La metafora del potere nel romanzo storico di Antonio Errico

Per rispondere a queste domande si deve partire proprio dalla vicenda, nella quale si racconta un insanabile contrasto tra l’esiliato e Lorenzo, ovvero tra un uomo che scrive per dichiarare la sua innocenza, e l’incarnazione di un potere bieco, ingiusto e tirannico, indegno persino del diritto di parola. Solo lo scrittore-esiliato ha il diritto di parola, il che vuol dire che noi leggiamo solo quanto egli scrive, un lungo monologo diviso in lettere mai recapitate e, dunque, mai lette dal destinatario reale, ma solo da un lettore postumo. Nessuna comunicazione può esservi tra il potente e l’esiliato-scrittore. Il monologismo che pervade la scrittura di Errico ha questa motivazione intrinseca all’opera e si configura come emblema di una sorta di risarcimento figurato dello scrittore, succube sì di un potere che lo ha ridotto nella condizione dell’esiliato, ma che non si è perso d’animo ed utilizza in pieno l’unico strumento che gli è rimasto per ripristinare la verità dei fatti: la scrittura.  Da questo punto di vista, il romanzo storico di Errico, pur senza mai fare riferimento all’attualità, vi allude, su di essa ha molto da dire,  poiché esso mette in scena, mutatis mutandis, la condizione dello scrittore contemporaneo e i suoi rapporti con il potere, un potere lontano e incontrastabile, cui lo scrittore-esiliato, ovvero estromesso dalla gestione del potere, contrappone la monofonia di lettere non corrisposte, che non raggiungeranno mai coloro che lo incarnano (ma chi oggi incarna il potere?).

Lo stile segue, come scrive l’esiliato in un momento, non l’unico, di riflessione linguistica, “una forma lineare” (il suggerimento è a p. 110, ma basta aprire il libro per accorgersi dei numerosissimi a capo), che si nutre di anafore e di addizioni, le due figure retoriche più amate da Errico, e di una sintassi franta e paratattica. Si legga, per l’anafora, solo nella pagina incipitaria, la ripetizione “Nobilissimo Signore…”, ripetuto tre volte, e, sia pure con variazione, “da questo esilio scuro”, “da questa dimora estranea”, “da questo luogo di margine”; e, ancora, senza variazione, “Solo fino a quando…”, ripetuto tre volte (p. 9). Così, per l’addizione: “Nobilissimo Signore, vorrei riuscire a raccontarti la luce di questo luogo, la sua trasparenza, la chiarità, la rifrazione, il caldo e il freddo della luce, quella che proviene dall’alto, dal basso, da un bagliore, da un raggio, la luce che dilaga o che ristagna o che si racchiude tutta in un punto e si fa smeriglio del tempo” (p. 12). Un’addizione, come si legge, che fa grande uso di sinonimi e contrari, in frasi di tipo paratattico, col fine di esaurire le possibilità espressive che si offrono allo scrittore intento a descrive una sensazione, una situazione, un luogo. Una forma ad libitum che giustifica in pieno quanto afferma lo scrittore-protagonista quando dice: “So che potrei smettere adesso, a questo punto, e so che potrei continuare senza limitazione” (p. 119).

E’ un orizzonte fosco quello descritto da Errico, privo di ogni redenzione, dove non vige nessuna speranza di riconciliazione. Lorenzo rimane lontano, muto, irraggiungibile, mentre l’esiliato, avendo terminato la sua requisitoria contro l’ingiusto potere, va privandosi d’ogni desiderio (“sto imparando ad allontanare i desideri”, scrive a p. 152), in attesa di un destino di morte, unico esito concesso di una vicenda caratterizzata da un’impossibile comunicazione. Non è questa una bella, sebbene triste, molto triste, metafora degli odierni rapporti tra lo scrittore e il potere e della condizione d’esule dello scrittore contemporaneo?

Il romanzo di Errico è figura di un dramma, che va consumandosi oggi, in questo nostro tempo storico. Dalla catastrofe finale, cui si allude in conclusione (l’eccidio di Otranto), nulla si salva, eccetto la “blanda” speranza che un giorno qualcuno, il lettore, posi gli occhi su questa scrittura, unica testimonianza di quanto realmente è accaduto / sta accadendo.

[Pubblicato ne “Il Paese Nuovo” di sabato 8 settembre 2012, p. 14, col titolo Dal margine, la scrittura]

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