radicali: quelli che costituiscono l’autenticità, la differenza. Quelli che strappano le maschere. Quelli che rivelano i trucchi, gli imbrogli, i colpevoli artifici. Parole come identità, memoria, Sud, spalancano voragini semantiche nelle quali il suo sguardo si inabissa.

Ricordavo di aver letto una scrittura di Raffaele De Giorgi che diceva di Lecce. Mi erano rimaste certe atmosfere, certe immagini. Ma per quello che dovevo fare mi servivano le parole: quelle parole precise. Ho cercato tra gli articoli di giornale che ritaglio e conservo, e non c’era. Poi ho cominciato, per intuizione, a rileggere uno dei suoi libri, Futuri passati, edito da Pensa. Una scrittura secca. Idee taglienti. Un’argomentazione da accerchiamento. Nuclei concettuali che si espandono, si diramano, coinvolgono altri nuclei. Frammenti che si ricompongono in una struttura coerente, coesa, perché appartenenti ad un progetto unitario, ad una visione complessiva, ad un pensiero organico, rigoroso. Uno stile che sintetizza tutte le categorie di cui parla Italo Calvino nelle Lezioni americane: leggero, rapido, esatto, visibile, molteplice. Un linguaggio che non si concede mai una morbidezza, sempre teso all’essenziale, al confronto senza mediazioni. Nitido. Implacabile. A pag. 58 trovo quello che cercavo su Lecce, ma non mi soffermo; ormai sono nel flusso, attraverso il passo, vado oltre. Perché quello che cercavo diventa meno importante di quello che non cercavo e che riscopro.

Di tanto in tanto, nel corso della lettura,  si presenta – indiscreta, inopportuna – la domanda su quale sia il genere di questo libro. Banale domanda, perché ignora la circostanza che il genere rappresenta la convenzione di un’accademia che non ha passione. Mentre questo è un libro  tramato di passione, di un lucido ed inquieto sentimento degli esseri e delle cose. Contempera l’analisi del filosofo con l’andamento del narratore.  Le parti che compongono questo libro sono le riflessioni di uno studioso proposte con le forme del narratore, probabilmente perché pensate, elaborate, con il metodo  scientifico del ricercatore e con lo scarto dalla comune grammatica della visione che caratterizza il processo di pensiero dell’ inventore di mondi.

Allora viene in mente, inaspettata eppure inevitabile, quella figura del narratore come persona di consiglio di cui parla Walter Benjamin nel saggio sull’opera di Nicola Leskov contenuto in Angelus Novus; e nonostante questa parola, oggi, possa sembrare inadeguata ai tempi e incoerente con i comportamenti individuali e collettivi, con l’edonismo a prezzi stracciati, con la superficialità allarmante, con l’indifferenza insolente, vorrei azzardarne l’uso ed affermare che le riflessioni, le argomentazioni, le esemplificazioni di Raffaele De Giorgi si caricano del senso di un consiglio che coinvolge le sfere dell’essere con gli altri, tra gli altri, possibilmente per gli altri. L’altro è un vecchio con le mani bruciate dal freddo che dice “ per me è sempre Natale quando ti vedo”. L’altro è un bambino che dorme e “forse sogna parabole, forse esempi, forse racconti che dirà a quell’umanità che gli sta davanti , perché spezzi le catene che le bloccano  la parola”.  L’altro è un ragazzo solo “schiacciato dal mondo. Soffocato dal mondo, dagli altri, dagli adulti”. L’altro è ogni creatura alla quale non vogliamo rassomigliare, che non sappiamo ascoltare, a cui non riusciamo a parlare. E’ la nostra coscienza che abbiamo voluto ammutolire. Così il consiglio più profondo di Raffaele De Giorgi dice che è urgente ritrovare quella parte di noi che vive segretamente con il cuore dell’altro.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 14 novembre 2011]

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Più opportunità ai giovani che studiano

