Fondamentale – essenziale – si rivela Il pensiero poetante (Feltrinelli, 1980; poi 2006 in edizione ampliata con in appendice la conferenza leopardiana tenuta al Collège de France nel marzo del 2003): saggio su Leopardi, attraversamento di quella foresta vivente di libri e di sogni che è lo Zibaldone, analisi e riflessione sui sentieri che costituiscono il movente e l’orizzonte della sua opera: il desiderio, la ricordanza, l’infinito.
Con Baudelaire, Giacomo Leopardi è per Antonio Prete l’autore di una vita; non oggetto di studio accademico, ma compagno di strada, ombra che parla o che significa silenziosamente. L’uno e l’altro sono l’espressione essenziale della modernità nelle sue condizioni di lacerazione, ossimoro, contraddizione. L’uno e l’altro costituiscono la dimensione di una poesia che nel suo linguaggio accoglie l’essere nel mondo e per il mondo, che offre il lessico per decodificare e comprendere la commedia e la tragedia, la verità e la menzogna, la realtà e la finzione dei personaggi che si avvicendano sulla scena del tempo.
È questo autore – sono questi autori – di una vita che consegnano a Prete la mappa per muoversi nei territori dell’esistere e del leggere, due percorsi paralleli che vanno verso lo stesso orizzonte. Ecco, dunque, il senso della comparazione: individuare nella fisionomia delle creature che abitano la letteratura, i tratti connotanti e quelli distintivi, le differenze e le analogie nei modi di pensare il mondo e di rappresentarlo, nelle maniere di confrontarsi con le certezze delle conoscenze e con gli stupori dell’ignoranza. Comparare significa ridurre la distanza tra le cose e la loro denominazione, tra il senso del vivere qui o altrove, ora o allora, e la traduzione (sempre approssimativa, sempre infedele) che se ne fa con le parole.
Comparare per Prete vuol dire fare continua esperienza di esplorazione di luoghi di parole costantemente trasformati dalla realtà delle cose, dall’accadere degli eventi. Forse vuol dire ostinarsi a dimostrare la convinzione che ogni destino e ogni storia, anche quello che può sembrare unico, quella che sembra irripetibile, sono già scritti in un libro che non conosciamo. Forse conservato gelosamente tra gli scaffali del labirinto che era la biblioteca di Borges. Forse perduto nel saccheggio dei manoscritti di San Nicola di Càsole.
C’è un discrimine nella scrittura di Antonio Prete, una soglia, un confine, che non si riesce a distinguere: i suoi saggi hanno spesso l’andatura di un racconto, talvolta di un racconto hanno anche quelle digressioni che, come diceva Laurence Sterne ne La vita e le opinioni di Tristram Shandy, sono il sole, la vita e l’anima di una lettura; i suoi racconti, i frammenti, le annotazioni, le evocazioni, le riflessioni che tramano la scrittura dell’Imperfezione della luna (Feltrinelli, 2000), d’altra parte, contengono non di rado quegli esiti di ricerca specifici di un saggio.
Non si
riesce a distinguere il genere, dunque: saggio raccontato, racconto saggistico.
Forse non si riesce a distinguere perché per la scrittura il genere costituisce
una sovrastruttura svincolata dalle motivazioni, dalla natura, dalle
destinazioni della scrittura, è funzionale soltanto a qualcosa di estraneo,
come i concorsi a cattedre universitarie, per esempio.
Per Antonio Prete, il genere è, casomai, soltanto una derivazione dello stile e delle letture, di altre scritture, di ricerche, riflessioni, penna e foglio. È per questo, allora, che i generi si confondono
Un albatro
che vola, principe dei nembi, e poi viene ridotto ad oggetto di una beffa,
pretende esegesi, ermeneutica e racconto. C’è esegesi, ermeneutica e racconto
nel saggio su L’albatros di Baudelaire (Pratiche, 1994).
C’è esegesi, ermeneutica e racconto, poesia su e dentro altra poesia nella
traduzione de Les fleurs du mal, Feltrinelli, 2003). Il senso radicale
di questo lavoro di traduzione e del mestiere tra arte e artigianato della
parola del traduttore (di cui Prete aveva detto in L’ospitalità della lingua,
Manni, 1996) viene riferito – direi rivelato – dal traduttore stesso in tre
righe della nota.
