Frank è un impiegato e fa “il lavoro più cretino che si possa immaginare”, April è un’attrice dilettante e il romanzo si apre proprio con la messa in scena dello spettacolo della Compagnia dell’Alloro con April come protagonista e Frank “che sedeva mordicchiandosi le nocche, nell’ultima fila” e chiunque l’avesse notato “l’avrebbe preso più per lo spasimante che per il marito di April”.
Ma la vera messa in scena, il vero teatro di volti deformati e voci rotte dall’ira e dall’odio, è quello che si svolge in casa nel momento in cui non è più possibile soffocare le frustrazioni della routine, il disincanto di una giovinezza che inizia a svanire e a frantumarsi nelle costrizioni della vita matrimoniale. Così, April e Frank si trovano a litigare, a contorcersi ciascuno nella propria insoddisfazione, sfogandola contemporaneamente l’uno sull’altra in una grottesca danza di indesiderate rivelazioni, accuse e ritrattazioni, fughe, ritorni, offese. E come ombre insignificanti prendono parte a questa danza anche i due figli e il terzo mai nato, vittime inconsapevoli di due esseri umani che, in fondo, nutrono scarso affetto l’uno per l’altro. Non è amore, il loro, ma solo esangue incapacità di essere felici, sforzo immenso per trattenere con braccia deboli i muri di una costruzione destinata a crollare, gente alla deriva in un “mondo triste, grigio, mortale”.
Cos’è, tuttavia, che potrebbe riuscire a tenere insieme la costruzione abbastanza a lungo da permettere loro di vivere una vita intera insieme, senza farla cadere a pezzi? April escogita una soluzione, qualcosa che rinnovi i loro animi, che abbia il sapore di una nuova occasione, di un nuovo inizio, che possa aiutarli a trovare nuova ispirazione: trasferirsi a Parigi. E Frank, travolto dall’entusiasmo contagioso di April, accetta la proposta. Ma la prospettiva del viaggio comincia a farsi sempre più lontana, a rimpicciolirsi sullo sfondo fino a diventare solo un’illusione che si frantuma dinanzi agli sguardi scettici dei vicini, alle loro facce incredule e soprattutto, alla notizia dell’arrivo di un terzo figlio. Questa notizia si insinua subdolamente nel cervello di Frank – nel suo cervello di impiegato adultero che svolge una mansione priva di significato e abbellisce i suoi discorsi con imprecisi riferimenti letterari – fino a diventare sempre più ingombrante, lo avvolge e lo consuma come un cancro fino a indurlo a scegliere l’infelicità: April è incinta e, dunque, partire risulta impossibile. Ed è incredibile come Frank riesca a scegliere sempre le parole sbagliate, sempre le più sbagliate, con il suo tremendo pensare e ripensare, formulare un pensiero e poi ritornare sui suoi passi incespicando, sempre insicuro, sempre bloccato in un retropensiero incessante, che inceppa il meccanismo di quel ragionare che si cela dietro alle viscide parole che, finalmente, gli escono di bocca. E alla fine, quell’inetto incapace di amore che è Frank Wheeler sceglie la propria infelicità. Frank è un vinto. Ma anche April è vinta. E, forse, di amare è incapace anche lei. Tra i due non c’è uno sottomesso all’altro. Sono pari, in equilibrio tra la caduta nel baratro dell’adulterio e la disperata tensione verso una felicità irraggiungibile. Nessuno vince. Nessuno si salva.
E mentre le loro vite vengono trascinate verso il culmine raggelante del romanzo, April Wheeler diviene artefice e vittima di un’agghiacciante mascherata dell’orrore. Quel ruolo di moglie devota che April si è stancata di recitare nella vita, che ogni sera attende a casa il marito, culmina nella perfezione di un’ultima messa in scena: dopo il mostruoso litigio finale – le urla, la notturna fuga nel bosco di April, il sonno agitato di Frank – April regala a Frank un momento di spensieratezza, gli concede il perdono prima della tragedia: una colazione apparecchiata come un teatrino, uno spettacolo in cui lei è la prima attrice e lui un primo attore inconsapevole dagli occhi luccicanti e colmi della ridicola illusione di aver finalmente dato la giusta direzione al proprio matrimonio. Ma quando Frank esce di casa, dopo un bacio incerto e tremante sulle rigide labbra di April, il sipario si chiude. E dietro il sipario chiuso, la casa si appresta ad accogliere l’orrore dell’aborto.
April, così, abbandona la scena. La prima attrice si immola, trascinando con sé nell’abisso anche l’attore del dramma che c’è sempre stato solo in forma di assenza: il figlio mai nato.
Alla fine Frank, abbandonato insieme ai suoi due figli, resterà solo con i suoi pensieri. Ma, dopo aver percorso correndo, folle di dolore, tutta Revolutionary Road, lascerà per sempre quella strada, perché lì è la casa in cui ha vissuto con April, su quella strada che, per il tempo di un tragitto in macchina, è stata la felicità.
[“Clinamen” n. 19, giugno 2021]