di Viator
Ormai sono come un vento che si tace,
come un frutto che si spicca e si ripone,
come un mare increspato d’ironia,
sono solo futura rimembranza,
a tal punto mi consuma una dolcezza
d’essere vivo e di sentirmi mortale
che ne piange l’anima mia che non conosco.
.
S’annida l’essere mio profondo in un celeste
con un battito d’ali
e resto immobile a scrutare se mai un segno
sia la mia stella fissa,
la mia stella fredda,
la mia stella morta.
Ercole Ugo D’Andrea (Galatone, 1937-2002) è una delle voci più delicate del Novecento poetico salentino, una voce che giunge lontano fino a farsi apprezzare da poeti come Mario Luzi e Carlo Betocchi, oltre che da critici nazionali e locali, da Silvio Ramat a Oreste Macrì, a Donato Valli, a Mario Marti, a Gino Pisanò. Fine e colto. Echi rilkiani e hölderliniani s’espandono fra i suoi versi di un crepuscolare lirismo, ora più nobilmente letterario ora più intimistico, la Madre, le Nonne, e domestico, con le piccole cose di casa e dell’orto, coi fiori e i frutti del giardino. La sua non fu una formazione tranquilla e spensierata. La guerra e la malattia, con le loro traversie.
In questa poesia, compresa nella raccolta La confettiera di Sèvres (1989), si coglie un momento di sconforto. Egli è ripiegato in se stesso in una riflessione didascalica della sua condizione. Quando la compone, 7 maggio 1982, ha 45 anni. Pensa di essere giunto ad un punto nodale della sua esistenza di uomo e di poeta e s’interroga su un futuro di cui non riesce a vedere nulla di significativo. È malato da quando era giovane. La malattia gli avrebbe condizionato la vita, gli avrebbe procurato incertezze esistenziali. Avverte dentro di sé un’energia che volge allo spegnimento: “sono come un vento che si tace” e in variazione di metafore: “come un frutto che si spicca e si ripone”. Ma lo stato d’animo non è di disperante sofferenza – “vento” e “frutto” sono metafore di vitalità – bensì di vigile ironica consapevolezza, “come un mare increspato d’ironia”. Vive il presente, che avverte come vuoto, solo come sterile “futura rimembranza”. Tuttavia gli è così dolce sentirsi ancora “vivo” e “mortale” che, straniandosi dalla sua stessa “anima”, si profonde “con un battito d’ali” nel “celeste” e scruta per vedere se ancora c’è qualche segno nel suo destino. Ma non c’è speranza alcuna. Il poeta percorre per intero il succedersi di stati d’animo come a dimostrare a se stesso di non essersi arreso subito. Ma per il momento non può che constatare: “la mia stella fredda, / la mia stella morta”.
[“Presenza Taurisanese”, Anno XXXIX n. 328 – maggio-giugno 2021, n. 328, p. 7]