Ma davvero Vanini è poco conosciuto?

Raimondi è l’ispiratore di Carparelli: il primo elabora criticamente la filosofia del Vanini, che, in chiave attualistica, definisce razionalismo radicale; il secondo provvede a divulgarne la figura e l’opera per farlo conoscere a strati sempre più vasti della società. Ottimo lavoro “aziendale”, riconosciuto da Sossio Giametta, il più importante traduttore-interprete vivente di Nietzsche e da qualche anno grande estimatore di Vanini. Questi studiosi ormai costituiscono un gruppo di lavoro collaudato, un’estensione dell’école papulienne. Sorto negli ultimi trent’anni, si è arricchito di altri, fra cui i tolosani Jean-Pierre Cavaillé e Didier Foucault. Insieme e singolarmente hanno dato finora importanti prodotti culturali.

Carparelli, tuttavia, insiste nel sostenere che Vanini è poco conosciuto – lo dice e lo scrive à batons rompus –, che perciò va fatto un lavoro di divulgazione, perché, a suo dire, il filosofo di Taurisano è per importanza di pensiero pari a Giordano Bruno (1548-1600) e a Baruch Spinoza (1632-1677) e dunque va conosciuto per il suo reale valore. Per lui Vanini, finché non sarà pienamente “conosciuto”, sarà sempre incompreso e deprivato di “giusta gloria”. Non lo dice, ma lo fa pensare.

Mi permetto di dissentire. Vanini, tra tutti i suoi pari, atei ed eretici finiti sul rogo, per la sua opera e soprattutto per la sua vicenda umana, è fra i più conosciuti al mondo. Conoscere, però, non significa necessariamente elevare un autore alla stessa altezza di pensiero di altri, del calibro in questo caso di Bruno e di Spinoza. Non si può confondere la conoscenza con il valore o con la fama. E’, anzi, la conoscenza fattore di inevitabile differenziazione. Proprio perché un filosofo è conosciuto, può trovare un posto nelle gerarchie dei valori. Ognuno sta sul gradino di una scala.

La figura di Vanini è fra le più affascinanti e suggestive, pur nella drammaticità della fine orribile che il filosofo fece o, forse, proprio per questo. Chi insistette negli anni Trenta del ‘900 sulla distinzione fra vicenda umana e valore intellettuale di Vanini fu Luigi Corvaglia (Melissano, 1892 – Roma, 1966), che l’opera del Taurisanese la conosceva davvero, avendo fatto un profondo lavoro critico e filologico. Per i suoi distinguo andò incontro ad una serie di incomprensioni, protrattesi fino ai giorni nostri. Titanico come uomo, modesto come pensatore. Era questa la posizione dello studioso di Melissano. Aggiungerei: formidabile espressione e testimone del suo tempo (Vanini scilicet).

Pur tenendo conto che molta acqua è passata sotto i ponti degli intellettuali salentini, grazie anche ai canali navigabili di importanti studiosi stranieri – mi viene di pensare al francese Émile Namer e al polacco Andrzej Nowicki – la questione Vanini è la stessa di ieri. Vanini, per la sua arditezza di vita e di pensiero, è un soggetto da film d’avventura, quali ne sono stati realizzati tanti sulla Francia del ‘600, ma resta un pensatore modesto nel panorama della storia della filosofia. Si può accostarlo a Bruno e a Spinoza quanto a naturalismo panteistico, a Pierre Charron (1541-1603) per il suo scetticismo, ad altri importanti filosofi per altri aspetti.

Nel corso dei secoli Vanini è stato variamente considerato e perfino strumentalizzato, si pensi alla chiesa e alla massoneria, su posizioni opposte ma entrambe distorsive. Ma è stato anche valorizzato per il suo pensiero, secondo lo spirito del tempo. Ritenerlo oggi un assertore del razionalismo radicale, al di là della condivisione o meno di tale interpretazione, è un riconoscimento importante alla sua opera. Non sfugge quanto sia attuale oggi Vanini come testimonial nel dibattito sui diritti individuali della persona e sulle questioni bioetiche. E’ bene perciò continuare a studiarlo e ad elaborarlo criticamente, cercare nuovi percorsi euristici, è bene anche continuare a divulgarne la vita e l’opera, ma non va bene confondere conoscenza e valore proponendolo a provincialistici accostamenti o raffronti. Nella storia opera una forza di cui non sempre è possibile individuare la fonte, che non è riconducibile a precise persone, una forza che stabilisce delle gerarchie senza deliberatamente perseguirle.

Sono passati da poco 400 anni dalla sua morte (9 febbraio 1619) e il Giustiziato di Tolosa è fermo nella sua dimensione. Che ciò sia vero lo prova il fatto che ancora oggi si ripete che è poco conosciuto o addirittura sconosciuto, perfino da chi da anni ne ha fatto l’oggetto delle sue ricerche storiografiche e riflessioni critiche e su di lui ha scritto e pubblicato una gran quantità di libri. Lo provano e lo confermano i manuali scolastici di storia della filosofia, i quali, avendo davanti il panorama completo di filosofi e di filosofie non possono che dare ad ognuno la sua statura ed importanza. Evidentemente le isoipse, con cui gli storici accademici congiungono certe altezze, escludono ed includono secondo dei criteri.

Va da sé che ognuno può legittimamente rivendicare la conoscenza di un autore di più e meglio di altri, di tutti gli altri, può arrivare a sostenere perfino di essere l’unico ad averlo capito. Ma se dopo secoli e secoli, studi e studi, interpretazioni e interpretazioni, la questione rimane la stessa, l’asticella non si muove, qualche cosa può voler dire. Quello della sua scarsa conoscenza è un falso problema, anzi non esiste in quanto tale. Fermo restando che qui non si tratta di un brand turistico, sebbene oggi conti pure quello, ma di ricerca scientifica e di verità storica.  

[“Presenza taurisanese” anno XXXIX – n. 9-10, Settembre-Ottobre 2021, p. 6]

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