Zibaldone galatinese (Pensieri all’alba) XXXVI

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Resilienza. Ne parla Evelyne Pieiller, Eccesso di resilienza, ne “Le Monde diplomatique – Il Manifesto”, n. 5 – XXVIII, maggio 201, p. 3: “La sua [della resilienza] valorizzazione è sicuramente in linea con lo spirito del tempo, che invita ognuno a considerare se stesso come un capitale da potenziare. Ma, in termini più ampi, la promozione della resilienza come modello diffuso di attraversamento positivo delle prove, del resiliente come eroe modesto che ha riconosciuto e trasformato le proprie fragilità, è un’arma ideologica e politica ideale. Di fatto, oggi si pone e viene celebrata come la soluzione per superare i tempi difficili.”

L’abuso del termine, dunque, è un abuso ideologico. La resilienza è la moderna virtù civica, in mancanza della quale l’uomo risulta privo della capacità di integrarsi nei meccanismi del consenso e dunque rimane ai margini della società come un essere inutile e dannoso. Avere la capacità di adattarsi, di piegarsi, di assorbire qualunque colpo, di riciclarsi, essere in grado di fingere che tutto proceda per il meglio, significa essere resilienti. La resilienza è una resistenza particolare, che ti spinge a saggiare la tua forza quando ti investe l’urto del comando e tu non ti opponi, ma esegui, sia pure contro voglia, ma sempre facendo buon viso a cattivo gioco, poiché sai benissimo che un’opposizione vera sarebbe inutile, il potere avrebbe la meglio e tu saresti messo fuori gioco; allora, la tua resilienza coincide con la tua forza di sopportazione, con la tua capacità di rinuncia, non col tuo convincimento, che può anche rimanere fermo, fedele alla tua idea finché essa rimane dentro la tua testa; l’importante è che tu rinunci  alla commutazione del convincimento in azione, del detto in fatto, dell’idea in prassi. Così, la resilienza appare essere il contrario della resistenza, nella quale al pensiero segue l’azione. “Ieri, oggi, sempre, re-si-sten-za”, si scandiva negli anni sessanta-settanta, quando ancora era vivo il ricordo della Resistenza, quella che ancora si celebra il 25 aprile. E già allora l’idea prevaleva sull’azione e questa, quando voleva essere conseguente, finiva con l’essere criminosa. Oggi la parola resistenza è scomparsa dal vocabolario, sostituita dalla resilienza, adatta agli “eroi modesti” che tutti noi siamo.

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La natura vivente secondo Giacomo Leopardi, Zibaldone 2232 (p. 1458 dell’edizione Damiani) è “quella natura che sente in qualunque modo la sua propria esistenza…”.

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Dormiveglia 1. Noi non sappiamo che cosa accada nella nostra mente durante il sonno, ma possiamo dedurre qualche indizio da quegli stati di dormiveglia, nei quali ci sfilano dinnanzi episodi vicini e lontani della nostra vita, figure non più viste nella vita da svegli, situazioni passate, ora riaffioranti alla coscienza semi assopita sotto forma di stati d’animo. È certo che portiamo con noi tutto il nostro vissuto, le cose belle e le cose brutte. Tutte hanno lasciato delle cicatrici nella nostra psiche, quando le ferite si sono richiuse; oppure semplici iscrizioni e figure piacevoli da rileggere, quando si è goduto del momento presente. Siamo come la balena di Melville, il cui corpo è cosparso di cicatrici (e vi è infisso anche qualche arpione), incrostazioni, tutti segni d’una vita più sofferta che goduta. Durante il sonno, forse, noi riviviamo la nostra vita da svegli, questa volta in perfetta solitudine, cioè senza avere alcun rapporto con gli altri, che non sia fantasmatico; e dunque per noi è un’occasione per aggiustare le cose, per rimediare a qualche errore, ci diamo ragione, ci consoliamo, ci assolviamo, e così curiamo le ferite ancora aperte e, giacché ci siamo, controlliamo che le altre siamo ben chiuse e cicatrizzate; siamo i medici di noi stessi e ci industriamo, nel sonno, di diminuire quanto più è possibile il dolore; inoltre, ci affidiamo a tutte le cose belle che ci sono capitate, dando a queste il compito di compensare le cose brutte. Soltanto al termine di questa complessa operazione, il sonno, nel quale già siamo immersi, può continuare in modo sereno. A che cosa serve tutto questo travaglio? A rendere più sopportabile la vita da svegli. Chi non dorme, infatti, non riesce a vivere.

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Dormiveglia 2. Prima di essere sopraffatti dal sonno, quando ancora una parte della nostra coscienza è vigile, ci capita di vedere cose e persone e di udire voci sconosciute, frasi di cui non sappiamo comprendere il significato preciso pronunciate da anonime persone che si affacciano alla nostra coscienza senza chiedere permesso, quando noi ancora siamo in grado, non essendo del tutto addormentati, di chiedere: “Ma da dove vengono quelle persone, chi sono, in quale ambiente si muovono, e com’è possibile ch’io le veda e le senta?”.

Forse queste immagini, parole, sensazioni, ecc., sono entrate nella nostra vita in un lontano passato, del quale abbiamo perso la memoria. In effetti, nella nostra vita, abbiamo visto o intravisto il volto di milioni di persone, abbiamo sentito milioni di discorsi, abbiamo vissuto milioni di situazioni diverse; di quasi tutto questo abbiamo perso la memoria, perché per necessità abbiamo selezionato quanto poteva essere ricordato, mentre del resto ci siamo completamente disinteressati; diciamo pure che lo abbiamo dimenticato; mentre invece ogni cosa di questo vastissimo resto si era depositata sulla cute della nostra psiche; ed è da qui che affiora alla superfice della mente, quando, nel dormiveglia, la volontà s’è assopita e il passato ci prende di sorpresa. Dentro di noi ci sono molte più cose di quanto possiamo immaginare.

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La natura umana. Esiste una natura umana, definibile una volta per tutte? L’antropologo dice di sì. Scrive Claude Lévi Strauss, Siamo tutti cannibali, Il Mulino, Bologna 2015, p. 72: “Viste dalla prospettiva dei millenni, le passioni umane si confondono. Il tempo non aggiunge e non toglie nulla agli amori e agli odi vissuti dagli uomini, ai loro impegni, alle loro lotte e ai loro desideri: oggi, come allora, sono sempre gli stessi. Sopprimere dieci o venti secoli di storia scelti a caso non modificherebbe in modo significativo la nostra conoscenza della natura umana. La sola perdita irreparabile sarebbe quella delle opere d’arte che quei secoli hanno prodotto, perché gli uomini differiscono, o meglio esistono, solo attraverso le loro opere. (…) solo le opere attestano che tra gli uomini, nel corso del tempo, è veramente accaduto qualcosa.”

La natura dell’uomo, dunque, è sempre la stessa, ma si estrinseca in opere sempre diverse, prodotte nel corso dei secoli. Ecco perché non sapremmo nulla di meno di quanto sappiamo oggi sulla natura dell’uomo se dieci o venti secoli di storia umana ci fossero sconosciuti, mentre sarebbe per noi un danno irreparabile se perdessimo le opere del passato: questo vuol dire l’antropologo.

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