Li hanno chiamati fannulloni. Irresponsabili. Immaturi. Incoscienti. Sconsiderati. Hanno detto che non hanno visione di futuro, passione di futuro. Hanno detto che non leggono, che non studiano. Ma di tanto in tanto arrivano notizie circostanziate, dati che smentiscono, dimostrano il contrario, smantellano quei luoghi comuni triti e banali con cui si offendono i giovani. Come la sesta indagine condotta da Eurostudent, che dice di universitari che studiano e lavorano, anche se in maniera saltuaria, occasionale. Gli studenti lavoratori sono soprattutto quelli che provengono da una origine sociale non privilegiata, perché, insomma, la storia ha le sue costanti che è un po’ difficile riuscire a sradicare. Ma sia ringraziato per sempre chi ha scritto le straordinarie parole  dell’art. 34 della Costituzione; quelle  che dicono: “ i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i più alti gradi degli studi”. Probabilmente la prima delle giustizie sociali. Probabilmente le altre sono una conseguenza. Poi talvolta accade che la realizzazione del diritto richieda un impegno. E’ giusto anche questo. Allora l’indagine riferisce che almeno un giovane su cinque ha svolto un lavoro prima d’intraprendere gli studi universitari.

Fanno i lavori che possono, per pagarsi i libri, l’alloggio, le tasse. Nei pub, nei villaggi turistici. A volte danno ripetizioni private. Hanno un senso della realtà e una consapevolezza della precarietà che gli studenti di trent’anni fa non avevano. Sanno che la strada da fare dopo la laurea sarà lunga e sarà in salita.

Così, quelli che hanno chiamato fannulloni,  si collocano all’incrocio delle attività di studio e  di lavoro. Oltre il sessantacinque per cento degli studenti italiani che lavorano non frequenta le lezioni ma si confronta con i libri più di trenta ore la settimana, quindi in media cinque ore al giorno, a volte inclusa e in altre esclusa la domenica. Invece quelli che studiano e non lavorano stanno sui libri poco più di quaranta ore. La differenza, dunque, non risulta particolarmente rilevante e significativa. Secondo i dati forniti dall’indagine, il numero di  ore settimanali che gli universitari italiani dedicano allo studio supera quello di molti altri Paesi europei. Trentotto ore, contro le trentuno dei francesi, le trentasette dei tedeschi, le trentasei degli spagnoli. Allora viene da pensare che le difficoltà che poi incontrano nei processi di inserimento nel mondo del lavoro, hanno una causa che non riguarda le loro competenze ma il sistema di programmazione del fabbisogno,  di orientamento, di reclutamento, di assunzione, di accesso alle professioni. Viene da pensare che fino a questo momento non si è saputo programmare e realizzare un ponte tra la formazione e il lavoro; non si è saputo attribuire un valore reale al titolo di studio, né strutturare modalità efficaci di certificazione delle competenze, né intrecciare una relazione funzionale tra la domanda e l’offerta. Forse non si è saputo nemmeno fornire un’adeguata informazione sulle trasformazioni che hanno interessato e interessano il mondo del lavoro.  Viene da sperare che si possa fare meglio in futuro: nel prossimo futuro. Perché si può anche essere ignoranti delle alchimie dell’economia ma non tanto sprovveduti da pensare che si possa uscire dalle crisi attraverso i funambolismi della borsa. Si esce creando occupazione, quindi produzione, quindi reddito, opportunità di crescita e sviluppo. Soltanto con questo. Perché soltanto questo ha concretezza ed ha durata. Il resto consiste spesso in  pezze che s’attaccano ad una camera d’aria infracidita.

Molti s’ingegnano per trovare un lavoro appena giunti alla laurea triennale, che se per alcun corsi di studio rappresenta un’invenzione di perfetta inutilità, per altri si propone come una possibilità di aprirsi un varco nei settori produttivi. Perché le crisi, la disoccupazione o l’instabilità dell’occupazione, oltre alla paura del futuro, hanno anche ridotto la capacità delle famiglie di sostenere i figli negli studi. Non è un caso – non può essere un caso – che dal 2003 al 2009 la percentuale di coloro che continuano a studiare dopo la triennale sia passata dal sessantatrè al cinquantaquattro per cento. Chiedo scusa se mi permetto di dire che questa condizione rappresenta una delle ferite più profonde provocate dalla crisi. Perché pregiudica i destini di coloro ai quali i destini di questa Italia dovranno essere affidati. Perché rappresenta un’umiliazione delle esistenze e delle intelligenze. Non è affatto difficile immaginare la devastazione sociale che si verificherebbe nel caso in cui questo effetto si espandesse al compimento dell’obbligo d’istruzione, con la conseguenza dell’ uscita a sedici anni dal sistema dell’istruzione e della formazione.

