E il viaggio di Ulisse, che si volge nell’oscurità nel momento in cui volge la prua verso la notte, continua nell’oscurità delle Malebolge, un’oscurità illuminata dall’unica luce che è quella della fiamma nella quale è intrappolato per l’eternità, della sua lingua parlante per mezzo della quale, il fraudolento, è costretto a “gittar voce di fuori”, a ripercorrere il viaggio narrando il suo “rècit de la fin”, lo chiama Boitani, a raccontare la sua storia caratterizzata dall’ineluttabile – ancora Boitani – “telos narrativo che è thanatos”. Fruga in una memoria rischiarata da luce di luna e di stelle per narrare a Dante di un destino di morte che può coglierlo solo nell’”alto mare aperto”, perché quel mare è il suo destino, l’irresistibile incanto del bagliore dell’alto mare.
Ma c’è un Ulisse che, navigando attraverso i secoli, approda al Novecento e per un istante che sembra lungo quanto il tempo di una vita immortale, al posto del mare sceglie un’isola e lo attrae il pensiero non delle acque profonde ma della terraferma. È l’Ulisse di Pavese, che si racconta dialogando con la ninfa Calipso nei Dialoghi con Leucò.
È sempre Ulisse. Sempre il fraudolento, l’uomo dal multiforme ingegno, l’artefice dell’inganno del cavallo che si insinua dentro le mura di Troia e la brucia. Ma l’Ulisse di Dante ha in sé un ardore che nell’Ulisse di Pavese sembra, per un momento, affievolirsi. Per l’Ulisse di Dante, non c’è desiderio di nostos che possa frenarlo dall’andare per mare, non esiste affetto che possa vincere il tremore della scoperta, la sublimazione dell’oltrepassare la “foce stretta” di Gibilterra, dinanzi alla quale ogni residuo di razionalità scompare: non esistono più coordinate geografiche o conoscenza materiale ma solo la soglia della sua coscienza che lo spinge a spiegare le ali per il “folle volo”, dirottandolo verso la morte. La smania di Ulisse per l’avventura e l’insaziabile furia di conoscenza, per un momento, in Pavese, vacilla. E se non viaggiasse più? E se si fermasse? E se si adagiasse, in cerca di riposo, sull’isola? Fermarsi, gli dice Calipso, significa accettare un orizzonte. E magari potrebbe scegliere proprio quell’’isola, quell’orizzonte, potrebbe scegliere lei e continuare, insieme a lei, quel sonno di quiete e, insieme a lei, pregare che l’alba mai arrivi a scuoterla e a svegliarla, che non la desti da un sonno stropicciato nel quale Ulisse si è introdotto come un sogno. E l’Ulisse di Pavese abbandona l’ossessione di un’ascesa all’immortalità, di un perseguimento del nuovo attorno al mondo.
Cos’è stato finora il suo errare inquieto? Domanda Calipso. Ulisse non lo sa. Ma poi sembra avere un’illuminazione: “Quello che cerchi l’ho nel cuore, come te”. Allora, forse, l’eroe comprende di non dover andare, poi, così lontano, non più lontano di dove è il suo cuore, che in quell’accettare l’istante c’è l’immortalità che tanto ricerca, che tutto quello di cui ha bisogno è proprio l’istante di una vita mortale, unico, irripetibile, non è andare ma fermarsi, fermarsi e costruire, fermarsi e consolidare amori, affetti, gioie e dolori. Quello che cerca non è fuori di lui ma dentro di lui. Quello di Pavese sembra un Ulisse più stanco, più rassegnato o, forse, semplicemente più umano. È il fraudolento che può fermarsi per vivere di istanti mortali e non dell’agognata immortalità. È un Ulisse che ha nel cuore un errare inquieto e per un momento la felicità che cerca è in lui e non nell’illusione di chiudere gli occhi per figurarsi una terra da avvistare.
Ma c’è qualcosa che unisce l’Ulisse di Dante e quello di Pavese, ed è proprio un istante di illusione che è poi, in fondo, la conferma di essere mortali. L’Ulisse dantesco muore in mare, esattamente un momento dopo che in lui abbia preso corpo la grande illusione di aver raggiunto quello che scambia per un nuovo mondo – che si rivela essere la montagna del Purgatorio, – rimanendo vittima di un Eden e di un Dio che non conosce.
L’Ulisse di Pavese per un momento scopre un altro lato di sé, un lato mortale, ed è affascinato dall’idea di scegliere quell’isola, di fare di quell’isola il suo orizzonte, la fine del suo vagare. In Pavese l’ardore che brucia nella “fiamma antica”, sembra quasi acquietarsi per un momento, spegnersi nell’illusione di una felicità terrena, di un orizzonte da trovare nel suo cuore. E cosa cerca il cuore dell’uomo? Pavese non ci dà una risposta, lasciando anche noi nell’illusione. Ulisse si illude perché, poi, ripartirà da Ogigia, abbandonerà Calipso e, fino alla fine, il suo destino non sarà una nostalgia o un nostos che si conclude con un ritorno agli affetti, ma solo un “errare inquieto” che, certo, lo condurrà a compiere, sempre, il “folle volo”.
Ulisse non potrà fermarsi. Si ritroverà ancora all’inseguimento di un qualcosa di grande, così grande, più grande di lui e di tutta l’umanità intera. Si ritroverà ancora a solcare i mari alla ricerca di un infinito, alla ricerca di un altro approdo, di un’altra isola ancora, cavalcando onde e affrontando gorghi, sognando di intravedere un nuovo orizzonte, remando e navigando affaticato, curioso, bramoso di conoscenza, remando e navigando senza pace e senza posa,
Infin che ‘l mar fu sopra noi richiuso.
[“Clinamen” n. 19, giugno 2021]