Dice Prete: la traduzione è una forma di scrittura, come la narrazione, il saggio, la poesia stessa; è una scrittura che nasce all’ombra di un’altra scrittura. È un’esperienza esistenziale, un cammino e un passaggio, è un confronto e uno specchio, cognizione del limite, azzardo e umiltà.
Ma soprattutto racchiude, rappresenta, simboleggia la condizione di un’apertura, di tensione, di una predisposizione all’ospitalità, all’intreccio, al molteplice, alla compartecipazione, al dialogo, alla reciprocità.
Allora. Sarà una coincidenza, un caso; sarà un indizio; però: uno degli interpreti e traduttori più fini e accreditati di Baudelaire è Antonio Prete. Un altro fine e accreditato traduttore del poeta francese è stato Vittorio Pagano. Due percorsi esistenziali e professionali diversi: Prete accademico, studioso; Pagano maestro elementare, puro poeta lunare. Ma l’uno e l’altro con la stessa origine in una terra tra due mari, dove molte razze sono arrivate e ripartite, o si sono fermate.
Su Pagano traduttore di Baudelaire, Antonio Prete ha scritto una nota nel numero monografico (1986) di Pensionante de’ Saraceni. Inoltre, Pagano è stato uno dei quattro traduttori italiani di Baudelaire ai quali Luigi De Nardis nell’Avvertenza alla sua traduzione (anch’essa Feltrinelli, 1961) risparmiò bacchettate sulle mani. Gli altri erano: Diego Valeri, Alessandro Parronchi, Mario Praz.
Dell’ospitalità, dunque, si diceva. Sarà una coincidenza, un caso. Sarà un indizio. Ma tant’è. «Questa figura, mediterranea e nomade – scrive Prete – ci dice di uno spazio-tempo in cui colui che ospita e colui che è ospitato si incontrano partecipando al convito o dialogo».
Ma non è questa, in fondo, la funzione di ogni forma di letteratura? Non è raccogliere le voci dell’altro, prestare all’altro una voce, rendere prossimo ogni lontanissimo altrove, portare ogni altrove tra le righe di un foglio, scendere «fino in fondo all’ignoto per incontrare il nuovo»?
Se è altro da questo, forse la letteratura serve a poco. A niente, forse. E a poco, forse a niente, se è altro da questo, serve la critica, la filologia.
Perché la critica può essere – o dev’essere? – anche passione. O, più esattamente, la rappresentazione di una passione, il suo racconto o almeno il suo resoconto; forse anche una sorta di discorso amoroso nelle forme di cui diceva Roland Barthes.
È anche questo, la critica, per Antonio Prete; sono anche queste le ragioni dell’ulteriore confronto con Charles Baudelaire che propone ne I fiori di Baudelaire. L’infinito nelle strade (Donzelli, 2007): la passione che si ravviva per la scoperta di un senso nuovo o rinnovato; un altro fondale semantico da scandagliare; una scoperta (o riscoperta) di elementi e situazioni testuali da mettere in relazione, da comparare con altri elementi e situazioni dello stesso autore oppure di altri, con dimensioni interiori, atmosfere poetiche, temperie culturali. Ma anche con la propria idea di letteratura, poesia, lettura, interpretazione, narrazione, comparazione, scrittura.
Esiste un’espressione, quasi una teoria della critica, di Baudelaire «che a lungo mi ha accompagnato e ancora mi accompagna, quasi come cartiglio esibito a testimonianza di una scelta di campo», dice Antonio Prete, ribadendo quelli che sono i sentimenti che costituiscono l’origine e il perdurare della passione. Il poeta dei fiori del male sosteneva che la critica per essere giusta dev’essere parziale, appassionata, politica, «ossia fatta da un solo punto di vista, ma tale che apra il massimo d’ orizzonte possibile».
Sono tre modi di pensare che determinano e improntano i modi di agire e di pensare il tempo e lo spazio, gli esseri e le cose, i sogni e le storie e che quindi orientano e conformano i metodi e gli strumenti di lettura di un testo e di scrittura degli esiti della lettura. Perché per Antonio Prete non c’è differenza tra un suono, un profumo, un colore, un ricordo o un rimpianto o un’emozione, e la parola, il verso, il ritmo, uno dei possibili sensi, uno degli innumerevoli richiami della poesia, delle sue sirene, delle sue seduzioni.
