Vittorio Tapparini: forme e colori di una narrazione

Creature collocate oltre ogni limite di condizione consueta, di ordinaria situazione, abitanti di un mondo della differenza, libere da qualsiasi inquietudine, da qualsiasi pena, esistenze che intendono avere il senso soltanto nella loro narrazione.

La narrazione, dunque. L’organizzazione strutturale e semantica dell’opera di Tapparini ha le caratteristiche di un racconto: di un racconto di viaggio, in particolare. Che come il viaggio ha continui principi senza mai alcuna conclusione.

Sono la narrazione di una fiaba. Oppure di un’Odissea. Perché in quella loro fuga verso il mondo che non c’è, nessuno può impedire di immaginare un Ulisse e una Penelope che, dopo il ritorno dell’eroe, abbandonano Itaca per avventurarsi verso una incognita comune, verso un luogo che dimentichi la Storia, che dimentichi anche il mito.

Hanno organicità, coerenza, coesione di trama e d’intreccio, le rappresentazioni di Vittorio Tapparini. Si conformano alla logica di un racconto che vuole dire il motivo e la maniera con cui si esplicita la tensione fra la realtà e la fantasia. Ma la realtà non ha perfezione; non ha una perfezione neppure la fantasia. Allora le forme cercano l’espressione di una diversa identità, che è al di fuori dei tratti consueti, delle consuete delineazioni. Sono identità di fiaba, appunto, immaginosa e fluttuante, o di postmoderna mitologia. Si trasformano nella ricerca continua di una imperfezione che consenta loro di sfuggire all’ordine del discorso e del sillogismo.

Così tutto diventa meraviglia. Diventa metafora e allegoria che agisce sui confini dei concetti che separano la realtà dalla fantasia. Su quei confini matura la meraviglia, il fiabesco, la stravaganza, lo straordinario, il ribaltamento del senso ordinario e originario, la violazione delle categorie, la disarticolazione dei codici consueti. La combinazione di forma e di colore si costituisce come la codificazione di un linguaggio nuovo (del quale, se si vuole, si possono rintracciare le radici soltanto nella lingua della paternità).  

Per il resto, la narrazione di Vittorio Tapparini è quella di un viaggio nella lontananza. Non è il viaggio di ritorno a Itaca. E’ un viaggio verso un altrove sconosciuto, che non si potrà conoscere mai. E’ l’avventura della conoscenza che non si compie in quanto il suo orizzonte slitta, si confonde nella luce del sole. 

 Ma dove porta il viaggio, dunque, qual è la meta, quale orientamento cercano, quale richiamo ascoltano. Qui si  potrebbe anche pensare a  Fabrizio de André quando in  “Khorakhanè” dice che la stessa ragione del viaggio è viaggiare. Oppure si potrebbe pensare a Baudelaire quando dice che  i veri viaggiatori partono per partire; cuori leggeri, s’allontanano come palloni, al loro destino mai cercano di sfuggire, e, senza sapere perchè, sempre dicono: andiamo.

Hanno cuori leggeri e si allontanano come palloni, le figure di Vittorio Tapparini. Quei cavalieri, quelle spose, vanno lontano, più lontano,  e noi non sappiamo dove. Però in qualche istante ci prende la voglia di seguirli. 

E allora loro vanno: con un’allegria senz’ombra, trasognante, festosa, spensierati del tempo, del destino, dei ricordi, vanno verso la luna richiamati dalle onde del suo lucore, verso quell’astrazione, quel desiderio, quell’emozione.

Vanno verso la luna come bambini stupiti e  felici  sui cavallucci di una giostra, che come per incanto cominciano a trasvolare, e la luna non è più lontana, ma è una spiaggia di mare, un cuscino di piume, una tiritera, una filastrocca, un canto notturno, un verso di Leopardi oppure di Ariosto, oppure una pagina di Italo Calvino, oppure un’altra di Tommaso Landolfi.

Vanno verso la luna le figure di Vittorio Tapparini. Con i loro trabiccoli di fiaba e di colori. Vanno verso quel brillare di giallo che rappresenta forse l’albume, l’origine, il mistero,  il sorgere del mondo.

