La vicenda di questo libro è già tracciata nelle linee e nei personaggi essenziali: la funzione autore, lo scrittore, il lettore-critico, considerati negli stretti rapporti che li legano. In questo primo capitolo Augieri si accompagna ai maestri del pensiero critico novecentesco, dopo Bachtin, Benjamin e Ricoeur, che in un’analisi narratologia risulterebbero essere aiutanti dell’autore: “la mia riflessione vuole porsi come un racconto di un ragionevole “incontro” tra i concetti critici dei tre studiosi” (p. 30); e più avanti egli parla di questi “studiosi, trasformati in personaggi ‘critici’ “ che “vengono fatti incontrare … allo scopo di comprendere il sommerso semantico, il suo sottinteso allusivo, fino alle profondità di un senso che appartiene a un autore culturale, ispiratore dello stesso scrittore, ‘scrivente’ del testo” (p. 48).
Benjamin ha ben capito la differenza tra “contenuto reale” di un testo” e “contenuto di verità”: “Il “contenuto reale” è in ciò che in un testo è analizzabile dal lettore ‘chiosatore’, osservatore, e costituisce il materiale compositivo utilizzato dallo scrittore: la materia linguistica con il suo significato ‘proprio’, chiuso entro il tempo corto della scrittura, che è palese lungo il corso della sua durata fruitiva sin dalla sua ‘messa in opera’. Il “contenuto di verità”, invece, costituisce ciò che è ‘nascosto’, sottinteso, in un testo” (p. 31), che solo il tempo, e l’opera infaticabile del lettore potrà metter in luce.
Di Ricoeur, poi, si evidenziano gli studi sull’interpretazione e il primato che egli assegna alla “verità intenzionale della scrittura, a scapito della conoscenza della sua referenza ‘materiale’ e cosale” (p. 56). Come dire che ogni opera è dotata di un’intenzione, sta al lettore scoprirla e renderla attuale.
Se il primo capitolo pone le premesse teoriche e critiche del libro, il secondo immette il lettore nel cuore interpretativo dei fatti letterari. Esso ha per titolo: “Un personaggio-lettore del tardo Impero in cerca d’autore: Agostino e Le confessioni come viaggio intertestuale di formazione ermeneutica”. Si tratta di un capitolo molto interessante, nel quale Augieri legge le Confessioni agostiniane “come un romanzo di formazione di una coscienza interpretante, in cui un lettore personaggio racconta in prima persona la sua azione solitaria e, insieme, dialogica, del leggere” (p. 61). E’ solo un’impressione, ma leggendo quanto scrive Augieri di Agostino, del suo cercare “di ottenere con la lettura, finalmente, la risposta agli interrogativi mentali, umani, esistenziali, di uomo vissuto nel periodo difficile della crisi tardo-imperiale” (p. 61), mi è sembrato quasi di intuire una sorta di identificazione letteraria, come se, insomma, Augieri si ritrovasse appieno nella ricerca del suo personaggio-lettore. Ritornano infatti, a proposito di Agostino, concetti come quello della interpretazione considerata come un “sentirsi dire da una voce”, il leggere come ascoltare e il comprendere come dialogare, la distinzione tra autore e scrittore applicata al testo biblico, Dio “autore primario”, Mosè “autore secondario”, rispettivamente nel tempo grande e corto della storia umana (pp. 65 e segg.).
Centrale rimane sempre la “funzione autore”, che nel capitolo terzo, dal titolo “La parola testimoniale del personaggio e la de-mitizzazione della funzione-autore: Sartre e Améry”, viene individuata nella “parola ‘testimoniale’ autocosciente e responsabile del personaggio… l’io personaggio non si identifica come semplice soggetto agente, bensì si riconosce come autore del compiere, autore-responsabile degli effetti che il suo agire opera sull’altro, sentito come testimone di ciò che egli ‘fa’ nel suo autodesignarsi e riconoscersi come attore partecipe ed imputato” (p. 103). Insomma, la funzione autore, che per Agostino si identifica con Dio stesso, autore primario delle Scritture, in scrittori come Sartre si invera nello scrivere autobiografico che è “un lento, continuo liberarsi dalla “funzione d’autore” come eccedenza di senso affabulante, responsabile addirittura del sapere mitico, che perdura ancora, secondo il filosofo-narratore francese, pur nella contemporaneità, in quanto la ‘maschera’ dell’autore si è trasformata solo superficialmente…” (p. 107). Così pure in Améry, che racconta l’esperienza di Auschwitz, “i personaggi possono riconoscere il loro sé esperienziale solo raccontandosi essi stessi come autori-testimoni” (pp. 114), in questo modo riassorbendo in sé la funzione autore.