L’atteggiamento critico di Antonio Prete è quello di un viaggiatore che continuamente torna ad esplorare luoghi conosciuti perché sa perfettamente che ogni volta troverà qualcosa di nuovo: un odore, il colore di un tramonto, la tenerezza o l’inquietudine di uno sguardo, una variazione di ritmo, una percezione di timbro, un diverso sentimento della parola, una propria relazione con il tempo e con lo spazio, una diversa considerazione del lavoro e dell’immaginazione, che sono, per Baudelaire e per Prete, quelle condizioni che consentono «di raccontare il possibile, di abitare il possibile».
Una critica parziale, appassionata, politica, dunque. In Sottovento (Manni, 2001) Prete esplicita le implicazioni e le conseguenze di questi tre termini. Il critico è parziale – dice – perché ha consapevolezza della relatività dei sensi che raggiunge o a cui si rende prossimo; è appassionato quando trasferisce – assorbe, quasi – nella sua esperienza l’avventura della lettura del testo; ha una caratura politica se si orienta non solo verso i possibili lettori ma anche verso quella dimensione in costante trasformazione, dal carattere talvolta faticosamente decifrabile, alla quale si dà la definizione di storia.
In questo suo riattraversamento dei territori baudelairiani, Prete si risofferma ad indagare paesaggi e particolari che per decenni ha osservato e scrutato, forse non in modo molto differente da quello che, consciamente o inconsciamente, si ritrova ad adottare quando ritorna ad osservare o a scrutare i paesaggi e i particolari dei luoghi salentini dov’è nato, che non di rado rappresenta in pagine di prosa.
Nella sua esperienza di critico parziale, appassionato, politico, Prete ha vissuto la fortuna di alcuni incontri: De Sanctis con i suoi registri raffinatissimi; le posizioni della “nouvelle critique”, la scuola di Francoforte e la cosiddetta critica dei poeti, la tradizione filologica e la tensione verso l’esegesi.
Questa pluralità di esperienze risulta evidente nella continua, sistematica apertura di varchi che Prete mette in atto nel suo discorso critico, rinviando sempre una tesi, un’ipotesi, una suggestione, un’idea, una proposta, ad un altro di questi stessi elementi introdotti in precedenza o che vengono annunciati per uno sviluppo successivo. Non c’è mai un’affermazione definitiva, un tentativo o una tentazione di chiudere la partita della lettura. Anzi: lascia al lettore quasi la consegna di continuare, secondo il proprio modo, la riflessione sulla parola dell’autore o del suo critico.
In realtà questa è una condizione che non appartiene alla natura del critico ma a quella del narratore. Perché Antonio Prete è innanzitutto (non soprattutto) narratore. Si potrebbe dire che “in principio” è il narratore. La critica narrata è la condizione che fa la differenza, che costituisce una cifra di originalità e di qualità nei processi e negli esiti del suo lavoro. La prova inconfutabile è data dalla circostanza che molti dei suoi saggi su Baudelaire o su Leopardi, per esempio, possono essere letti anche da chi non frequenta assiduamente Baudelaire o Leopardi. Ma che è motivato a frequentarli dopo aver letto i racconti che Prete fa dei loro testi. Probabilmente un critico di cose letterarie non può avere una più alta ambizione o missione.
Che la poesia appartenesse alla natura di Antonio Prete, che improntasse e conformasse il suo modo di confrontarsi con la vita, di pensare l’universo, di ascoltare il tempo, di configurare lo spazio, di sentire le creature, di misurare le esperienze, di vagliare le conoscenze, era una cosa che si capiva – anche facilmente – da qualsiasi passo di critica o frammento di prosa, dalle scelte lessicali, dall’andamento della sintassi, dal taglio dello stile.
Che la sua fosse una direzione obliqua, trasversale, ulteriore, multidimensionale e altra rispetto ai codici e alle codificazioni della critica letteraria, della comparazione testuale, rispetto ai canoni tradizionali della scrittura saggistica, era una cifra che risultava evidente nell’impostazione del discorso, nell’articolazione degli argomenti, nella predilezione per i frammenti, nella forma che portava i contenuti, essa stessa sostanza, portatrice di senso, rielaborazione di realtà, elaborazione di immaginario, reinvenzione del passato, figurazione di memoria, riflessione sul tempo e sulla scrittura.
Così non arriva inaspettato il libro poetico che s’intitola Menhir (Donzelli, 2007). È coerente con tutta la sua scrittura. È contiguo, parallelo.