Se ne vanno via, senza portarsi dietro memoria, senza portarsi dietro rimpianti, amori, disamori. Se ne vanno via con una bisaccia di illusioni, dentro mattini chiari, limpidi, radiosi, con i loro sorrisi scagliati in fondo all’orizzonte.

La luna di Vittorio Tapparini genera altre lune. Perché l’universo non è soltanto uno. Gli universi sono molti  e dunque molte sono le lune. Ma soprattutto perché molti sono i pensieri, molti sono i sogni, molti i desideri, e dunque molte devono essere le lune; molte e sospese: come le nostre esistenze, sospese tra una realtà e un’immaginazione, tra una consapevolezza e una rappresentazione di noi stessi, tra la nostra razionalità e la nostra fantasticheria.

Le figure di Vittorio Tapparini sono proiezioni dell’inconscio. Sembra che emergano dal nulla, dal vuoto, sono senza peso e in un contrasto di condizioni  attribuiscono valenze alle curve, alle rotondità dei corpi.

Forse inconsciamente vorrebbero essere come palloni, come quei palloni votivi che nelle notti della festa lasciano la terra per andare verso la luna, ondulanti, leggeri, ricolmi di una fiamma e del blu.

Tapparini conforma le sue figure in modo tale da agevolarne il volo verso l’inattingibile, il misterioso: verso la loro stessa provenienza dall’inconscio che è appunto inattingibile e misterioso.

Quelle figure non si accontentano di guardare la luna; a loro non basta più contemplarla, interrogarla.

Ad un certo punto vogliono abolire la distanza, impossessarsi della conoscenza dell’oltremondo lunare. Vogliono abitarlo, divenire Seleniti, figure dell’alterità e dell’evocazione. La terra non è altro che un ponte per il transito, per il passaggio verso l’infinito.

Probabilmente è questo il senso originario, stratificato, profondo, della poetica a colori di Vittorio Tapparini. Probabilmente è l’ansia di infinito che si connota come  coscienza della finitezza dell’essere e del tutto.

Allora si riproducono, si dilatano, si avventurano nella lontananza, azzardano l’altezza.

Ma la condizione dell’ altitudine corrisponde a quella della profondità. L’una e l’altra rappresentano la dimensione della conoscenza: alta e profonda.  

Andare in alto significa anche andare in fondo. Significa cercare, esplorare, scoprire.

Eppure le creature fantastiche di Vittorio Tapparini non vogliono scoprire. Forse non vogliono nemmeno cercare, esplorare. Loro vogliono soltanto e semplicemente andare, per  sentirsi il viaggio addosso, il viaggio dentro. Loro vogliono raccontare una storia fantastica, a se stessi, agli altri. Vogliono raccontare la storia di un sogno di un viaggio per la luna, un sogno antico quanto è antica la letteratura, ogni forma d’arte. Vogliono raccontare stupende fantasie, e dirsi e dire che   sono riuscite a  conoscere l’altrove, a oltrepassare i confini del cielo, soltanto con l’ardire dell’immaginazione.

La loro narrazione è fatta di sorrisi e di colori. Sono sorrisi spalancati sull’infinito. Sono colori che si sottraggono allo spazio e al tempo. Perché lo spazio e il tempo sono soltanto quelli del sogno, sono soltanto quelli del desiderio, e forse anche quelli della nostalgia. Oppure sono lo spazio e il tempo dell’infanzia, quindi scontornati, indefiniti, vaghi, onirici, indistinti, sconfinati. Spazio e tempo infigurabili, anche indicibili. Una finzione. La quasi totale assenza delle ombre ne costituisce un’ espressione significativa.

Forse è questo l’altro elemento costitutivo nella narrazione figurativa di Vittorio Tapparini: è lo sconfinamento sintetizzato nello slargamento delle forme, è nella prospettiva che abolisce la distanza, allarga il campo della visione.

Allora loro osano costantemente lo sconfinamento, eccedono ogni limite, ogni soglia, ogni stazione, violano i perimetri, i confini, le frontiere, valicano i passi della concretezza,  vanno oltre tutto quello che è o che si pensa finito. Sono raffigurazioni fluttuanti del meraviglioso, immagini delle presenze che ci attraversano i sogni. Sono quello che non siamo e che vorremmo essere, quello che non osiamo e che vorremmo osare. Sono i desideri che abbiamo scordato.

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