Così viene da domandarsi quale senso possa avere una conoscenza che rimanga separata dall’esistenza. Quali significati possa produrre se non quelli di sterile nozione, percorso che non lascia alcuna traccia, incontro episodico e casuale, evento senza storia, maglia sfilacciata nel tessuto della memoria.
Non c’è stato il bisogno o il desiderio di oltrepassare la superficie della conoscenza, di approfondire. Forse perché non c’è stata meraviglia. La tecnologia ha determinato un’abitudine anche all’effetto speciale. Sappiamo che quell’effetto si può verificare e quindi ce lo aspettiamo, per cui quando accade non ci sorprende, non ci meraviglia. Sappiamo già tutto o così almeno ci sembra. Non c’è nessun giudizio da dare. In questo tempo, e da tempo, è così: diversamente da com’era in un altro tempo e da come sarà nel tempo a venire. Non c’è nessun giudizio da dare. Si può soltanto constatare che la meraviglia è scomparsa. E’ una condizione culturale con la quale ci si deve necessariamente confrontare e fare i conti. Forse nei confronti della conoscenza essenziale siamo diventati soltanto spettatori, talvolta anche un po’ distratti. Le immagini, i testi, i fenomeni, i fatti, le storie da cui siamo circondati non ci richiamano, non ci affascinano, non ci turbano, non ci entusiasmano, non ci coinvolgono. Ne prevediamo l’accadimento, per cui quando avvengono non provocano nessuna meraviglia.
Abbiamo perduto la meraviglia e non c’è nulla da fare. Però si potrebbe anche ipotizzare che stia maturando o sia maturata una meraviglia nuova dalla quale chi appartiene ad un’età diversa dall’infanzia resta inevitabilmente escluso e non può fare altro che sentire la nostalgia della meraviglia che ha provato e lo ha portato a cercare di realizzare una conoscenza. Forse chi ha un’età diversa da quella dell’infanzia non può fare altro che sentire nostalgia per una meraviglia che lo ha sorpreso dalle righe di un romanzo, dall’immagine di una poesia, dalla luce di un Caravaggio, dai versi di una canzone che veniva da un jukebox, dall’apparizione di una grande città all’uscita dalla stazione, dalle parole e dai numeri che si componevano come per un incantesimo sui fogli di un quaderno in un mattino di scuola, e poi dalla pronuncia di una parola straniera appena imparata e poi di un’altra ancora.
Forse la meraviglia si può ritrovare tornando nelle stanze in penombra della memoria.
“Nuovo Quotidiano di Puglia”, domenica, 20 giugno 2021
per cui aprendola non proveremo né felicità né delusione, non ci meraviglierà la forma o il contenuto, e probabilmente lo metteremo da parte quasi subito.
Forse è questo il pericolo che si nasconde nella conoscenza senza ricerca, nell’apprendimento senza meraviglia: la rapida rimozione o archiviazione di quello che si conosce senza che ad esso sia stato attribuito un valore, in quanto il valore della conoscenza è determinato dalla sua resistenza nel tempo.
Nella cultura che abitiamo, gli apprendimenti che resistono nel tempo sono pochi, sono sempre di meno, perché finalizzati a qualcosa che serve in un determinato giorno, in una determinata ora, per una situazione, per un’occasione, una contingenza, ed è possibile conoscere quello che serve in un minuto, soltanto quello, trascurando ogni relazione, ogni connessione con il resto e il contesto. Spesso, nella ricerca, la meraviglia è provocata dalla scoperta di qualcosa che non si cerca, per il fatto che in qualche caso se ne ignora anche l’esistenza.
La storia della scienza è attraversata dalla meraviglia e dalla casualità. Molto di quello di cui si ha conoscenza viene appreso per caso. Cercando altro.
Come quando si cerca un libro in una biblioteca. Più che a trovare quel libro, il senso del cercare consiste nello scoprire quali altri libri ci sono.
La ricerca nelle biblioteche è una metafora della meraviglia causata dalla scoperta casuale. Perché una biblioteca contiene il mondo: quello reale e quello immaginario, e l’uno e l’altro frequentemente si scoprono per caso.
Abbiamo perso la meraviglia e non possiamo farci niente. E’ troppo tardi. L’abbiamo persa forse per innumerevoli ragioni. Una di queste consiste nel progressivo, e inarrestabile, insinuarsi della tecnologia in ogni spazio della vita quotidiana. Ma non si insinua autonomamente: siamo noi che la facciamo penetrare in ogni situazione, anche quando non serve o si può rivelare addirittura controproducente. Alla tecnologia che serve si devono alzare altari. Se non altro perché ci rende sopportabili molte faccende che non sopporteremmo. Ma ho visto con i miei occhi qualcuno che metteva in funzione il navigatore per trovare il palazzo ducale di un paesino del basso Salento. Mentre era concentrato a seguire le indicazioni, è passato davanti alla meraviglia di un’ edicola votiva circondata dai colori sfavillanti di un glicine, e non se n’è accorto.
Ma tanto, se avesse visto quel volto di Madonna screpolato e bellissimo, se avesse visto il trionfo di quel glicine, li avrebbe immediatamente fotografati con il rampollo dell’ultima generazione di smartphone. Senza guardarli.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 20 giugno 2021]