Perché
Antonio Prete è attratto dall’ombra delle cose, dal loro riflesso, dalla loro
riverberanza, dalla stratificazione di memoria che si portano dentro, è
attratto dal disegno che si compone di ogni scaglia, di ogni frammento di vita
e di universo, di realtà e di sogno, dal silenzio delle creature e dal loro
ininterrotto racconto, dalle voci dentro i vichi, dal richiamo di una madre,
dal desiderio di un ritorno ad un tempo forse mai finito, o forse mai venuto.
È attratto da tutto quello che non si può pronunciare, perché appartiene solo
ad un soffio originario, alle pulsioni della natura, ad un’increspatura di
mare, ad un movimento del vento, ad un trasalimento, un batticuore, un segreto,
leggerissimo o schiacciante tormento, un’idea di poesia che è come sangue nelle
vene, un rapporto con le storie che è come lievito esistenziale, una relazione
con la terra profondissima e scandita da partenze e da ritorni.
«Perché amo le forme che non sono, / la loro trasognata trasparenza, / Il
battito di luce che le scuote, / visibile soltanto nei pensieri». È in questa
dimensione oscillante fra realtà e immaginario, nel tempo sospeso tra
sentimento e ragione, nello spazio determinato dalla percezione di un mondo
composto soltanto di linguaggio, regolato con il respiro che hanno le parole,
la radice della poesia di Antonio Prete. È nel pensiero che si rende visibile,
che si manifesta con il suo ritmo; è nello sguardo che incontra la luce,
nell’emozione per gli anni che vanno; è nella voce di madre che scende dalla
luna, in una domanda che torna per consolare e ossessionare («che cosa
dimentico, madre, che cosa dimentico»), nell’ombra che si spande sulle creature
e sulle loro storie, nell’abbaglio e nella luce smorta delle stagioni.
La poesia di Prete è nel tremore dell’infanzia, nei suoi incantamenti, nelle scoperte di luoghi che si distendono nelle pagine dei libri e di esistenze fatte di pensiero e d’inchiostro.
Nelle pagine di un altro libro, Prete scrive: «della poesia, come dell’amore, non si può dare una definizione. Della poesia, come dell’amore, si può avere, però, esperienza».
L’esperienza della poesia non è dissimile dall’esperienza del vivere; anzi, talvolta diventa indistinguibile, è esattamente la stessa cosa, è l’esistenza che si fa «alfabeto, / suono, verbo di presenza»; talvolta è preesistente alla parola, è pura percezione della significanza della natura, del fiato della terra, del cuore delle cose, della bellezza che si disfa, dell’armonia e del caos che sono all’origine del mondo, dell’incognita sulla sua evoluzione. E poi – semplicemente – dell’acqua di una pioggia breve, del frastuono delle cicale nel vespro, dello scintillio del mare, della luce che divora gli alberi, del pulviscolo, del silenzio che dorme nelle sillabe.
Semplicemente, dunque. La poesia di Antonio Prete cerca la semplicità d’espressione che costituisce forse l’unica modalità – l’unico espediente? – con cui si può tentare di dire l’indicibile, di raccontare – e soprattutto raccontarsi – l’incomprensibile dell’infinito e dell’eterno, di medicare la ferita della lontananza.
Come se dall’alto di una torre sul mare scrutasse la linea d’orizzonte lungo la quale si muovono figure provenienti dal tempo e dall’emozione, profili di creature, memorie di storie, così Antonio Prete scruta temi e testi che stringono tutto il lessico della lontananza.
Ancora con quella sua scrittura traslucida, con l’incedere di prosa dalla leggerezza calviniana, con la misura del frammento che intende raggrumare il concetto, sintetizzare la sovrabbondanza di immagini, rappresentare condizioni dell’esistere e forme del pensare, questa volta il saggista di origine salentina che ha cattedra di letterature comparate a Siena, elabora un Trattato della lontananza (Bollati Boringhieri, 2008).
Qui c’è il tempo, lo spazio, lo specchio del cielo; c’è la bellezza, la risonanza, il paesaggio, la luce, la relazione tra il lontano e il vicino, l’addio, l’esilio, la nostalgia, lo sguardo del poeta che perfora l’apparenza per arrivare al punto che evoca un’emozione, un sentimento, esprime la tenerezza di un rimpianto.
