di Antonio Errico
Nella prefazione all’edizione italiana di quel classico che è Le storie che curano, James Hillman scriveva che a partire da Emanuel Kant, l’attività estetica è stata caratterizzata da un criterio di inutilità. “Nessuno scopo oltre a se stessa, certamente nessun intento di cambiare qualcuno”. Nessuno sostiene che l’arte sia salutare e contribuisca a risolvere i problemi, diceva. Si tratta di quel fare fine a se stesso che i greci chiamavano poiesis.
E’ vero, in fondo. L’arte non cambia nulla, non risolve i problemi. L’arte non serve ai fini pratici, è sostanzialmente inutile. A cosa possono servire Caravaggio e Bernini. A cosa possono servire Beethoven e Leopardi. A cosa servono certe scene di “Così lontano così vicino” di Wim Wenders, certi moti ondosi di Carla Fracci e di Rudolf Nureyev, la “Tosca” di Giacomo Puccini. A cosa serve Cent’anni di solitudine di Gabriel Garcìa Màrquez. Non risolvono i problemi, non servono a niente.
A meno che non si pensi che l’arte possa cambiare il modo di guardare un paesaggio, di guardare il volto di un altro, oppure il proprio volto allo specchio.
A meno che non si pensi che l’arte possa “educare” a guardare oltre la superficie delle cose, a cercare di capire cosa c’è dietro, cosa c’è dentro, a scoprire quali sono i nuclei delle storie, i loro motivi essenziali, i significati più profondi.
A meno che non si pensi che l’arte possa scongiurare l’indifferenza, il disinteresse per la bellezza, la noncuranza.