Zibaldone galatinese (Pensieri all’alba) XXXV

di Gianluca Virgilio

Il Cristo di Nietzsche, ne L’anticristo, in “Opere di Friedrich Nietzsche” vol. VI tomo III, Edizione italiana condotta sul testo critico stabilito da Giorgio Colli e Mazzino Montinari, Adelphi, Milano 1986 (I ed. 1970), p. 203, com’è accogliente! E’ il Cristo della “buona novella” del Vangelo, appreso con occhio filologico e filosofico, un Cristo senza inferno e senza peccato: “In tutta quanta la psicologia del Vangelo manca la nozione di colpa e di castigo; come pure quella di ricompensa. Il “peccato”, qualsiasi rapporto di distanza tra Dio e l’uomo è eliminato – precisamente questa è la “buona novella” -. La beatitudine non viene promessa, non è associata a condizioni: essa è la sola realtà – il resto è segno per poter parlare di essa …”.

Cristo dopo Epicuro. Non è paradossale che si sia dovuto scrivere L’anticristo perché apparisse nitida – come la comprese Nietzsche – la figura storica di Cristo?

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Catastrofe antropologica. “Negli ultimi quarant’anni si è aperta una voragine storica, quasi fosse trascorsa un’era geologica.  (…) in pochi decenni, il cataclisma storico ha portato alla scomparsa di un certo tipo di uomo e all’apparizione di un “uomo nuovo”. In altri termini, la catastrofe è stata, anche o soprattutto, antropologica (già a metà degli anni settanta, Pasolini parlava di “mutazione antropologica”). (…) Vuol dire non solo che, nell’uomo, “tutto” è cambiato, ma anche che questo mutamento “totale” riguarda, in un modo o nell’altro, la totalità degli uomini (almeno di una determinata area geo-culturale). (…) tra il vecchio uomo, che solo per comodità chiameremo novecentesco, e l’uomo nuovo, che possiamo chiamare anche neoliberale (…) si è aperto un abisso storico, che è in primo luogo un abisso di non comunicazione, di non empatia, di estraneità. L’uomo nuovo si rivela sempre più “insensibile” a tutto quello cui invece il vecchio uomo era sensibile o ipersensibile.” Lo scrive Pierangelo Di Vittorio, Parole che non funzionano. I saperi critici alla prova, in “aut aut” 388, dicembre 2020, pp. 23-24. Ed io ripenso a Raffaele Capria e alla sua lettera a Sofia (vedila in questo Zibaldone), al suo tentativo disperato di creare una comunicazione tra due età della vita, la sua di uomo del novecento e quella di Sofia, nativa digitale. Mi chiedo se sia possibile sfuggire a questa disperazione e tutto quello che mi viene in mente è la scena del film di Truffaut, Fahrenheit 451, nella quale gli uomini-libro si aggirano soli nella foresta, lontano dalla città, è ripetono a memoria i vecchi classici.

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