Probabilmente il modo migliore per uscire dalla crisi consiste nel creare le condizioni per non ricadere nella sua botola a distanza di qualche anno o qualche mese. Gli economisti dicono che sia indispensabile creare e sviluppare opportunità di crescita. Ancora gli economisti dicono che non ci può essere nessuna crescita  senza una formazione adeguata alla società della conoscenza, nella quale la differenza non è data dall’avere o non avere ma dal sapere o non sapere. Gli economisti pensano che  la politica  dovrebbe prestare alla formazione un’attenzione costante, che alla formazione dovrebbe essere indirizzata un’azione di potenziamento progressivo, di rinnovamento sapiente. Gli economisti pensano esattamente quello che pensano le altre persone che economisti non sono ma hanno buon senso e interesse verso il futuro del Paese.

Allora la prima cosa da fare – la più urgente – è quella di continuare ad assicurare ai capace e ai meritevoli quello che dice la Costituzione. Basta solo quello, in fondo.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 21 novembre 2011]

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Con la crisi la felicità cambia pelle

Gli italiani vogliono essere felici. Al tempo della crisi più che in ogni altro tempo. Oggi più di trenta, venti, dieci anni fa. In quelle stagioni di carriera, rampantismo, idolatria del vitello del denaro e dell’ostentazione.

Gli italiani pensano che stare bene con se stessi conti più dei depositi bancari, che uno stile di vita culturalmente soddisfacente abbia più significato di uno status privilegiato, che la famiglia venga prima del lavoro, che  la vita privata renda molto di più delle azioni, che l’affetto valga più del profitto. Forse le trasformazioni determinate dalla crisi, dall’instabilità sociale, dalla precarietà dell’occupazione, hanno provocato una rimodulazione della gerarchia dei valori, una riflessione profonda sulle priorità, un ripensamento del significato che si attribuisce all’essere e all’avere. E’ questa, in una sintesi stringata, l’idea che si ricava da un sondaggio condotto da Future Pool, di cui si è avuta notizia dai giornali.

Gli italiani provano ammirazione per chi riesce a realizzare i sogni, per quelli che sanno vivere con quello che hanno e non per chi conquista una posizione passando tutta l’esistenza a scalare.

Gli italiani, in qualche caso forse senza neanche saperlo, hanno imparato o riscoperto quello che diceva Epicuro nella “Lettera a Meneceo”. Diceva il filosofo ateniese che non si è mai troppo giovani né mai troppo vecchi per la conoscenza della felicità. Diceva che non è mai troppo presto né mai troppo tardi per imparare a vivere di poco giacché questo non solo porta salute e ci fa privi d’apprensione verso i bisogni della vita ma ci insegna a non farci sopraffare dai capricci della fortuna. Diceva che non sono le feste, i banchetti, le cose che si posseggono, a fare una vita felice, ma il lucido esame delle cause di ogni scelta o rifiuto, il non assoggettarsi ai condizionamenti.

Principi antichi, si penserà, considerazioni inattuali, che non possono trovare riscontro nella condizione della post modernità, nell’abitudine al consumo, nella velocità (o la frenesia),  nei desideri o le necessità che crescono a dismisura, nel progresso, il rinnovamento continuo, lo sviluppo.

