La bellezza delle passioni per il tempo che viviamo

Di Joyce è proverbiale la lentezza nella scrittura. Si racconta che un amico, capitato un pomeriggio in casa sua, lo abbia trovato in stato di totale abbandono, con la testa riversa sul tavolino. Allora l’amico gli domanda cos’abbia. Lui gli risponde che aveva scritto sei parole. Allora l’amico gli dice: ma come? Per te sei parole sono un record. E James: sì, ma non so in che ordine vanno.

Che cosa siano i libri di Joyce, è assolutamente inutile dirlo. 

Disse una volta Giuseppe Pontiggia che se la letteratura ha un senso, ce l’ha solo se si confronta con le cose essenziali che ci riguardano. Probabilmente è vero. La letteratura ha un senso solo se si confronta con i significati più o meno evidenti o più o meno nascosti delle storie, delle cose che appartengono al tempo, al terreno e all’ultraterreno, al reale e all’irreale, alla storia e all’immaginazione, al vicino e al lontano, alla superficie e alla profondità.

Poi ci sono i cosiddetti best sellers. Americanate di origine più o meno controllata che arrivano nelle librerie a vagonate, scortati  da totem ad altezza d’uomo (alto), reclamizzati con ogni mezzo e in ogni dove. Sono libri che solitamente seguono le mode di stagione e di cui nessuno si ricorda non appena passata la stagione, scritti non di rado in modo sciatto, nonostante siano  sottoposti  ad una terapia intensiva di editing.

Probabilmente moltissime sono le ragioni per le quali uno scrive e un altro dipinge, e un altro scala montagne, compone melodie, gioca a pallone, vola a trecento chilometri l’ora su un’auto da corsa, sale sul palcoscenico di un teatro, sprofonda nel silenzio di un laboratorio. 

Ma c’è una cosa, probabilmente, che costituisce la radice profonda di quello che si fa, senza la quale tutto diventa terribilmente banale. Questa cosa si chiama passione. A proposito della scrittura, in un saggio intitolato Perché amiamo scrivere. Filosofia e miti di una passione,  Duccio Demetrio dice che anche lo scrittore di professione ritorna sempre ad una naturale condizione amatoriale, incerta ed eccitante, inquieta e disponibile a lasciarsi stupire dalla vita, dalle persone, dai fatti, dal dubbio, dall’ignoto. Nessuno potrà mai essere uno scrittore autentico, se avrà cessato di dare ascolto ai propri tormenti interiori, se di tanto in tanto non si ripassa quella frase di  Simenon: “Scrivere non è una professione ma una vocazione all’infelicità. Non credo che un artista possa mai essere felice”.

Certo, si potrebbe anche rovesciare questa posizione e dire che la scrittura può essere una vocazione alla felicità, che si scrive per corteggiare l‘illusione di essere felici. Ma come che sia, di sicuro c’è che felicità o infelicità non dipendono dal successo, ma da quello che accade dentro.

Al di qua della soglia della passione c’è la mediocrità, il qualunquismo, il disimpegno, l’indifferenza, la distrazione verso quello che si fa, verso il proprio impegno, e l’attrazione verso altro, verso l’inappartenente, verso le tante sirene che cantano ed attraggono con le loro promesse di apparente prodigio e sostanziale nullità. Senza passione c’è il disinteresse, l’apatia, l’immobilità, l’abitudine, l’uggia.

Forse questo è un tempo che ha bisogno di passione  soprattutto per le piccole cose, perché le grandi sono sempre  il risultato di una tramatura di cose piccole, ordinarie.  Ha bisogno di passioni quotidiane, costanti, tenaci, di passioni personali e di passioni sociali.  Se qualcosa potrà salvare quello che c’è da salvare, non sarà la bellezza, ma la passione, o, se si vuole, la bellezza della passione.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 8 agosto 2021] 

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