di Viator
“Le fer des mots de guerre se dissipe dans l’hereuse matière sans retour” (Yves Bonnefoy)
così dal colmo, ormai, nuoce
il dimandar parenzé, come
il Distrarsi. Lasciatemi
a questa strana circostanza. Qui
so, con il mio amore, e con chiunque
vi arrivi, che a questo inferno minore, tutto è minore; medesimo
è solo il Carnevale. Ahi l’impostura
seguente che riduce che quagiuso nemena.
Claudia Ruggeri (Napoli, 1967 – Lecce, 1996), poetessa; bella e colta, di talento e inquieta. Si uccise a 29 anni, buttandosi dalla finestra, realizzando quel “folle volo”, che ricorda l’Ulisse di Dante e che torna nella sua poesia, come presagio funesto. Che andava a cercare la poetessa nell’incognita di un “volo”? Risposta non pervenuta. Una conoscenza esclusiva, incomunicabile, estrema. A volte i poeti sono egoisti.
Il suo barocco, moderno e cromatico, è ricco di immagini e di parole tratte dai registri più vari. Il suo mistero probabilmente è in quel suo essere salentina (padre) e napoletana (madre); in quell’essere sospesa su un mondo, come un foglio di carta portato dal vento, dove impossibile planare con certezza in un luogo preciso, come terra promessa. Suggestionata da letture, dantesche, ma non solo, da viaggi e conoscenze, attingeva perfino al vocabolario dei tarocchi. Del “matto” ne fece quasi il suo eroe.
In “Congedo” che chiude la raccolta “Inferno minore” (1990), la poetessa introduce termini scherzosi, in un approccio ludico con se stessa. Sfrutta assonanze e dialetto e sembra quasi, giocando, volere o poter dominare quel male di vivere, che è tipico di tanti giovani poeti: parenzé, quagiuso, nemena. Traspare il disagio esistenziale di chi comunque accetta di stare nella “strana circostanza”, ovvero in una condizione dove tutto è ridotto, senso di mediocrità o nullità, insopportabile da chi altro aveva pensato; convivenza con un altro da sé non gradito e detestato.
Di immutabile è solo il “Carnevale”, uno spettacolo di travestiti, di nascosti, di simulatori e dissimulatori. Come a dire che tutto nella vita è un inferno, dove si subisce una riduzione; e solo la finzione, la maschera, resta se stessa. Ma al poeta non possono piacere finzioni e maschere: il poeta le uccide.
In una condizione delusiva, di promesse tradite, non resta che “Distrarsi” con il proprio “amore” e con chi “vi arrivi”, attratto dalla medesima condizione. Fuori da quell’inferno minore regna “l’impostura”, la stessa che condanna gli uomini alla minorità, “che quagiuso nemena”.
[“Presenza taurisanese”, febbraio 2016]