Piero Manni è nato a Soleto, nel cuore della Grecìa salentina, nel 1944, e appartiene a quella generazione costretta a rinnegare la lingua grika per volontà di genitori che, investiti dal vento modernista, credevano fosse loro dovere indurre i figli a parlare la lingua italiana appresa a scuola, salvo ripiegare in caso di necessità sul dialetto romanzo salentino. Scrive di sé, in terza persona, l’autore, mal dissimulando un certo rimpianto: “I genitori, parlanti griko, non gliel’hanno insegnato per non farlo sentire un emarginato a scuola, per cui la sua lingua madre è il dialetto romanzo del Salento”. (p. 107). La lingua in cui Manni scrive non è il griko e neppure il dialetto romanzo del Salento, bensì la lingua imparata a scuola, la moderna koiné dell’italiano; ma a me piace sentire, celata dentro questa moderna koiné, il griko antico dei genitori di Manni, passato negli scritti del figlio non sub specie linguistica in senso stretto, ma nel particolare approccio al tema da parte dell’autore. E’ un caso che, in limine, egli definisca “barbara” la guida che il lettore si appresta a leggere? Io credo di no! “ ‘Barbara’ nel senso di straniera, strana rispetto al paradigma della guida descrittiva destinata al turista frettoloso che cerca una lettura precotta del territorio nel quale si trova”. E come “straniera è la guida così “straniero” è l’autore, griko, nonostante ed anzi in ragione delle sovrastrutture linguistiche di cui la modernità l’ha rivestito.
Chi meglio di uno “straniero” potrebbe descrivere con maggiore obiettività e distacco (il distacco dell’antropologo) “l’anima loci, il senso di un popolo”? L’autore infatti dichiara di guardare al Salento da un’ “ottica prevalentemente antropologica” (p. 11), senza saltare a piè pari oltre i luoghi comini, i cliché, ma riportandoli e anzi accentuandoli, con l’intenzione dichiarata “di provocare una reazione di dissenso (anche di indignazione se qualcuno ce ne volesse onorare) che consente di mettersi in discussione” (p. 30). Manni non risparmia i “nobili decaduti”, di cui è pieno il Salento, vissuti “nel secolo scorso vendendosi un poco alla volta i piccoli feudi” oppure fondando banche locali che hanno rastrellato “il risparmio della gente salentina” (p. 13); né la borghesia delle professioni e del commercio caratterizzata da “boria e albagia”; e neppure “i nuovi ricchi dell’imprenditoria, nata e ben cresciuta sui lavori pubblici”. Salva solo i ceti popolari, “cordiali, espansivi una volta superata la iniziale innata timidezza contadina, con un senso dell’ospitalità che ha aspetti di sacralità” (p. 14).
Ma in generale l’homo lupiensis è ufàno ovvero affetto da ufanerìa. Qui Manni si sbizzarrisce. Che cos’è infatti l’ufanerìa? Ufàno è uguale a orgoglioso, ma sarebbe meglio tradurre con vanitoso. Seguiamo la guida: “… l’ufanerìa è l’eccessiva autostima dei Salentini, i quali credono di sapere tutto e di saper fare tutto”; “è l’ostentazione esagerata delle proprie ricchezze o del proprio potere o delle proprie qualità e, soprattutto, delle proprie amicizie” (p. 31). E’ la borghesia il ceto sociale maggiormente preso di mira da Manni: “La borghesia salentina possiede grandi barche, da 20, 30 metri, che compaiono d’estate nei porticcioli di Gallipoli, Tricase, Otranto”, barche usate “una volta all’anno… per il ‘viaggio’ a… Santa Maria di Leuca o, al massimo a Corfù…” (p. 32). Ma si consideri anche l’ufanerìa delle madri che sottopongono a un “tour de force quotidiano… i figli fin dai primi anni …: danza, musica, canto, ippica, pallacanestro, pallavolo, arti marziali”; alla fine del giorno questi bambini rimangono “confusi dalla frenesia materna” (p. 33).
Insomma, i Salentini, così come Manni li disegna, non sono dei soggetti molto raccomandabili: “sono autoreferenziali, e si sentono il centro del mondo” (p. 34), “sono fermamente convinti che non esiste al mondo luogo migliore del Salento (p. 35), in strada sono pericolosi perché “non sanno guidare” (p. 41), giocano d’azzardo fino al punto di giocarsi la moglie (p. 44), e, sebbene Madame de Stael sia vissuta nel Settecento, amano ancora i salotti, che servono loro “a instaurare e rinsaldare relazioni che possono tornare utili nel proprio lavoro” (pp. 43-44); se poi consideriamo i rapporti tra i salentini e le istituzioni, ebbene, Manni rinviene “un rapporto di sudditanza e soggezione” della gente comune alle istituzioni per colpa dei potenti di turno che hanno tratto vantaggio da questa subordinazione, sicché oggi “un’alta quota di Salentini non si sentono ancora cittadini ma sudditi” (pp. 44-45).
E’ bene che mi fermi qui in questa rassegna, sebbene il nostro cicerone scriva ancora a lungo di questo luogo chiamato Salento e dei suoi abitanti, esaminando diversi ambiti: la religione, la cultura, la gastronomia, gli eventi, gli antichi mestieri, ecc.. Ma è meglio non aggiungere altri dettagli, per non far perdere al lettore il gusto della scoperta. Fatto è che la parte del libro destinata a suscitare commenti risentiti soprattutto nei Salentini è proprio quella che abbiamo analizzato. Del resto, non si era promessa una guida “barbara”? Manni il griko consegna prima a noi e poi al turista la nostra immagine riflessa come in uno specchio. E allora la domanda finale è: ci sarà qualcuno disposto a riconoscere che noi Salentini non siamo proprio perfetti?
(2013)