E’ vero, per fortuna, a condizione che non si confonda il progresso con l’eccesso, con la superfluità. Alcuni di quelli che hanno competenza nelle cose di economia, dicono che la condizione in cui ci si trova, la buca in cui si è caduti, è dovuta anche al fatto che per molto tempo – più o meno dagli anni Ottanta in poi – noi si sia vissuti al di sopra delle nostre possibilità. In parole povere: abbiamo fatto gli spacconi, gli spaccamilioni, abbiamo speso più del guadagnato, non abbiamo avuto temperanza (o ne abbiamo avuta scarsa), siamo stati improvvidi,  non abbiamo saputo fare i conti, ci è mancato il senso del buon padre di famiglia. Quando manca questo senso, la famiglia va a catafascio, si sa.

Ma gli italiani vogliono essere felici. E’ sarà questo desiderio a salvarci ancora. Sarà una ritrovata posizione di equilibrio, il recupero dei significati essenziali. Sarà la consapevolezza che niente potrà più essere nel modo in cui è stato negli ultimi decenni. Si spera, ovviamente, che possa essere anche meglio, ma certo non sarà più com’è stato e com’è ora. Sarà diversa la politica, l’economia, la vita di ogni giorno. Sarà diverso il rapporto con gli altri, l’impegno, il principio morale. Sarà diverso il concetto della spesa e del risparmio, quello della sostanza e dell’apparenza. Sarà diverso il valore che attribuiremo alle cose, al senso del presente e del futuro, sarà diversa forse anche la considerazione che avremo dell’esperienza.

Gli italiani vogliono essere felici perché, come qualsiasi altro essere vivente del pianeta, avvertono un istinto di sopravvivenza.

Così adesso pensano che le crisi arrivano e passano, in quanto appartengono al tempo, che arriva e passa. Ma dalle crisi di questi anni, probabilmente qualcosa imparerà. Per esempio imparerà a spegnere le luci di una stanza quando non c’è bisogno di tenerle accese, a non lasciare aperto il rubinetto quando non ha necessità dell’acqua, a non telefonare per ogni sciocchezza, a non caricarsi di quello che non serve, a non buttare via il cappotto dopo un solo inverno.

Probabilmente imparerà la teoria economica del più grande economista che io abbia mai conosciuto, che era mia nonna, la quale diceva che per mettere da parte quattro soldi ci vuole una vita, e per bruciarne otto meno di un minuto.

Probabilmente imparerà a leggere o rileggere Epicuro, a considerare che la felicità può derivare soltanto da quello che si è.

Ma soprattutto imparerà a insegnare quello che ha imparato, per cui gli italiani di domani saranno più felici di quelli di oggi. Almeno speriamo. Forse il progresso è questo: una felicità sociale. Che sarà pure un’utopia, ma senza un’utopia rimane la mediocrità dell’egoismo.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, 13 dicembre 2011]

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 Brindiamo con la saggezza

Quando un anno finisce e un altro comincia, in quel passaggio dolceamaro di stagione, nel tempo che impasta la Storia e l’emozione, gli accadimenti esterni con le passioni interiori, lungo quel breve ponte di presente che unisce le due sponde del passato e del futuro, si ripresenta – nitida e grandiosa- quella figura di Paul Klee che Walter Benjamin interpreta magistralmente in un frammento di  Angelus Novus.

E’ una metafora assoluta di questo tempo, di questi anni di profonde crisi, di confini incerti, labili, imprecisi, di mutazioni vorticose, di alfabeti nuovi, di codici complessi.

E’ l’angelo della storia. Con gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. Ha il viso rivolto al passato. Un cumulo immenso di rovine è rovesciato ai suoi piedi. Tra queste rovine egli vorrebbe intrattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto, dice Benjamin.  Ma una tempesta che spira dal paradiso si è impigliata nelle sue ali. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro. “Ciò che chiamiamo il progresso è questa tempesta”. Con questa tempesta si è ritrovato a fare, inevitabilmente, i conti ogni tempo; con le contraddizioni, le deformazioni, le deviazioni della storia; con l’esplicito e con l’implicito, con l’affiorante e con il sommerso, con il compreso e con l’incompreso, con gli eventi che accadono e si sviluppano in modo lineare, quasi chiaro, decodificabile, e con i macigni che improvvisamente irrompono nei giorni, e li travolgono, in modo misterioso, o comunque aggrovigliato.

