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Leopardi sul cannibalismo. J’ai vu quattre sauvage de la Louisiane qu’on amena en France, en 1723. Il y avait parmi eux un femme d’une humeur fort douce. Je lui demandai, par interprète, si elle avait mangé quelquefois de la chair de ses ennemis, et si elle y avait pris goῦt; elle me réspondit qu’oui; je lui demandai si elle aurait volontiers tué ou fait touer un de ses compatriotes pour le manger; elle me réspondit en frémissant, et avec une horreur visible pour ce crime.
Traduco
Ho visto quattro
selvaggi della Louisiana che furono portati in Francia nel 1723. Tra loro c’era
una donna dal carattere molto dolce. Le ho chiesto, tramite interprete, se
avesse mai mangiato la carne dei suoi nemici, e se le fosse piaciuta; lei ha
risposto di sì; le ho chiesto se avrebbe ucciso volentieri o fatto uccidere uno
dei suoi compatrioti per mangiarlo; mi rispose con un brivido e con visibile
orrore per questo crimine.
Ho tratto questa citazione dallo Zibaldone di Leopardi, alla data del 6 settembre 1823, p. 3365 del manoscritto, p. 2101 dell’ed. Damiani. Leopardi cita Voltaire che riferisce quando detto in una lettera al Principe Reale di Prussia, il futuro Federico II. Perché Leopardi, senza commentarla, riporta questa citazione? Per lui è una riprova dell’odio che l’uomo antico provava per l’altro uomo, ma solo in quanto nemico, appartenente ad un’altra tribù, mentre l’uomo moderno, sebbene si esima dal mangiare carne umana, è nemico dell’altro uomo che pure appartiene alla sua stessa nazione.
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Quando il bambino diventa uomo secondo Spengler, Il tramonto dell’Occidente, cit., p. 256: “… spesso il destarsi della vita interiore di un bambino si lega alla morte di un parente. (…) In questo momento decisivo dell’esistenza, nel quale soltanto l’uomo diventa tale e conosce la sua immensa solitudine nell’universo, l’angoscia cosmica gli si svela come angoscia schiettamente umana di fronte alla morte, come angoscia per il limite nel mondo della luce, come angoscia per la rigida spazialità. Questa è l’origine del pensiero in senso superiore, che a tutta prima è meditazione sulla morte.”
Tutto questo a me accadde quando avevo appena compiuto dieci anni, alla morte di mio nonno Luigi, nel maggio del 1973.
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Scrivere/parlare di sé. Giacomo Casanova, Storia della mia vita III xxi, cit. pp. 609-610, parla con il marchese d’Argens, che si è pentito di aver scritto di sé in un’opera giovanile. Alla richiesta di spiegazioni da parte di Casanova, ecco cosa gli dice il marchese e le riflessioni dell’autore: << “Perché con la smania di voler scrivere la verità, mi sono coperto per sempre di ridicolo. Se venisse anche a lei questa voglia, la respinga come una tentazione pericolosa. Le garantisco, infatti, che se ne pentirebbe, giacché come galantuomo non potrebbe scrivere che la verità e come storico obbiettivo sarebbe obbligato non solo a non tacere nulla di ciò che le è accaduto, ma anche a non avere pietà dei suoi eventuali errori e da buon filosofo, a dare il giusto rilievo alle buone azioni che certo ha compiuto. Così dovrebbe, di volta in volta, biasimarsi e lodarsi, ma tutte le sue confessioni di debolezze o errori sarebbero prese per oro colato, mentre quando dirà una verità che torni a suo vantaggio nessuno le crederà. Inoltre si creerebbe molti nemici, perché non potrà evitare di rendere di pubblico dominio segreti che non faranno onore alle persone con cui avrà avuto a che fare, e anche se non rivelerà il loro nome, qualcuno lo indovinerà e il risultato sarà identico. Amico mio, mi creda: se a un uomo non è consentito parlare di se stesso, ancor meno gli sarà permesso scriverne, perché la gente per l’ordinario non tollera una cosa simile se non da parte di un uomo che sia spinto dalle calunnie a difendersi. Dia retta a me, non si metta mai a scrivere la sua vita!”