Ma in questo saggio, poi, c’è un rispecchiamento dell’oggetto indagato con il metodo d’indagine: della lontananza con la scrittura, dei testi con la critica. C’è compenetrazione, simbiosi, mimèsi tra l’espressione e le cose, i sensi e i segni, i significanti e i significati.
Senza esplicitare, Prete lascia scorrere lungo tutto il saggio la convinzione che per comprendere occorre porsi nella lontananza: osservare le epifanie della natura e dell’arte nelle loro sfumature, nell’ombrosità, nella trascoloranza, nell’incertezza, nell’oscillazione tra finito e infinito, verità e menzogna, realtà e finzione, con la percezione e l’intuizione che precedono l’analisi e la ragione.
Così in questo saggio, al critico, all’interprete, interessa la posizione che consente la visione complessiva oppure la linea di confine, la discriminazione, il punto dove «l’estremo e l’informe, l’oltre e l’ignoto si incontrano, generando la fluttuazione del possibile».
Il presente è la soglia da cui ha cominciamento il ritorno verso la lontananza della propria storia; senza questa condizione non ci sarebbe appartenenza, senso, destino, non ci sarebbe esperienza, né tensione verso l’espressione di sé, la narrazione, la comparazione di universi e di parole.
Come spesso accade nella sua scrittura, Prete parte dal qui e dall’ora per procedere in direzione dell’altrove e dell’allora. Fino ad arrivare al tempo dell’infanzia: nella lontananza interiore che si è fatta tempo e immagine, memoria e mito, silenzio e parola, esperienza ed emozione, sogno e scrittura. Si è fatta respiro, esperienza, coscienza del tempo perduto, dell’irreversibilità, dell’irripetibilità.
Bisogna tenere aperto lo spazio della nostalgia, dice Prete, dunque. Per poter accogliere ritmi voci personaggi pensieri presentimenti desideri.
Fino ad arrivare in un luogo: il paese che è laggiù, dice. Quaggiù. Penisola. Due mari. Pianura. Forme di fata morgana. Finibusterrae. Qui la lontananza ha profili incerti, tremolanti, indefiniti. Qui è tensione allo sconfinamento, al superamento di ogni soglia, ogni frontiera. Qui la pianura di terra e la distesa del mare raddoppiano la percezione di lontananza. Sono, forse, il suo stesso concetto, il suo stesso senso. L’origine dell’essere che avviene in un luogo matura una lontananza nel tempo e nello spazio che genera un’ansia di ricerca di situazioni e condizioni somiglianti con quell’origine.
Chissà se non è quest’ansia che costituisce la motivazione profonda, il movente psicologico, la categoria culturale di una critica letteraria che si fonda sulla comparazione.
Il paese che è laggiù richiama il nostos di Antonio Prete, la sua nostalgia. Questo è il sentimento, questa la sua poesia della lontananza.
***
La poesia che azzera le distanze
C’è un punto nel libro poetico che Antonio Prete, originario di Copertino e docente di Letterature comparate a Siena, pubblica in questi giorni da Donzelli con il titolo Se la pietra fiorisce in cui teoria e prassi di poesia trovano una sintesi sostanziale, una rappresentazione linguistica che costituisce un’espressione di identità inequivocabile, netta. C’è un punto in cui l’esistenza e la lingua, l’origine e la parola, il senso e l’esistenza si congiungono fino all’identificazione, all’azzeramento della distanza e della differenza tra natura e cultura, alla cancellazione di ogni separazione tra l’esistenza e la letteratura. Il punto è nella conclusione: in una poesia che s’intitola “Màtrima, lu ientu”, l’unica in dialetto salentino, probabilmente non a caso posta alla fine, cioè al termine di un percorso verso l’altro e di un processo di discesa – di sprofondamento – dentro sé.
La madre e il dialetto. L’una e l’altro archetipi. Lingua madre e madre naturale. L’una e l’altra condizioni di un cominciamento della vita. Universi di memoria. Lievito dell’essere e dell’esprimersi, dell’espressione dell’essere, dell’essere nell’espressione, connaturato ad essa. La parola che da fiato si fa corpo e il corpo che diventa fiato, vento, lenzuolo d’aria, trascoloranza, sussurro che sale nel ricordo come un’onda. Che, soprattutto si fa racconto, storie che hanno profumi d’Oriente.
