di Viator
Zitta zitta torna a me
torna a me non so perché
sempre all’erta e novembrina
la mia Musa puntualina
e non tanto peregrina
che non possa ancora fiori
fiori offrire alla Poesia.
.
Questa volta il fior del loto
ai Lotòfagi vorrebbe
trafugare e trapiantare
soprattutto in Puglia piana
dove non è cosa vana
adorar la terra mia.
–
Dove un tempo all’uscio mio
sopra un muricciolo antico
grassottelli esso ostentava
frutti lustri rosseggianti.
.
Dirò poi – se andiamo avanti –
della dolce polpa sua
che i compagni sulla prua
della zattera di Ulisse
induceva me a sognare.
.
Trasognata intravedevo
pur nel luccichio del Mito
la salsedine feconda
che su voi posò gioconda
di quel mar di Ulisse l’onda.
Un omaggio alla poesia si potrebbe definire tutta la produzione di Giulia Licci, poetessa di Ruffano, insegnante di lettere ai suoi verdi anni. Un omaggio di sapienza e gratitudine. Ma un omaggio può essere implicito e può essere esplicito, come una dichiarazione d’amore. Conserva la dimensione “fanciullina” e conferma la poetica pascoliana.
Nell’ultima sua plaquette, Un sogno (GR Edizioni, novembre 2015), l’omaggio è dichiarato. La Musa, che è l’ispirazione, torna a lei puntualmente nella soporosa dolcezza dell’autunno, stagione evidentemente a lei cara e bendisponente; come la primavera, favorisce i sogni. Toni e atmosfere sono fiabeschi, da filastrocca per bambini. Ma dietro i facili ottonari e le rime semplici (baciate), che la poetessa non ricerca, ci sono gli oggetti simbolici del suo universo, etico ed estetico.
A novant’anni, Giulia Licci accoglie quasi ogni anno la sua Musa “novembrina / …puntualina / e non tanto peregrina / che non possa ancora fiori / …offrire alla Poesia”. L’incipit è quasi una miniprefazione. Poi il volo onirico sulle ali della cultura dotta e della fantasia.
Licci è l’altro volto della poesia; non il dolore e la disperazione, ma la gioia e la serenità. Il fiore del loto ha echi classici, rimanda ad Omero. E “la dolce polpa sua” la trasporta tra i “compagni sulla prua / della zattera di Ulisse”. Quei compagni, che, avendolo mangiato, sono dimentichi e felici e sognano, lontani dalla loro patria, la propria giovinezza e il mondo idillico della loro casa.
Il soggetto della seconda strofe è rimasto nella prima in un “gioco” sintattico ellittico; è la Musa, che trasporta la poetessa nel mondo della sua infanzia, “in Puglia piana / dove non è cosa vana / adorar la terra mia”, e dove lei “sopra un muricciolo antico” ammirava i “frutti lustri rosseggianti”, simbolo dei sogni di ragazza. E si ritrova tra i marosi coi compagni di Ulisse, in balia del mare, che, pur foriero di pericoli, lascia sui naviganti “la salsedine feconda”. Che è simbolo di rafforzamento e di resistenza.
E’ il raggiungimento quasi del nirvana, della quiete interiore assoluta. La lucidità scrittoria e l’ironia di chi si compiace di esprimersi con facilità e dottrina le consentono di nutrire, all’autunno, una così felice visione, da paragonarla sì ad un viaggio, avventuroso e incerto, ma nella sua odeporicità ricco di ogni bellezza e di ogni suggestione di vita.
[“Presenza Taurisanese”, maggio 2016]