Il sottotitolo delimita la porzione di opera pirandelliana presa in esame dalla studiosa galatinese. Si tratta di due testi caratterizzati da una medesima trama declinata nei due modi differenti del romanzo (i “Quaderni”) e della commedia umoristica (“Ciascuno a suo modo”). Dopo una introduzione dal titolo pirandelliano Premessa antifilosofica a mo’ di scusa (pp. 5-16), la divisione del volume in due capitoli segue questa distinzione: al romanzo sono dedicate le pp. 17-85, al dramma le pp. 87-115. Il titolo è tratto da una battuta del capocomico nei Sei personaggi in cerca d’autore (“Veniamo al fatto, veniamo al fatto, signori miei! Queste son discussioni!), nella quale Pirandello condensa, col piglio umoristico che contraddistingue la sua opera, il disappunto nei confronti di chi lo accusava di cerebralismo, ovvero di indulgere un po’ troppo a quelle che il summenzionato capocomico chiama le inutili “discussioni”. Benedetto Croce, che in questo dava ragione al capocomico, fu cattivo maestro, non comprendendo che tali “discussioni”, come scrive Stasi, in realtà sono “verità… funzionali alla costruzione della fabula” (p. 23) e, dunque, essenziali alla sua comprensione. In Pirandello la speculazione filosofica è al servizio della trama, le tesi fondate all’apparenza su principi astratti sono al servizio della rappresentazione letteraria, non importa se narrativa o drammatica.
Stasi è maestra nel seguire come un segugio “la parabola del narratore assassino [Serafino Gubbio], che racconta la propria storia per occultare la propria colpa, esibendo le catene che lo asserviscono alla macchina per negare la responsabilità individuale del suo comportamento…” (p. 114). Come un detective di un romanzo giallo, Stasi ripercorre passo passo la trama alla ricerca della verità, mai separando Serafino-personaggio da Serafino-narratore, anzi collazionando discorsi e azioni e deducendo da ogni incongruenza la verità celata: “… il messaggio veicolato dal discorso diretto di Serafino è doppio, così come è doppio il modello comunicativo da lui adottato: per semplificare, la sua argomentazione logica dice qualcosa, ma la sua esemplificazione concreta dice anche qualcos’altro” (p. 65). Il presupposto è che “un racconto possa dire o lasciare intendere qualcosa che il suo narratore non intendeva né dire né lasciare intendere” (p. 71). Il compito sopraffino del critico è proprio qui, nel non lasciar mai cadere il sospetto, nella ricerca minuziosa delle prove a carico, nel capire quanto il testo non lascia a una prima lettura capire. In un mondo fondato sulle apparenze, sulle “discussioni” e sulle falsità che ne derivano, il fine della letteratura coincide col fine della critica, ed è quello di ricercare la verità.
Ne risulta la convinzione profonda, che Stasi rinviene in Pirandello, e che noi troviamo riflessa nello stesso lavoro critico di Stasi, che sia legittimo e doveroso scommettere, sulle orme del grande drammaturgo (ma qui gioca un ruolo importante anche la lezione di Leopardi), “sulla possibilità di creare la cosa nominandola, di un mythos che imponga la concreta evidenza della sua invenzione contro il cerebralismo prevaricante e astruso del logos” (p. 11). Il che vuol dire, dinanzi ai disinganni e alle illusioni della vita e ai falsi discorsi che ci facciamo per ingannare noi stessi, che bisogna credere ancora e forse di più nella letteratura, ovvero, come afferma Stasi, nella “vocazione mitopoietica della scrittura” (p. 9), che, se non crea una realtà alternativa (quella che piacerebbe a noi), almeno rende intellegibile questa nella quale viviamo.
Utile alla fine l’Indice dei nomi. Manca una bibliografia essenziale sull’argomento, che il lettore dovrà desumere dalle note a piè di pagina.
[“Il Paese Nuovo”, domenica 17 giugno 2012, p. 12 col titolo “Veniamo al fatto, signori miei”].