Quest’ultimo libro di Prete è poesia del vento e della voce. Sembra che siano questi due elementi a dare movimento al mondo. Un vento che attraversa il paesaggio, che anima le ombre, che scompiglia la luce. Anche un addio è vento. Una voce che proviene dalle profondità del tempo e si fa testimonianza della presenza, restituisce vita alle creature scomparse, rende visibile l’invisibile. E’ una voce assoluta, superiore, quella che alita nella poesia di Prete. Oltrepassa materialità e significato. E’ puro suono, spirito, anima, pulsazione, modulazione cosmica. Prodigium che scende e corre nei pensieri come acqua nel solco delle zolle secche, che si spande fino alle radici di un’esile pianta.
La parola viene dopo la voce: è la voce che diventa struttura, forma, espressione, significato, poesia: poesia come condizione dell’essenzialità e dell’assolutezza della parola, superamento del limite consueto e convenzionale, azzardo di senso che consente la penetrazione di significati che sfuggono alla comune grammatica dell’interpretazione, che si apre alle possibilità dell’analogia. Sono le parole che si affollano nella foresta della lingua – dice Prete- che si cercano, si accoppiano, che hanno sulla pelle la brina della notte, che sono l’ombra di quel che è assente. La parola annoda “in un solo indecifrato senso/il fiorire e il morire”.
Un indecifrato senso, dunque. Forse la poesia per Antonio Prete è l’ansia di decifrare quel senso misterioso e, al tempo stesso, un modo per placare quell’ansia, una consolazione della consapevolezza che l’inspiegabile resterà inspiegabile comunque, che l’indicibile resisterà in ogni caso a qualsiasi assalto o inganno di metafora. Perché, poi, c’è sempre qualcosa al di là della parola e oltre il silenzio; perché “l’albero e il vento hanno la stessa essenza, / la pietra e il mare lo stesso respiro”.
Nelle pagine di questo libro di Prete affiora, di tanto in tanto, quella stessa inquietudine che Hugo von Hofmannsthal manifesta nel finale della sua Lettera di Lord Chandos, quando dice che la lingua in cui gli potrebbe essere concesso non solo di scrivere ma anche di pensare, non è il latino, né l’inglese, né lo spagnolo, né l’italiano, ma quella lingua di cui non conosce una sola parola, quella in cui le cose gli si manifestano e con la quale, un giorno, cercherà di rispondere ad un giudice sconosciuto.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 4 aprile 2012]
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Il cielo nascosto. Il teatro degli affetti che vive dentro di noi
Come l’universo, anche il testo, per Antonio Prete, è infinito. Nel testo convergono e si riuniscono e si addensano storie, memorie, concetti, parole, suggestioni, emozioni, sentimenti, letture, interpretazioni, linguaggi, trasalimenti, fantasticherie, sguardi, perplessità, riflessi di colori, analisi approfondite, lucidissime, scandagli delle profondità di un verso, di una prosa, di un’immagine dell’infanzia, l’eco di una voce che canta nel meriggio fra le foglie di tabacco. Ogni elemento rimanda ad altri elementi uguali o diversi, ogni cosa rassomiglia ad un’altra o se ne distacca nettamente. Ancora una volta Antonio Prete si muove sui confini fra il saggio e la narrazione; al saggio appartiene l’argomentare, mentre il passo, la forma, lo stile, appartengono alla narrazione. Ancora una volta tesse con sapienza, con leggerezza, con accuratezza, con un gesto amoroso una parte della sua lunga conversazione con i testi. L’ultimo libro è una parte di questa conversazione: Il cielo nascosto. Grammatica dell’interiorità, edito da Bollati Boringhieri. Non è necessaria una lettura che proceda dal principio alla fine. Si può aprire una pagina a caso e ci si ritrova sprofondati nell’ermeneuticadelle figure e delle parole che dicono, raccontano, i significati di dentro; si assiste alla scena di un corpo a corpo delicatissimo ma impietoso anche con quelli che sono i sensi dell’interiore che si sottraggono non solo alla definizione, ma anche alla dicibilità.
