di Viator
Il sapere non dice nulla
se la vita è archiviata dal Signore:
vita e vite: due simboli, due forze
che Dio mi ha tolto dopo il Suo banchetto.
Un tempo anch’io ero tra gli invitati
e non ultima, adesso, vergognosa
do le spalle alla porta del sapere
e mi copro le orecchie e Dio è lontano
e bisogna tacere…
Un tempo Dio mi visitava spesso
adesso forse manda qualche Angelo
per vedere se reggo al mio dolore…
Se si potesse usare l’espressione “animale poetico”, la troverei acconcia per Alda Merini. La poetessa milanese (1931-2009) ha fagocitato l’esistenza con la poesia.
Che si può dire di lei, della sua vita o vite, dei suoi matrimoni, dei suoi manicomi, della sua “animalità dell’anima”? E’ lei la Poesia e ne ha contezza. Vi si identifica come nel fiore: “Non avrei potuto scrivere in quel momento nulla che riguardasse i fiori perché io stessa ero diventata un fiore, io stessa avevo un gambo e una linfa” (“L’altra verità. Diario di una diversa”, 1986). Conati di magma, che si solidifica in immagini poetiche, ora di amore, ora di dolore. Se pure avesse voluto essere qualcosa di più o di meno, e cercò di esserlo – figlia, moglie, amante, madre –, non sarebbe riuscita. Non riuscì. Nello scarto, il dolore.
“Un tempo Dio”, della raccolta “Tu sei Pietro”, esprime un momento di sofferenza e di sconforto. Qui il Dio della Merini è un dio pagano, è la poesia. Lo aveva conosciuto quel Dio, era stata assisa al suo “banchetto”: la scrittura poetica era stato il suo cibo; la gioia, il piacere, il sapere il suo godimento. Era stata tra i suoi invitati “non ultima”. Ma quando? Quando la vita era promessa, quando bambina vinceva le gare scolastiche di poesia e veniva premiata dalla Regina Maria Josè in persona. E ancora, quando? La risposta è frammentata in tantissime poesie, occasionali, ispirate o buttate “col soffio identico iniziale / con cui Dio ha fatto l’uomo” (“Ho buttato il mio verbo come Iddio”).
Ora quel Dio lo avverte lontano. E “Il sapere non dice nulla / se la vita è archiviata dal Signore”. Alla promessa di partecipare stabilmente a quel “banchetto”, era seguito il buio del nulla, degli stenti, del dolore. La sua ricerca del sapere era stata bruscamente interrotta: ferita mai sanata, che avrebbe condizionato, tormentato la sua esistenza. Il suo stato di miseria la rende “vergognosa”: “do le spalle alla porta del sapere / e mi copro le orecchie”.
“Dio è lontano”. Ma non dimentico di lei. Non più la luce, la gioia, la promessa; ma solo qualche lampo, che squarcia le tenebre dell’esistenza. Non più Dio, ma qualche suo Angelo. Non più la Poesia immaginata, solo qualche verso che arriva “per vedere se reggo al mio dolore”.
[“Presenza taurisanese”, aprile 2016]