In fondo la Storia è stata sempre questa tensione tra il passato e il futuro, che si è realizzata attraverso il presente a volte in modo flessuoso, a volte lacerante. Però forse mai senza perdite, senza dolori.

L’anno che sta per finire è stato profondo. La profondità è il contrario della superficialità, dell’approssimazione. Perché abbiamo avuto anni superficiali, poveri di riflessione, ai quali non abbiamo attribuito una concretezza di senso. Li abbiamo attraversati distrattamente, senza guardare dentro i fatti che accadevano, senza guardarci intorno. Sono stati anni che a volte sembravano una eterna festa consumata nella grande piazza di un paese dei balocchi. Avevamo l’impressione di passeggiare sotto gli archi di una immensa luminaria. Siamo stati abbagliati dalle luci; siamo stati sedotti dal richiamo delle giostre, da una musica e da un frastuono che provenivano da ogni parte, dalle danze di baccanti. Mentre intorno crescevano le macerie che Klee ha rappresentato e che Benjamin ha chiosato. Dovevamo saperlo che gli artisti e i filosofi vedono oltre, sanno far riverberare i segni, li proiettano nel futuro. Dovevamo saperlo che sono veggenti.

Nell’anno che in questi giorni declina abbiamo aperto gli occhi e ci siamo accorti che qualche lampada della sontuosa luminaria si era fulminata e le altre  erano diventate più fioche; che le monete per fare i gettoni alle giostre erano finite; ci è ritornato alla mente che la storia del paese dei balocchi non ha un bel finale; che la musica ci stava stordendo e stavamo ballando sui carboni ardenti. Abbiamo avvertito come un senso di disorientamento, un capogiro; molti comportamenti che sembravano consueti hanno cominciato a mostrare i caratteri della straordinarietà.

L’anno che sta per finire ci ha restituito una coscienza di noi che avevamo smarrito o che avevamo intenzionalmente imbottito di sonnifero.

Abbiamo forse riconquistato il senso della realtà e della misura. Stiamo cominciando a maturare la consapevolezza che bisogna fare resoconti onesti e programmi concretamente realizzabili. Che non possiamo più millantare. Qualsiasi tempo che comincia deve inevitabilmente finire e quello della vacanza è finito. Dispiace a tutti, si sa, quando la vacanza finisce. Si ha la sensazione che duri sempre poco, che il ritorno alle misere faccende di ogni giorno sia l’espressione di un’ingiustizia sociale e divina.

Ma così è, che si voglia o no. In quest’anno la nostra visione delle cose si è fatta più chiara, perché abbiamo strappato i veli che le coprivano o aperto botole che le celavano. Certo, il sospetto che non fosse proprio oro tutto quello che luccicava ce l’avevamo già da un po’ di tempo. Poi, quando abbiamo sentito dietro la nuca la scoppola  della crisi economica, a quel punto ci siamo resi conto che il luccichio era causato da cocci di bottiglia e da patacche.

Ora, però,  non basta aver ripreso coscienza. L’anno che viene ci deve portare saggezza: a tutti ed a ciascuno: una saggezza di popolo e di cittadini.

Ma se è davvero difficile dire che cosa sia la saggezza per una persona, diventa impossibile trovare per essa una definizione da riferire ad un popolo, a meno che non si faccia coincidere la persona e il popolo. Vale a dire: io e gli altri abbiamo gli stessi interessi e di conseguenza gli stessi diritti e gli stessi doveri. Se dovessimo accettare di seguire questo processo semantico, allora si potrebbero individuare alcune parole che hanno una qualche relazione con la saggezza. Per esempio: correttezza, prudenza, equilibrio, giustizia, uguaglianza, onestà. Poi: l’individuazione di condizioni che si costituiscono come bene comune e l’impegno per la realizzazione di quelle condizioni. Non c’è dubbio che tutto questo e molto altro  comporti sacrificio. Forse la strada da fare è una mulattiera a strapiombo sul vuoto. Ma  non ci sono scorciatoie. Bisogna percorrere quella ed arrivare in cima.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, 31 dicembre 2011]

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