Come ogni eroe, si fa interprete e difensore di valori assediati dal qualunquismo, dal disimpegno, dal disinteresse, dal pragmatismo, dall’indifferenza. Come ogni eroe agisce sul confine tra il Bene e il Male, nel passaggio di epoche, nel tempo della crisi, quando si avverte anche il bisogno di una utopia, di un’aspirazione ideale, quando si cerca un orientamento esistenziale e sociale. Come ogni eroe moderno conosce i propri limiti, le fragilità, i vizi, le passioni, le contraddizioni. Avverte la precarietà, avverte l’effimero. Come ogni eroe moderno ha perfetta consapevolezza dell’inevitabilità della solitudine. Perché Tex è solo. Nonostante i suoi pards, Kit Carson, Kit Willer – il figlio di Tex e di Lilyth – , Tiger Jack, guerriero Navajo e fratello di sangue, Tex è solo. Nella notte, davanti al fuoco del bivacco, la sua solitudine ha l’aridità del paesaggio, la sconfinata tristezza della prateria.
Tex è un personaggio stratificato di esperienze che riaffiorano come fantasmi che a volte lo inquietano, a volte lo consolano.
Non saprei dire se il motivo per il quale questo personaggio abbia attraversato tutto il secondo Novecento e i primi vent’anni del secolo nuovo sia da ricercare nella costante instabilità delle condizioni sociali che determinano, per conseguenza naturale, una instabilità delle certezze personali. Né saprei dire che grado di positività o di debolezza si possa leggere nel suo essere trasversale alle generazioni. Però, se faccio un riferimento alla letteratura italiana del secolo scorso non riesco a trovare (io, almeno) un personaggio che sia riuscito a costituirsi appunto come riferimento di padri e figli e figli dei figli.
Ma questo è un problema che riguarda i sociologi. Noi fummo solo affezionati e rapiti lettori, ai tempi dell’adolescenza e della gioventù ancora acerba.
Poi si potrebbe continuare con un altro eroe: eroe del tempo lungo, della leggerezza, dell’immaginario, della fantasia, del trasognamento. Un eroe di giardino. Povero. Dimesso. Abituato alle molte sconfitte, che si entusiasma per poche, piccole, domestiche vittorie, che cerca da se stesso la sfortuna, impaziente, un po’ nevrotico. Attratto dalle situazioni complicate, abilissimo nel trovare soluzioni, spesso senza sapere nemmeno come, in costante conflitto con il mondo, o semplicemente con qualcosa che non funziona: il lavandino che sgocciola e gli impedisce il riposino, la nuvola sulla testa (soltanto sulla sua) che gli rovina la vacanza, la macchina che si guasta. Succede tutto a lui.
A Paolino Paperino.
Ma a pensarci bene, Paperino forse è l’unico personaggio dei fumetti che ci rassomiglia. E’ umano, troppo umano. Deve affrontare la vita di ogni giorno con tutte le sue incertezze, le trappole, gli imprevisti, e ogni giorno si stupisce, si arrabbia, si addolcisce, è tenero, insicuro, determinato, fantasioso, a volte si scoraggia, a volte si entusiasma, non gli riesce mai nessun programma, e allora si affida al caso perché sa bene, lui così inconsapevolmente saggio, che è il caso che governa l’universo, e che a nulla serve tentare di mutare il modo in cui deve andare l’universo.
Ma nonostante la sua saggezza – oppure proprio per la sua saggezza?- Paperino è un grande sognatore: ad occhi chiusi o aperti, sogna il mondo come lo vorrebbe, se lo disegna, se lo costruisce, e lo abita, incantato, finchè non sopraggiunge il trambusto che lo sveglia anche se non sta dormendo, finchè zio Paperone o i nipoti o le urla del vicino non lo riportano con le zampe arancioni sulla terra.
Sa che è così che va la vita, Paperino. Sa che si sogna e ci si sveglia e che appena si può si ritorna a sognare perché è il sogno che dà la forza di stare svegli e di confrontarsi con tutto quello che accade a te stesso, agli altri.
Esattamente come lo sa ciascuno di noi.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, domenica 4 luglio 2021]