Stefano Coppola (1951-1981), giovane poeta di origini salentine – il padre era di Lucugnano, primario chirurgo in diversi ospedali in Toscana, la madre perugina – morì suicida a poco più di trent’anni; si sparò un colpo di fucile. Nacque a Roma e visse a Pistoia, a Roma, a Lucca, a Firenze, viaggiò molto, con nella mente e nel cuore la dimora salentina paterna: tipica condizione di déraciné. Di lui resta una raccolta postuma “Poesie scelte”, con uno studio introduttivo di Oreste Macrì (Lecce, Manni, 1992), che i suoi genitori vollero pubblicare dieci anni dopo, in un gesto di amore e forse di risarcimento. Il libro venne presentato nel corso di un “Giovedì Letterario” in Casa Comi nell’ottobre del 1992.
Quando un giovane, bello, colto e benestante, come Stefano, decide di togliersi la vita e cura la liturgia del suicidio, non ha che una sola spiegazione: la solitudine; non ha che un messaggio: la denuncia; non ha che un rimpianto: “la dignità / si ribella / allo strazio / del sangue”.
A volte la morte procurata è l’estremo omaggio ad un sogno irraggiungibile, inseguito e sfumato: “tagliate le mie vene / e del sangue / fatene fiori / per la mia bambina / la mia bambina è triste / ed io non so perché / e come farla felice” si legge in un’altra sua poesia, dove dissezionato egli immola tutto a questo suo amore: gli occhi, le ossa, il cuore, le dita, la sua casa, il suo tempo, “e se un’anima di me trovate / fatene per lei / vi prego un aquilone”.
Non si può mai sapere perché uno decide di uccidersi, nemmeno se lo mette per iscritto prima, perché in lui il tumultuoso succedersi di emozioni lo mette fuori tempo e fuori ragione. Che sanno gli altri? Nulla! Certo, Stefano aveva di che dolersi di qualcosa e forse di più di qualcosa; che gli altri forse non avrebbero capito, che gli altri forse non avevano capito.
A volte il caso singolo è chiave per aprire scrigni esistenziali diffusi. Uno paga per un male sociale; spesso è il più sensibile.
In questo suo <d’improvviso> c’è la lucida rappresentazione di un momento che sarebbe arrivato e di come sarebbe stato: “ecco l’uomo solo / di fronte / alla bocca d’acciaio”. Una chiamata di correità è in quel “pianto di una città muta / nel canto / delle sirene”, mentre “le strade grigie e sperdute / si riconoscono / senza vita”. Finalmente – sembra dire – tutti vi accorgerete di me. Allora “ecco che anche le lacrime / fanno rumore […] / al fragore d’uno sparo / lontano”. Il risarcimento sperato di chi lascia è il rimorso dei lasciati.
[“Presenza taurisanese” novembre-dicembre 2015]