Ma il percorso critico di Prete ha sempre avuto un movimento trasversale, obliquo, interdisciplinare; è stato sempre attratto dall’andare lungo gli argini. Il suo insegnamento universitario di letterature comparate è stato la perfetta coincidenza tra definizione giuridica e connotazione metodologica. Ogni sua interpretazione è sempre un viaggio che orienta lo sguardo ora sul paesaggio ora su un particolare del paesaggio; lo sguardo osserva, scruta, indaga, discerne, individua l’elemento che di quel paesaggio si costituisce come condizione unica, irripetibile, essenziale. Parte da lì, da quella irripetibilità, e tesse riferimenti provenienti da sfere diverse del sapere, raduna testi e autori, li chiama a testimoni delle sue rappresentazioni del pensiero. Come in questo libro, che si confronta con una materia più profonda di ogni abisso, con i misteri dell’anima. Come in questo viaggio, nel quale chiama per compagni Agostino e Calvino, Montaigne e Joyce e Proust, e tanti altri, e poi i compagni di sempre, quelli con i quali ha attraversato tutta la vita: Leopardi e Baudelaire. Si apre una pagina a caso, dunque, e ci si ritrova coinvolti nelle riflessioni sulle relazioni fra poesia e cosmologia, per esempio, sul legame fra il sentire umano e la sua rappresentazione linguistica, sul rapporto profondo fra il sentire e il mondo, fra lo spazio dell’interiorità e gli spazi stellari. Si apre una pagina a caso e si fa esperienza mediata della parola silenziosa nella sua significanza di meditazione, di indagine sul sé, di interrogazione intorno agli accadimenti della coscienza. Una parola interiore. La parola della scrittura è parola interiore, dice Prete: perché lo è stata prima di salire verso la luce e la fissità della lettera e perché continua ad esserlo quando il lettore l’ascolta nel silenzio, e la protegge, sentendola come propria. E’ proprio attraverso la parola silenziosa della lettura che si stabilisce prima una condizione di prossimità e poi una relazione di intimità con il testo: con l’universo di sensi che il testo spalanca.
I libri di Antonio Prete credo – spero- di averli letti tutti, e ho sempre pensato che il punto più profondo dell’analisi, l’armonia dell’espressione, li avesse raggiunti con il Trattato della lontananza. Più di questo non può fare, mi dicevo. L’ho pensato fino a quando non sono arrivato alla p. 106 del Cielo nascosto, dove cominciano le cosmografie interiori. Ha potuto fare di più. In questo luogo del libro, Prete espone – indirettamente- il suo concetto di teoria, come spesso ha fatto in altri saggi, riferendosi alla scrittura critica, al metodo. Dice a un certo punto che la teoria è, nella sua origine, un vedere che si dispiega in sapere, un osservare nella luce che si svolge come conoscenza. E’ stata questa, infatti, la teoria di Antonio Prete: una visione tradotta in parola, un’osservazione che ha portato conoscenza resa in espressione, una curiositas verso le storie d’ogni genere, quelle della vita e quelle della letteratura, che poi sono esattamente l’identica cosa. Ecco: Antonio Prete ha dimostrato questo: che le storie della vita e quelle della letteratura sono esattamente l’identica cosa.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 18 settembre 2016]
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Il poeta, il paesaggio e il disegno del mondo: Tutto è sempre ora
Molte sono le forme di scrittura con cui si confronta Antonio Prete: perché molte sono le modalità con cui si osserva il mondo, molti i metodi con i quali lo si interroga, molti e diversi gli sguardi che gli si rivolge, molte le interpretazioni delle storie che lo attraversano.
Così, a volte il mondo e le sue storie richiamano Prete ad una interpretazione che ha la forma del saggio, altre domandano la forma di una narrazione, altre ancora quelle della poesia. Accade anche, quasi costantemente, che nella sua scrittura saggio e narrazione abbiano confini intenzionalmente incerti, facilmente sovrapponibili, che sfuggono a qualsiasi formula predefinita, ai vincoli canonici, alle convenzioni di genere.
La scrittura di Prete si piega a quella che vorrei chiamare la sentimentalità degli esseri e delle cose: risponde ad una domanda di senso che subordina la forma al tono e all’intensità della domanda.
Una delle sue risposte è di pochi giorni fa: un libro di poesia che esce per Einaudi con il titolo di “Tutto è sempre ora”.
Non è una raccolta. E’ un libro poetico, con una struttura organica, coerente, coesa, che si dipana da un nucleo tematico e semantico che, volendo, si potrebbe sintetizzare nel termine “paesaggio”.
