di Viator
Vorrei essere immortale
per un certo numero di anni
sapere di non incappare
in strani eventi
sorprese disgustose
lutti condanne rimorsi.
Saprei allora essere diverso
forte incorreggibile
sfidare tutto con destrezza
sapere già la sera
se al mattino sarò vivo.
Non sarei più un poeta
un folle perdente
a me stesso ossessivo.
Quello di Salvatore Toma (1951-1987), prima ancora di essere un caso letterario, è un caso umano, esistenziale. In Canzoniere della morte, a cura di Maria Corti (Einaudi, 1999), lo si dà per suicida. A rigore, il poeta di Maglie non si suicida, almeno non come si intende il suicidio. Sceglie sicuramente di morire ma in una forma che gli consenta di assistere come altro da sé. Vuole vivere la sua morte. La cerca e la coltiva facendo uso di alcool quando sa che lo avrebbe ucciso, come poi accade.
La morte è il tema costante della sua poesia; l’immortalità il secondo. A tratti pensa di declinare l’uno con l’altro. “Vorrei essere immortale” e “sapere già la sera / se al mattino sarò vivo”. Attribuisce a questo suo tormento la condizione di sofferenza sociale e di insicurezza.
Toma vive in una sorta di transfert, vuole godersi la sua immortalità e perciò si proietta in un domani che ne verifichi il valore. E’ un’ossessione, la sua. Spesso, nelle sue poesie, immagina i commenti della gente, appresa la notizia del suo suicidio: “come lo si poteva sospettare? / La sera prima sorrideva… […] Ma la morte / si manifesta anche così / a volte in armonia con la vittima / sadica inusuale un po’ distorta” (Nessuno se lo sarebbe immaginato).
In altre poesie se la prende con chi già, lui ancora vivo, gli contesta valore e rango di poeta. In “Ultima lettera di un suicida modello” chiude con minacce “Ci rivedremo / ci rivedremo senz’altro / e ne riparleremo… / Addio bastardi maledetti / vermi immondi / addio noiosi assassini”.
Essere insomma mortale/immortale, fuori dilemma. “Vorrei essere immortale / per un certo numero di anni” altro non può che voler dire: vorrei vivere per assistere alla mia immortalità; conoscere la mia gloria poetica; sapere di essere diventato famoso e vivere questa condizione, magari solo per qualche anno prima della morte.
Invece la vita non lo premia come lui vorrebbe; e allora egli identifica il poeta nella condizione dell’incompreso e si sente “un folle perdente / a me stesso ossessivo”.
[“Presenza taurisanese”, marzo 2016]