Il capitolo quarto è dedicato a Ernesto de Martino ed è intitolato “Dramma storico e oltrepassamento narrativo del senso: de Martino e la funzione-autore del simbolo”. L’antropologia demartiniana, scrive Augieri, “si caratterizza come opera narrativa”, vero e proprio dramma, con “un uomo-presenza (soggetto d’azione), la storia (scena dell’agire umano), e cultura (datrice di senso all’agire e di ragioni e spiegazioni al soggetto agente)” (p. 117). Quest’ultima, con il suo simbolismo magico religioso, “protegge la presenza dalla drammatica condizione storica di inenarrabilità, riscattandola, liberandola…” (p. 122-123); in essa, dunque, si incarna la “funzione autore”, che rende possibile ogni narrazione. Scrive Augieri: “Ha ragione de Martino: il dramma della modernità, con il venir meno della forma narrativa e, dunque, della possibilità che hanno il simbolo ed il mito di essere significanti compositivi in grado di mettere in forma, dunque di significare metastoricamente la crisi della storia, consiste nello scadere in una apocalisse culturale tra le più angoscianti e drammatiche, perché senza riscatto…” (p. 129); a cui ci si può sottrarre soltanto con un “trascendimento umanistico, aggiunge lo studioso, civilmente costruttivo, in cui l’altro, al quale rivolgersi, è antropologicamente l’altro uomo, l’altro appartenente alla comunità umana plurale, da qualunque cultura, da qualsiasi condizione sociale ed area geografica provenga” (p. 131).
“Fisiognomica zoomorfica in Tozzi, Landolfi, Pirandello: l’animale e il soccorso figurale della funzione-autore”: così è intitolato il quinto capitolo, nel quale il critico passa in rassegna, avvalendosi soprattutto dei contributi di Hegel, Lévi-Strauss e Freud, le immagini di animali presenti nella letteratura ed in particolare negli autori menzionati nel titolo. Che c’entra la funzione autore con tutto questo? E presto detto: “… gli uccelli e i cani notturni leopardiani, il corvo di Poe, il gatto di Baudelaire, la gallina di Saba, il ramarro di Montale, l’allodola di Ungaretti… si tratta di animali-immagini che non configurano logiche significanti, né significati enigmatici, ma un sentimento tipicamente contemporaneo: lo spaesamento, derivato dal fatto che l’uomo occidentale oggi vive una ‘crisi di presenza’ non protetta, né riscattata dall’intervento simbolico della sua cultura” (pp. 138-139). L’animale, dunque, “trasforma la fine apparente del personaggio in una possibilità altra di vedere e di sentire: da quello stato di presenza in crisi e di torpore involontario, in effetti, l’uomo ha la possibilità, altrimenti mai realizzabile, di ‘ascoltare’ verità nascoste, censurate, oppure di poter fare esperienza diretta di timori reconditi, di paure presupposte” (p. 154). L’animale diventa il motore della narrazione, dunque, ci par di capire, il depositario della funzione autore.
Infine, il capitolo sesto, “Sul personaggio parlante come autore: Kierkegaard, Mann e la riscrittura del tacere del mito”, nel quale Augieri propone due approcci diversi al mito antico. “La ri-scrittura, egli dice, è … un ritorno, un soffermarsi (un non andare oltre) a quello che la scrittura ha già raccontato: la scrittura ‘perdura’ nella riscrittura…”, secondo il “tempo grande” della funzione autore. Così Kierkegaard riscrive l’episodio di Abramo che deve uccidere il proprio figlio, lasciando muto l’eroe biblico: un autore onnisciente parla per lui, attraverso la muta gestualità del personaggio. Nel Novecento le cose cambiano: la riscrittura da parte di Mann della storia biblica di Giuseppe ha smarrito questo tipo di funzione autore, ma ne ha ritrovato un altro: alla parola mitica che “pretende fedeltà e obbedienza”, Mann contrappone “la parodia…, la carnevalizzazione della parola biblica… relativizzante e irriverente” (p. 177); bachtianamente, “carnevalizzazione” significa cedere la parola all’altro, confrontarsi con l’altro, secondo un parlare dialogico di cui tuttavia, finisce col dire Augieri, rimane responsabile l’individuo contemporaneo: “L’uomo non può sottrarsi alla sua soggettività parlante, conformandosi silenziosamente al senso generale della sua cultura, entro cui perdersi come individuo muto, né includendosi anonimamente in una totalità sineddotica, ma facendosi parte partecipe e contigua di una comunità storica, affacciata a un’etica responsabile… La storia perderebbe un suo gregario, acquisterebbe però certamente e, comunque, un suo testimone e, dunque, un suo personaggio con la responsabilità di parlare, di raccontare come ‘autore’ “ (p. 178).
Questa è l’esito cui perviene quella che lo stesso Augieri ha definito in Premessa come “l’odissea della funzione autore” (p. 4), che, se da una parte dà conto della storia millenaria della tradizione letteraria occidentale, in cui la scrittura e la lettura sono state centrali nella storia dell’uomo, dall’altra lascia aperta ogni possibilità di ulteriore sviluppo del discorso letterario. Pertanto, dal momento che solo dal lettore dipende il futuro della letteratura, al lettore, alla sua capacità critica, in conclusione, si potrebbe rivolgere la difficile domanda: quale funzione autore egli prepara per il futuro?
[Poetica della lettura (recensione a Carlo Alberto Augieri, Leggere, Raccontare, Comprendere. Narrazione come Ermeneutica, Liguori Editore, Napoli, 2009), “Il Paese Nuovo” di sabato 3 aprile 2010, pp. 6-7.]