Ecco. Forse la conoscenza, l’avventura, la vita, non hanno alcun senso, o hanno un senso incompleto, se non si trasformano in racconto. Questo bisogna fare o tentare di fare: raccontare i sogni, le passioni, le pulsioni, le infelicità, le allegrie. Anche a costo di non riuscirci, di scrivere male. Ma dire questo o nient’altro. “L’altro sapeva di poterlo lasciare a chi scriveva meglio di lui – dice Arpino -, lui poteva solo capire alcune cose e cercare di scriverle, senza riuscirci, appunto, e basta”.
Tutto il resto è letteratura, riflesso, finzione, surrogato, parafrasi, copia. Ma quello che c’è da dire, che si può o bisogna dire, che ti bussa alla porta e pretende di essere raccontato, da te, proprio da te, quello bisogna raccontarlo subito, con un linguaggio che riesca ad aderire alle storie e alle creature.
Così gli dico che nel Fratello italiano, Arpino giunge fino al punto di fare della scrittura l’ultima possibile espressione di vita. Alla fine della storia, il maestro Carlo Botero si mette a raccontare, come se stesse facendo un tema di quinta elementare, uno di quei temi che dava ai suoi alunni, e gli scricchiolii della carta sotto il pennino diventano “ l’ultimo gracile suono di vita tra tanto morire”.
Forse si racconta per non dimenticare, per non dimenticarsi. Forse si racconta per l’illusione di ridare volti alle voci, voce ai volti, per ricongiungersi a un tempo che la memoria ha chiuso in un immagine, un gesto, un odore, un presentimento, un soprassalto del cuore.
Per Arpino raccontare non è una maniera per allontanarsi dalla vita. E’ una maniera per ripensarla, ripercorrerla, forse anche riviverla. Scrivendo non si va verso nulla d’ignoto, in fondo. E’ tutto già fatto, già visto o sentito. Si tratta solo di dirlo con l’incerta fedeltà della memoria che a volte confonde l’accaduto con quello che si pensa sia accaduto.
Ha vinto il premio Strega ed è stato un po’ dimenticato, Giovanni Arpino. E’ successa la stessa cosa anche a Giovanni Comisso, a Michele Prisco; è successa la stessa cosa a Raffaello Brignetti, Anna Maria Ortese, Tommaso Landolfi. Hanno vinto il premio Strega e poi sono stati un po’ dimenticati. Ingiustamente. Gesualdo Bufalino ha vinto il premio Strega ed è stato dimenticato. Ingiustamente. A Elsa Morante è successa una cosa un po’ diversa. Lei non è stata dimenticata. In compenso non è stata mai capita veramente. Colui che l’ha capita in modo più profondo, tra i pochi che l’hanno capita veramente, è stato Cesare Garboli.
Allora forse non fa male rinviare di qualche giorno la lettura del romanzo di Emanuele Trevi. Forse è un modo di dirsi che quel romanzo non scade. Che la letteratura in genere non scade: non va fuori moda, fuori tempo. Forse è anche un modo di dirsi che bisogna ricordare, che quando le luci dei riflettori saranno puntate su chi vincerà il premio Strega il prossimo anno, quelli che lo hanno vinto prima non bisogna dimenticarli. Perché è sempre ingiusto dimenticare.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 1 agosto 2021]