La riscoperta dei libri di carta. Il pensiero forte ha i suoi templi

Si può studiare  dentro stanze tecnologiche, ma con i libri di carta. Ora come allora.

Notti sui libri di carta. Sottolineati a matita, a penna, con gli evidenziatori gialli, verdi, rossi.  Libri magari comprati a metà prezzo, magari ricevuti in prestito da chi si è tolto già quell’esame dal groppone.

Con i libri di carta sono state innalzate cattedrali di conoscenza. Venga tutto il resto, ma quelle cattedrali non si possono ignorare, non si possono destinare all’abbandono.

Anche perché ogni cosa ha la sua natura e la natura del libro appartiene alla carta. Alla carta appartiene la natura della scrittura: alla pietra e alla carta. Le tavole della Legge e i graffiti nelle grotte di Badisco rappresentano una grande metafora della relazione connaturata tra la pietra e la scrittura.

Con la tecnologia – che sia benedetta per i servizi che rende agli uomini e alle donne ( forse ai bambini ne rende un po’ di meno)- si può fare tanto, si può fare molto. Ma che cosa mi porto sull’isola deserta? Dove ci sono solo io e il mare e il pensiero, che cosa mi porto? Un e-book, un computer, un altro di questi strumenti? Certo. Ma quando si scarica la batteria come mi arrangio? Come farò a leggere e rileggere l’Odissea o la Bibbia, o la Terra desolata, o Robinson Crusoe, o Pinocchio?

Ragionamenti estremi, si dirà. Può darsi. Però alcuni scienziati dicono che  la possibilità di trovare informazioni in rete sta facendo diminuire le nostre capacità mnemoniche. Che gli studenti fanno fatica ad esprimere compiutamente un pensiero in forma scritta perché sono abituati alla funzione del completamento automatico su computer e cellulari. Che il computer affina la nostra abilità di multitasking ma peggiora la capacità di filtrare informazioni. Sono degli esempi.

Se sia vero o sia falso non posso saperlo. Lo si chieda agli scienziati.

Mi permetto solo di pensare che sia necessario innanzitutto procedere in modo graduale e poi contemperare.

Nessuno, suppongo, si azzarderebbe a dare la bicicletta a un bambino che non ha ancora imparato a camminare. Nessuno pensa, suppongo, che l’esistenza dell’auto escluda l’uso della bicicletta o delle gambe. Allora non si tratta di pensare gli strumenti  in modo alternativo, ma di integrarli in ragione della funzione che hanno e dell’obiettivo.

Accade spesso che il nuovo si proponga come la soluzione del problema. Ma se è una macchina a risolvere il problema, poi non si capisce come fare a risolvere quello stesso problema quando succede che  la macchina, per un caso o per l’altro,  non funzioni.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, domenica 18 luglio 2021]

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