di Antonio Errico
E’ cambiato il rapporto con il futuro
I primi dieci anni di questo secolo sono passati, e ce ne siamo accorti a malapena. E’ stato un tempo incerto, di sbandamenti, a volte, di confine, di scelte coraggiose e di rinunce. E’ stato un tempo con un volto di saggezza e un altro che è sembrato spesso di delirio, di ribollenza sociale e di ristagno spirituale, più un tempo della tecnologia che della scienza, di poche nuove idee e molti ripensamenti. Sarà perché è un tempo figlio di un ancora giovane Novecento, quel secolo che ha gettato fondamenta e piantato pilastri dappertutto, imponendoci per ogni cosa di fare i conti e i confronti con quello che nel suo durare è stato costruito o che è accaduto: società, politica, economia, benessere, sviluppo, sistemi formativi, organizzazione del lavoro, la nascita e la morte delle grandi ideologie, conflitti, povertà, morale, legge. Non c’è niente, forse, di quello che ora abbiamo o che abbiamo perduto, che pensiamo o non pensiamo più, che abbiamo amato, odiato, e smesso di amare o di odiare, che non appartenga al Novecento, o che non abbia trovato in esso il lievito, che in esso non affondi la radice. Tutta la bellezza e la bruttezza disegnata sui nostri volti, che scorre o che si è raggrumata nei nostri cuori, diffusa nei paesaggi che guardiamo, tutta la bellezza e la bruttezza vengono da lì.
In fondo la Storia è un solo nodo che si stringe sempre più forte.
Così viene da chiedersi che cosa ci lasciano questi dieci anni di secolo andati via. Che cosa lasciano a tutti, perché a ciascuno lasciano quello che solo ciascuno sa: le passioni cominciate e finite, gli amori e i disamori, i sogni, le speranze, le malinconie, i treni presi e quelli persi.
A tutti lasciano una sensazione di incertezza, di spaesamento, uno sbalordimento, un’impressione di indeterminato e di incompiuto, la paura delle crisi – al plurale – che coinvolge ogni sfera dell’esistere individuale e sociale. Perché non c’è solo una crisi economica. Si tratta piuttosto di una condizione strutturale che provoca un’esperienza psicologica di precarietà e di inadeguatezza; ci sono condizioni di turbolenza e di collisione che suscitano inquietudine, un continuo smottamento degli argini su cui ci muoviamo che ci disorienta.