Paolo Vincenti, poeta rigattiere

   Nella sua ultima produzione poetica, Al mercato dell’usato (Catalepton) (Agave Edizioni, 2020) il poeta prende a piene mani da quella lirica perché è in essa che trova conforto, una guida per leggere il presente, sentirsi sorretto verso il futuro, e il continuo dialogo con i grandi poeti classici gli permette di giocare con la parola e trovare una via per la sua arte. Così come al mercato dell’usato il rigattiere raccoglie ciò che altri hanno abbandonato, altri ancora riprenderanno, ridaranno una nuova vita a oggetti diversi in cui scoprono un valore intrinseco ed estetico che deve venire nuovamente alla luce e offrire una nuova funzione e diletto. E Paolo Vincenti è quel rigattiere, novello Orfeo che vuole riportare alla luce la Musa e ammansire gli animi: … “hey mitico Orfeo, cantami i segreti della notte /// prestami i sistri / e fammi suonare con le tue mignotte / passami la coppa del vino / prima che le menadi ti acchiappino/ invasate dal furore divino”.

   Come spiega lo stesso Autore, nella Premessa, in questa raccolta ha ripreso e rivisto poesie già pubblicate nelle raccolte precedenti, operando un labor limae che rende più attuale l’opera stessa insieme ad altri scritti inediti, “una summa degli anni duemilaventi”.      

  Nella prima sezione, tratta dal libro Di tanto tempo (Questi sono i giorni) (Edizioni Pensa, 2010), protagonista è il tempo: “Io non voglio progettare, pianificare / so soltanto che il tempo passa / e ci toglie il tempo per amare …”  Il poeta sembra dialogare con Catullo e Orazio e invita a bere per assaporare la vita nella consapevolezza della sua brevità.

   È difficile separare il tema del tempo da quello del simposio che ritroviamo in particolare nelle due sezioni successive dove il linguaggio si arricchisce di sconfinamenti in altre lingue, dall’italiano standard a ad un lessico dialettale salentino, dal francese all’inglese, allo spagnolo, in modo giocoso, in una sorta di goliardia che vela però una condizione di scontentezza nei confronti della vita che non dà.

   La poesia dei goliardi, quella per intenderci del Canto dei Bevitori dai Carmina burana, rovesciava in modo ironico e divertito temi e atteggiamenti della letteratura medievale, così Vincenti in modo parodico canta “ai vecchi tempi”, alla memoria del tempo passato e al piacere di godere il presente.

   Avvertiamo che al poeta la realtà stia stretta, in qualche modo soffochi quella volontà di esserci, di contare, di andare oltre, così in Neronotte trascina il lettore in un mondo di poeti e chansonnier francesi degli anni ‘50-60 del Novecento. E quasi sentiamo la voce di un Yves Montand che languidamente e sconsolato canta Prevert o Gilbert Becaud con le sue ossessive ripetizioni; cantanti, attori, viveurs di un esistenzialismo a cui Vincenti sembra ispirarsi con tono sarcastico, un po’ bohemienne, un po’ poeta maudì. E quel tempo cantato sembra fermarsi solo nella noia, un mondo di contraddizioni che caratterizza l’esistenza degli uomini che hanno voglia di fare e di dare, ma non sempre la speranza e una sana ambizione si traduce nel raggiungimento di una meta.

    Il motivo dionisiaco s’intreccia con quello simposiaco perché la danza inebria insieme al vino per appagare desideri latenti e inconfessati, permette di uscire da quelle regole che la società impone con i suoi riti, gli obblighi, le restrizioni, le falsità.

   In diversi componimenti l’Autore riscrive a modo suo “Le Baccanti” di Euripide. Celebrando Dioniso, il dio dell’ebbrezza, delle danze orgiastiche, anela l’oblio della vita avara e rifugge il pensiero della morte: “… ed è un vai e vieni di leccornie, / che sempre ci lesina la vita quotidiana / ma che in questa notte di malie / questo simposio pagano ci dona / ed è un entra ed esci dall’euforia, / che l’ebbrezza dionisiaca ci fa provare, / mentre la vita parca, con quella litania / di giorni tutti uguali, ce ne vuol privare / così, finchè vedremo le fanciulle ballare / e i piattelli vedremo galleggiare nel cottabo, / per il lancio delle gocce di Bromio, l’Erebo / noi, giocando, potremo rimandare.”

   In quel mondo mitico percepisce una sorta di legame interculturale col tarantismo salentino, già affrontato da Ernesto De Martino: “ … balla, tornato sui luoghi del mito, anche Ernesto De Martino … e come le bacchiche danzatrici che adoravano Dioniso Signore … le odierne tarantate ballano con lui, nella finzione rituale … e si ubriacano di quella follia che le fa smaniare … simili a baccanti, sul Tmolo, selvagge e furenti …… donne macare si arrampicano su guglie e cornicioni … e abbaiano alla luna, come cagne correnti … qui, nell’antica Magna Grecia, in questa notte pimpante … fra morsi e rimorsi …”

   Anche se qualcuno potrebbe storcere il naso di fronte ad una poesia immersa nel passato e per certi versi dissacrante, Vincenti invita a godere la vita che non dovrebbe essere quella delle bollette da pagare o quella di un conformismo vuoto, ma la vita vera, più istintuale, che soddisfi i sensi e la mente, nella realizzazione del proprio essere.

   La sua parola, nuova, poliedrica, efficace, diventa veicolo delle sue aspirazioni che (come negarlo?) appartengono alla maggior parte di noi. E chi non desidera l’hic et nunc? Chissà se domani ci saremo? E perché non poter vivere come vorremmo? Ecco che la parola si fa irriverente, aggressiva (come nei Catalepton) per permettere a quella vita “anarchica” che in fondo in fondo desideriamo, di diventare realtà.

   E il poeta non è un “anarchico”? La poesia di Vincenti si fa immagine e metafora di tutto questo.

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