Certo, volendo si potrebbe. Però sarebbe una sintesi incompleta e in quanto tale anche inespressiva. Forse compiutamente si potrebbe dire “L’ io nel paesaggio”. Non “un” io; ma “l” io. Quell’io preciso, identificabile, identificato, di colui che scrive: quella identità inequivocabile, irripetibile, unica, che si confronta, si (ri)guarda, si rispecchia in un profilo di nuvola, un fiore d’agave, le ombre tremolanti degli ulivi, l’apparizione di una luna nuova, un orizzonte, una duna, una riva, un lago di nebbia, un vicolo buio, la strada polverosa di un’infanzia, una lingua dialettale, antica.
Mentre leggevo i versi di Tutto è sempre ora, mi tornava in mente il nome di Borges. Il nome e nient’altro. Non riuscivo a spiegarmi il motivo. Non ci sono analogie di poetica fra Prete e Borges, mi sembra; non credo neppure che lo scrittore argentino possa rientrare fra le suggestioni poetiche dell’uomo che da Copertino è andato a insegnare Letterature comparate all’università di Siena, che ha scritto saggi fondamentali.
Poi ho capito, verso la fine del libro. Senza che nessun verso costituisse un riferimento preciso. Ho capito quando al nome di Borges si è associato quel passo de L’artefice in cui racconta di un uomo che si propone il compito di disegnare il mondo.
“Trascorrendo gli anni, popola uno spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di navi, d’isole, di pesci, di dimore, di strumenti, di astri, di cavalli e di persone. Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto”.
Ecco, dunque, l’analogia. E’ nella sentimentalità del paesaggio. Nella percezione consapevole o inconsapevole, ma inevitabile, di una rassomiglianza. Un luogo – un interno, un esterno-, a volte anche un oggetto – “il silenzio di una sedia”- rappresentano un tratto di volto, un’espressione dell’identità.
In fondo, il come siamo dipende anche dal dove siamo stati e dove siamo, dai luoghi dell’appartenenza (ma anche da quelli dell’inappartenenza, dell’esilio), dai luoghi del lontano e del vicino. Nella poesia di Antonio Prete i paesaggi sono, a volte, forme depositate sui fondali della memoria che la scrittura riporta in superficie. Una musica di banda nella piazza, le note di un’ouverture con lo squillo argentato dei clarinetti, perdute nell’aria di una sera di festa, tra le luci delle luminarie, ritornano, risuonano, nelle parole di una poesia.
Altre volte, sono immagini che passano continuamente negli occhi, che si ripresentano nitide, esatte, con tutta la significanza dei particolari, delle connotazioni che le configurano nella loro unicità. “La voce del sax fa capriole nell’aria. Un ragazzo suona, di la dall’aiuola. Sulle panchine di ferro, nel sole, donne scartano sandwich dai sacchetti”.
La scrittura in forma di poesia di Antonio Prete, si compone di due movimenti, di due avvicinamenti.
Il primo, volontario, è la ricerca che il soggetto che scrive fa del paesaggio, di quegli elementi che rappresentano tratti del volto, espressioni dell’essere, rivelazioni della rassomiglianza.
Il secondo movimento, involontario, consiste in una sorta di improvvisa apparizione degli elementi del paesaggio allo sguardo del soggetto che scrive.
Nel caso del movimento di ricerca, la parola si sviluppa come conseguenza di un processo di concettualizzazione.
Nel secondo caso, invece, la parola è una reazione rapidissima all’apparizione.
A questi due movimenti, che si verificano in una condizione di reciprocità, segue l’elaborazione testuale, la messa in scena dell’io nel paesaggio. E’ nel corso di questa fase che si accende la tensione verso “Quel punto dove il silenzio si sporge/ oltre il tacere”, dove forse si cela “il nido della parola”.
Quel punto, quel nido, è la sfida, il tormento, l’assillo della parola. Trovare quel punto, o nient’altro. “Farsi prossimo/ all’intimo delle cose”, oppure rinunciare alla poesia, rassegnarsi alla parola consueta. Riuscire a “vedere le lettere disanimate/ muovere verso il nome”, comporsi in una figura di paesaggio che ti rassomiglia, trasformarsi in voce di vento, respiro di albero, affanno di nubi, oppure dirsi serenamente, onestamente, che non c’è giustificazione per l’arroganza e l’umiltà della scrittura.
Inabissare la parola fino a farle sentire “il rumore dell’origine”, fino a farle “scorgere l’alba del conoscere”, fino a farla essere sentimentalità. Questo vuole fare con la poesia Antonio Prete.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 18 settembre 2019]