La leggenda, riferita da Giuseppe Pompili, un viaggiatore contemporaneo che recentemente ha percorso questa regione dell’Asia chiusa tra tre giganti (India, Cina e Pakistan), ci racconta forse non solo un mito delle origini, ma anche un preciso sentimento degli attuali abitanti del Kashmir, di poter vivere in pace sulla terra che li ha visti nascere. Una terra da cui, come si sa, si controlla l’accesso alle catene indiane del Karakorum e dell’Himalaya e che, dunque, ha una grande importanza strategica. Per questo motivo da almeno un sessantennio questa terra è martoriata da continue guerre, che le innumerevoli risoluzioni dell’ONU non hanno mai fatto cessare; dal 1947, quando gli inglesi abbandonarono l’India, suddividendo i loro ex possedimenti in India (a maggioranza indù) e Pakistan (a maggioranza musulmana), e si venne a creare questo territorio di confine, il Kashmir appunto, in cui il novanta per cento della popolazione è di religione musulmana, che è ancora conteso da almeno tre stati: Cina, India e Pakistan.
In realtà, scrive Sergio Trippodo (Kashmir, la mina nucleare, Quaderni Speciali di “Limes” 1/2002) “viene da supporre che il vero problema geopolitico [non sia quello religioso, ma] sia un altro. Un’India pacificata e florida [cioè un’India non impegnata militarmente nel Kashmir contro il Pakistan e a nord contro la Cina] costituirebbe una potenza regionale rafforzata che non farebbe comodo a nessuno: né alle sette nazioni confinanti che temono la sua egemonia, né alla superpotenze influenti nel subcontinente indiano che privilegiano il mercato delle armi rispetto all’economia di mercato”.
Ma torniamo al reportage di Gabriele Torsello, di cui ci stiamo occupando.
Torsello è in India a ventiquattro anni, nel 1994 – vi tornerà per sette anni – e dal sud dell’India penetra nella valle del Kashmir, dopo un viaggio di cinque giorni e quattro notti su un treno affollatissimo, molto simile a quelli che si vedono nei film sull’India. Il suo obiettivo: raggiungere la città di Srinagar, cioè proprio il cuore del Kashmir. Man mano che avanza verso Srinagar, gli accade come in una fiaba, che il protagonista incontra persone che cercano di dissuaderlo dall’andare oltre, e lo mettono in guardia dall’avventurarsi in un luogo dove si uccide con la stessa facilità con cui si compiono tutte le altre operazioni della vita quotidiana. Niente da fare: Torsello ha coraggio da vendere e va oltre, giungendo fino a Srinagar, nella valle del Kashmir. Ha un lasciapassare indiano e questo costruisce un salvacondotto che lo mette al riparo dalle grinfie della onnipresente polizia indiana. Torsello, in realtà, è una presenza discreta. Non fa domande (sono gli altri che gliene fanno, incuriositi dalla sua presenza) e si limita a vedere la realtà che gli è intorno attraverso il filtro in bianco e nero della sua macchina fotografica. Egli è un Italian freelance reporter, non l’emissario di qualche grande giornale occidentale, o il giornalista vestito con una sahariana a bordo di un gigantesco SUV con tanto di antenna parabolica di qualche grande network televisivo. Torsello viaggia in treno su vagoni di seconda classe, è vestito in maniera dimessa, reca con sé solo il necessario e dispone di pochi dollari, tanto che non può permettersi di affittare una hauseboat. Egli è lì per vedere, e per farci vedere. Il risultato è qui, ora, sotto i nostri occhi.
Torsello fotografa le strade, i quartieri popolari, i mercati di Srinagar, la vita giornaliera di chi vive da sessant’anni in uno stato di guerra continua, in una terra dove non pochi gruppi armati combattono per la libertà del Kashmir, almeno questa è la motivazione ufficiale delle loro azioni. Uomini armati dappertutto, come si è detto, muri fatti di sacchi di sabbia antiproiettile, reti mimetiche che coprono bunker da cui spuntano volti di soldati con in capo l’elmetto e il fucile imbracciato, soldati che forse non sanno neppure per quale causa stanno combattendo; e poi jeep e blindati militari, posti di blocco, filo spinato, ronde di soldati per le strade della città, ecc. Questa è la cornice del quadro: al suo interno, scene di vita quotidiana: una donna che si reca al mercato, persone a lavoro nei campi o lungo il fiume che scorre placidamente come se nulla fosse, una bambina che guarda stranita l’obiettivo della macchina fotografica, una donna che allatta il suo bambino stando seduta per terra, un padre che accompagna a scuola il proprio figlio, giovani in motoretta, il funerale di un’anonima vittima di questa guerra infinita, accompagnata dalla disperazione dei congiunti. Mi ha colpito lo sguardo attonito, ammutolito, di chi non ha parole da dire, neppure di dolore, gli occhi sbarrati, di un uomo davanti al morto, che guarda lontano verso il nulla, perso in un sentimento indicibile, mentre intorno a lui tutto è morte e disperazione; e poi un artigiano intento al suo lavoro, una famiglia raccolta nell’ora del te, uomini in preghiera, bambini che giocano tra le macerie di una casa, ecc. Tutto il racconto di Torsello è fondato su questa dialettica tra cornice e quadro, cioè tra violenza e quotidianità bisognosa di pace, e a dar risalto a questo contrasto certamente contribuisce la scelta di ritrarre la realtà in bianco e nero, escludendo ogni altro colore.
Le ultime ventinove fotografie sono dedicate alla città di Muzaffarabad, che si trova nella parte del Kashmir sotto controllo pakistano. Qui la presenza di armati diventa meno invadente e più discreta, le scene di vita quotidiana non incorniciate dal controllo militare prevalgono: ragazzi che giocano, una donna con bambino in grembo, un comizio di un leader dell’NSF (Federazione Nazionale degli Studenti), il volto di una donna nascosto dal burka, e poi ancora altre donne, bambini e bambine, ragazzi e ragazze – ben tenuti separati – che studiano in una màdrasa improvvisata sotto una tenda. Uomini armati sono presenti, insorti o militari dell’esercito pakistano, ma quasi a tutela di questa umanità esposta al rischio, alla violenza altrui. Sicché si spiega bene che a Torsello sia stato negato dal governo indiano il visto per un futuro nuovo ingresso nella parte del Kashmir controllata dall’India, mentre il governo pakistano si è comportato con lui in ben altro modo, concedendogli il visto di ingresso nel Paese.
Insomma, la narrazione fotografica di Torsello mette in luce una lettura filopakistana della storia attuale del Kashmir, in cui il cattivo appare essere il colosso indiano e il buono il Pakistan musulmano. Se questo sia vero, cioè se il Pakistan sia dalla parte dei buoni e l’India da quella dei cattivi – e non invece, come credo, entrambi gli stati vittime-carnefici di una spaventosa lotta per la supremazia -, tutto questo io non posso verificarlo di persona, ma mi basta averlo notato nel racconto fotografico di Gabriele Torsello.
[Il cuore del Kashmir (recensione a Kash Gabriele Torsello, The Heart of Kashmir, Cooperativa GraficaItaliana, Bari, 2002), “L’Osservatore Nohano”, 8 febbraio 2009 –a. III, n. 1, pp. 13-14.]