Convinto delle sue argomentazioni, gli assicurai che non avrei mai commesso una simile sciocchezza. Ma nonostante ciò, vi ho messo mano sette anni or sono e mi sono impegnato con me stesso a perseverare sino alla fine, anche se mi sono già pentito. Scrivo nella speranza che questa mia storia non vedrà mai la luce e mi illudo che durante la mia ultima malattia, finalmente rinsavito, farò bruciare in mia presenza tutti questi quaderni. Se ciò non dovesse accadere, il lettore mi perdonerà, giacché quello di scrivere le mie memorie è stato l’unico rimedio cui ho pensato di far ricorso per non impazzire o morire di dolore a causa dei dispiaceri che mi procurano i farabutti che vivono nel castello del conte Waldstein a Dux. Infatti, costringendomi a scrivere dieci o dodici pagine al giorno ho impedito all’angoscia più nera di uccidermi o di farmi perdere la ragione. Ma ne parleremo a tempo e luogo.>>
Le raccomandazioni del marchese d’Argens, nelle quali è legittimo ravvisare il pensiero dell’autore, mi hanno fatto pensare a quanto dice Dante in Convivio I iii-xv: “Non si concede per li rettorici alcuno di sé medesimo sanza necessaria cagione parlare, e da ciò è l’uomo rimosso, perché parlare d’alcuno non si può che il parladore non lodi o non biasimi quelli di cui elli parla; le quali due cagioni rusticamente stanno, a far [dire] di sé, ne la bocca di ciascuno”, con quel che segue. Non si deve parlare di sé, e tanto meno scriverne, a meno che non sia necessario difendersi da calunnie che infanghino il proprio onore. Dante aggiunge che è lecito parlare di sé quando “grandissima utilitade ne segue altrui per via di dottrina” (Convivio I xiv). Leggiamo lo stato d’animo di Casanova, il rapporto con la sua opera. Egli spera “che questa mia storia non vedrà mai la luce”; ed anzi pensa, un giorno, in un momento di lucida saggezza, di bruciare i quaderni, che pure egli ha scritto come “unico rimedio” ai mali della sua esistenza. La piacevole scrittura casanoviana intesa e praticata come lenimento del dolore e salvaguardia della ragione (“per non impazzire”), baluardo contro i farabutti che si aggirano nel castello di Dux. Più avanti (III, xxii, p. 643), Casanova dirà: “… ogni giorno, infatti, divento più povero e devo ammettere di essere ormai alla fine della mia carriera.” Non si deve mai perdere di vista questo stato d’animo nel quale l’autore scrisse le sue memorie; ed è un miracolo che ne sia nata una simile piacevole scrittura.
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Totemismo in Ernst Cassirer, Filosofia delle forme simboliche II, Il pensiero mitico, “La Nuova Italia”, Firenze 1966, p. 250: “Per i gradi primitivi della concezione mitica non vi è ancora un taglio netto che divida l’uomo dal complesso dei viventi, dal mondo degli animali e delle piante. Così, in particolare, il ciclo rappresentativo del totemismo è caratterizzato proprio dal fatto che ivi l’ “affinità” tra uomo e animale o, più esattamente, l’affinità tra un determinato clan e il suo animale totem o pianta totem vale non in senso figurato, ma nel senso proprio della parola. Anche nelle sue azioni e nelle sue faccende, nella sua intera forma e maniera di vita, l’uomo non si sente separato in alcun modo dall’animale. Si racconta ancor oggi dei Boscimani che quando vengono invitati a dire le differenze tra l’uomo e l’animale non ne sanno addurre alcuna.”
Questa interpretazione del totemismo getta luce su quanto si è detto a proposito del rapporto di noi moderni con gli animali. Abbiamo rinnegato il nostro essere animale, con un’operazione che, se nell’immediato ci ha dato un potere predatorio sul resto dei viventi, alla lunga si è rivelata autodistruttiva, poiché noi continuiamo a tagliare il ramo dell’albero sul quale siamo seduti, il ramo della vita. Cassirer ci ricorda che ci fu un tempo in cui noi umani non ci consideravamo diversi dagli altri animali, come testimonia l’esempio dei Boscimani.